Chi compie azioni suicide è da considerarsi shahîd, martire? Cosa dicono fonti ed esperti religiosi musulmani

Questo articolo è pubblicato in Oasis 7. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:45:17

La parola shahîd, correntemente utilizzata ai nostri giorni per designare il “martire”, e il suo plurale shuhadâ’, corrispondono etimologicamente al greco martys e significano “testimone”. Nel Corano incontriamo il termine 55 volte, per lo più nel senso giuridico di testimone. In tre casi si tratta chiaramente di “martiri”. Ecco i testi [nella traduzione di A. Bausani, N. d. R.]:

«Coloro che obbediscono a Dio e al Suo Messaggero, saranno insieme con quei Profeti (nabiyyîn), quei Giusti (siddîqîn), quei Martiri (shuhadâ’), quei Santi (sâlihîn) cui Dio elargì i suoi favori: compagni, invero, sublimi!» [4,69];

«E scintillerà allora la terra della Luce del Signore, e sarà spalancato il Libro, e saran condotti i Profeti (nabiyyîn) ed i Martiri (shuhadâ’), e sarà pronunciato Giudicio secondo Verità fra gli uomini, e non sarà fatto loro alcun torto» [39,69];

«E coloro che avran creduto in Dio e nei Suoi Messaggeri, saranno i veraci (siddîqîn) e i testimoni (shuhadâ’) presso il Signore; avranno la loro mercede e avranno la loro luce; mentre coloro che rifiutaron la Fede e smentirono i Nostri Segni saranno gente d’Inferno» [57,19].

Mi limiterò al proposito a tre osservazioni testuali: la prima è che nella traduzione francese del Corano di Muhammad Hamidullah, che ha assunto un carattere quasi ufficiale nella comunità musulmana francofona, il termine “martire” (martyr) si trova solo due volte in tutto il Corano: in 3,140 e qui in 4,69.

Seconda osservazione: in tutti e tre i casi appena citati abbiamo un’enumerazione di “giusti” che ricorda certi passi del Nuovo Testamento, qui la successione è nabî, siddîq, shahîd e sâlih.

Terza osservazione: i tre versetti sono gli unici passi tra le 55 occorrenze di shahîd che presentino un’enumerazione di giusti divisi in categorie. Concordo pertanto con la traduzione di Bausani («profeti, giusti, martiri e santi»), anche se essa può sorprendere. Il Corano non impiega mai la parola qiddîs, usuale tra i cristiani per designare un santo. Di contro, il sostantivo plurale sâlihûn/în si trova 30 volte e corrisponde abbastanza precisamente a questo senso. Se le cose a livello del discorso coranico stanno in questi termini, come si spiega che il martirio abbia assunto una tale importanza nell’Islam? E soprattutto che il termine shahîd sia utilizzato con così grande frequenza per designare ogni genere di persone decedute?

1. Ogni persona uccisa violentemente è chiamata “martire”. Così i 168 soldati libanesi morti nel nord del Libano tra il 20 maggio e il 2 settembre 2007 in occasione di scontri con i “combattenti” (terroristi) di Fath al-Islâm nel campo profughi palestinese di Nahr al-Bared, sono unanimemente chiamati shuhadâ’. Bisognerebbe chiamare “martiri” anche i civili palestinesi o libanesi che sono stati uccisi per errore durante gli scontri? Allo stesso modo le persone morte alla fine di gennaio del 2008 durante la manifestazione di protesta degli sciiti sono state chiamate “martiri” dalla folla e dalla stampa. E ancora tutti gli uomini di Stato, giornalisti e altri che sono stati uccisi negli attentati degli ultimi anni in Libano sono unanimemente chiamati “martiri” e dei martiri ricevono gli onori. Ciò è stato particolarmente evidente per il Presidente Rafiq al-Hariri, ma anche per molti altri. Insomma, a ogni persona uccisa con la violenza, per lo più per motivi politici o semplicemente in seguito a una sommossa politica, è affibbiato il titolo di martire.

2. Altri esempi: morti per accidente o malattia. Nel mese di novembre 2007 sono stati ripescati al largo delle coste italiane i corpi di egiziani e le spoglie sono state rimpatriate in Egitto. Si trattava di immigrati che cercavano di penetrare illegalmente in Europa. L’università islamica di al-Azhar, la più alta istanza dell’Islam sunnita, ha dichiarato “martiri” questi egiziani morti annegati mentre cercavano di raggiungere clandestinamente l’Europa e ha presentato «le sue sincere condoglianze alle famiglie di questi “martiri” morti mentre viaggiavano alla ricerca di un modo lecito di guadagnarsi da vivere». Il 13 novembre il Gran Mufti d’Egitto, lo Sheykh Ali Gomaa, s’è opposto a tale appellativo che, secondo la fede musulmana dà un accesso diretto al paradiso. «Non posso dire che siano martiri», ha affermato. «Si sono gettati alla morte, lo scopo del loro viaggio non era servire Dio... Erano mossi da avidità e ricerca di soldi».

In Marocco, il mufti-deputato Abdelabari Zemzmi ha reagito oltraggiato: «Non comprendo come un’eminenza grigia come lo Skeikh Gomaa possa fare affermazioni così gravi. La sua sortita ha un evidente carattere politico». Per lui «i clandestini annegano perché cercano una vita migliore e sono per ciò stesso martiri». E il quotidiano marocchino Tel Quel si affrettava a commentare: «A voler dare troppo retta a Zemzmi, tutti andranno ad annegare in mezzo al mare per entrare in paradiso». Recentemente, il 3 dicembre 2007, il direttore generale dell’orientamento religioso nel Ministero egiziano dei Waqf, lo Sheikh Ahmad Abu Yussuf, ha emesso una fatwa in cui afferma che il malato di AIDS va considerato martire. Giustificava questa presa di posizione con il ben noto hadîth: «Chiunque muoia per un male del ventre (mabtûn) è un martire» e ha aggiunto che il 90% di quanti muoiono di AIDS «ritornano a Dio alla fine della loro vita».

3. Saddam Hussein è un martire? Un avvenimento che ha suscitato molte polemiche è la questione di sapere se Saddam Hussein sia un martire oppure no. Per un numero considerevole di musulmani sunniti Saddam è divenuto tale. Il suo atteggiamento coraggioso di fronte alla morte, in opposizione al trattamento giudicato indegno di un presidente inflittogli dagli americani e il fatto che abbia pronunciato distintamente e per due volte la duplice shahâda (testimonianza, professione di fede) prima di morire ne hanno fatto un shahîd, un martire. Ma ciò che ha contribuito moltissimo a “canonizzarlo” è il fatto che sia stato impiccato il primo giorno della “Grande Festa” (al-’Îd al-kabîr, o ‘Îd al-Adhà, l’Aïd come la chiamano i musulmani dell’Africa del Nord).

Il Presidente egiziano Hosni Mubarak ha dichiarato: «Nessuno dimenticherà le circostanze nelle quali è stata eseguita la condanna a morte di Saddam. Ne hanno fatto un martire», aggiungendo: «Ho rivolto un messaggio al Presidente George W. Bush per dirgli che bisognava evitare di farlo proprio il primo giorno dell’Aïd, perché questo l’avrebbe trasformato in un martire». Il tunisino Ben Yahia considera che «l’esecuzione della sentenza rappresenta un grave attentato ai sentimenti dei popoli musulmani, nel momento in cui celebrano una festa religiosa sacra». L’Algeria deplora che l’impiccagione abbia avuto luogo in un giorno «il cui spirito originario, evocatore di sacrifici, si è sublimato nei valori del perdono, della clemenza e della generosità per tutto il mondo arabo-islamico». Un’intervista televisiva all’Imam giordano Salâh Ibn Fawzân presenta Saddam come un peccatore pentito che ha raggiunto il grado di martire con la morte, e morte il giorno della festa del sacrificio d’Abramo. L’intervista in arabo si può ascoltare su YouTube e dura pochi minuti. Sul sito decine di persone hanno reagito alle parole dell’Imam. Nella maggior parte dei casi si stratta di sciiti che esprimono il loro odio verso Saddam, l’Imam, i sunniti in generale e i wahabiti in particolare, nello stile più offensivo possibile. Non si possono trascrivere o tradurre questi testi tanto sono volgari. Alcuni sunniti rispondono nello stesso stile.

Numerosi altri video riproducono orazioni funebri, elogi, poesie, elegie o canzoni, in arabo classico o dialettale, dei suoi ammiratori che lo considerano tutti come un martire. Altri video di provenienza sciita non mancano d’esprimere il loro odio nei suoi confronti, ma centinaia di siti, in particolare giordani e iracheni sunniti, esaltano Saddam, “il martire della nazione” (shahîd al-umma). Da parte sua, un celebre giurista (faqîh) saudita ha emesso una fatwa in cui dichiara Saddam “miscredente” (kâfir) e ricorda che il fatto di pronunciare la duplice professione di fede (shahâda) non ne fa un musulmano. Nella stessa direzione s’è pronunciato l’Imam sciita Fâlih al-Harbî, accusandolo di empietà o ateismo (zandaqa), al pari degli ipocriti (munâfiqûn) del tempo di Muhammad.

Di fronte a queste fatwe contraddittorie, molti musulmani non sanno più che cosa pensare. Significativa è la reazione di una navigatrice di Internet che si dà il nome della famosa poetessa preislamica al-Khansâ’ al-Saghîra e scrive: «Desidero che tutti coloro che non lo considerano martire (shahîd) nonostante il fatto che sia restato fermo (murâbata) in un paese in guerra quando aveva la possibilità di fuggire e salvarsi la pelle, desidero che costoro non affermino perentoriamente che fa parte della gente dell’inferno... Sono proprio queste persone con le loro fatwe contro il partito Ba’ath ad avermi insegnato che “chiunque muore per difendere il suo onore (‘ird) o i suoi averi o la sua vita è martire (shahîd)”. [...] Con semplicità estrema devo dire: “Per Dio, non so più dove sta la verità e dove l’errore! Per Dio, non so più chi è il carnefice e chi la vittima [...] Tutti sono contemporaneamente musulmani e miscredenti (kâfir). Tutti hanno ragione e tutti hanno torto. I murâbitûn che praticano il jihâd sono terroristi e i vigliacchi disfattisti sono dei democratici... Il primo tra noi scaglia il suo anatema (yukaffir) contro l’ultimo tra noi e chi resta in mezzo è diviso e non sa più in che direzione andare”».

 

Militanti Palestinesi

Da dove viene questo sviluppo inaudito del tema del martirio, dato che il Corano è così discreto al riguardo? In primo luogo i dotti musulmani, gli ulema, hanno cercato e trovato nel Corano altri versetti che incoraggiano i guerrieri a donare la loro vita sulla via di Dio. Inoltre, tra le parole attribuite al Profeta dell’Islam, gli hadîth, ve ne sono diversi che promettono il paradiso a questi stessi guerrieri. Infine, non v’è dubbio che la situazione politica del mondo musulmano, che si sente aggredito da ogni lato (pur essendo spesso l’aggressore), hanno spinto una larga fetta della comunità musulmana a sviluppare una spiritualità del martirio basata sulla morte volontaria per combattere “il nemico”. Così si è sviluppata una vera mistica del jihâd e dei mujâhidîn (i combattenti in nome dell’Islam). Questa spiritualità è stata approfondita in particolare presso i militanti palestinesi (o di altre provenienze) per difendere la Palestina da Israele. L’ideologia del Fath, il Movimento di Liberazione della Palestina, era laica. Si trattava di liberare la Palestina dall’occupazione israeliana. Non faceva appello alla religione, ma al diritto dei popoli a governarsi da sé e al diritto internazionale. Tuttavia, con la crescita del movimento islamico ovunque nel mondo, soprattutto a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, si è introdotta una nuova ideologia, quella islamica. La Palestina diventava una “terra islamica” e tutta la comunità musulmana (e non più i palestinesi) era tenuta a difenderla contro gli aggressori invasori; si è sviluppata poco a poco una guerra basata sul terrore per rispondere all’aggressione e all’occupazione israeliana e al terrorismo di stato d’Israele.

Così hanno fatto la loro comparsa i mujâhidûn di Dio, che portano i nomi più diversi, ma tutti riferiti a personaggi musulmani del primo secolo dell’Islam.

Opinione rara: gli autori degli attentati suicidi non sono martiri. Esiste tuttavia un problema di diritto islamico. Il suicidio è chiaramente vietato dal Corano [4,29-30]:

«O voi che credete [...] non uccidete voi stessi; Dio, certo, sarà con voi clemente. E chi faccia questo per ribelle iniquità, lo faremo bruciare in un Fuoco; cosa ben facile a Dio!»

Che cosa dunque bisogna pensare degli attentati suicidi o dei suicidi positivi come certi li chiamano? Rientrano nella categoria del jihâd? Quelli che li commettono sono martiri o sono suicidi come tutti quelli che si tolgono la vita? L’opinione più comune e più diffusa tra i musulmani è che sono mujâhidîn che difendono l’Islam contro i suoi aggressori e appartengono quindi alla categoria dei martiri. Presenterò questo punto di vista tra poco. Tuttavia ho trovato un’opinione in senso contrario, riprodotta su parecchi siti, del grande tradizionista (muhaddith) l’Imam Muhammad Nâsir ad-Dîn al-Albânî, maestro albanese venerato, che visse a Damasco e poi a Medina e morì il 3 ottobre 1999 all’età di 85 anni. Quest’opinione merita d’essere riprodotta: «Rivolgiamo ora la nostra attenzione alle missioni suicide. Esse sono diventate celebri [nel mondo intero] a causa della pratica giapponese dei kamikaze. Un uomo lanciava il suo aereo da guerra verso un bastimento americano, morendo così nell’aereo e uccidendo tanti soldati nemici quanti poteva. Tutte le missioni suicide della nostra epoca sono atti impuniti da considerarsi vietati (harâm). Le missioni suicide possono condurre chi le compie nel Fuoco eterno o metterlo tra quanti non vi resteranno eternamente, come ho appena spiegato. Ma vedere nelle missioni suicide un mezzo d’avvicinarsi a Dio [atto d’adorazione degno d’elogi] uccidendosi oggi per la propria terra o il proprio paese, a una tale idea diciamo no! Queste missioni suicide non sono islamiche! Di fatto dico ciò che rappresenta oggi la realtà islamica - non la realtà ricercata da una minoranza d’attivisti musulmani: non esiste alcun jihâd nei paesi islamici.

Certamente vi sono combattimenti in parecchi paesi musulmani, ma non vi è alcun jihâd che sia stabilito [unicamente] sotto una bandiera islamica e secondo regole islamiche [...] Che un giovane, cieco [dei fatti e della complessità della guerra] decida da solo – come sentiamo spesso – di scalare una montagna ed entrare in una piazzaforte fortificata utilizzata dagli ebrei uccidendone alcuni e venendo egli stesso ucciso... qual è il vantaggio di quest’atto? Sono soltanto atti individuali senza risultati positivi a beneficio della Chiamata islamica. Pertanto diciamo ai giovani musulmani: “Proteggete le vostre vite, a condizione d’impiegarle allo studio del vostro Dîn [religione] e del vostro Islâm. Siate ben coscienti di ciò e agite quanto meglio potete”. Sono questi il tipo d’azione e di atti, per quanto lenti e noiosi possano apparire, che porteranno il frutto che tutti i musulmani ricercano, indipendentemente dalle loro diverse ideologie e metodi. Tutti infatti sono d’accordo che l’Islam dev’essere ciò che [utilizziamo] per governare, ma divergono sul cammino da prendere [verso questo obiettivo]. E certo la miglior guida è quella di Muhammad».

Opinione comune: sono martiri. Questa opinione resta abbastanza eccezionale. Il pensiero comune vuole oggi che i suicidi volontari siano martiri. Ecco a titolo d’esempio la fatwa pronunciata dall’Associazione degli Ulema della Palestina, dal titolo Le operazioni di morte volontaria (istishhâdiyya) sono tra le forme più belle del jihâd sulla via di Dio. Gli ulema stabiliscono quest’opinione a partire da tre versetti coranici, parecchi hadîth e testimonianze unanimi (ijmâ’) dei saggi del Medioevo (Abû Ayyûb al-Ansârî, Abû Mûsâ al-Ash’arî, ‘Umar Ibn al-Khattâb, Ibn Taymiyya, al-Ghazâlî, al-Nawawî) e dell’epoca contemporanea, in particolare il dottor Yûsuf al-Qaradâwî e lo shaykh al-Shu’aybî. Quindi passano a refutare gli argomenti di quei contemporanei che rifiutano di considerare le persone che agiscono in tal modo come martiri, in particolare quelle dello Shaykh ‘Abd al-’Azîz Âl Shaykh, mufti d’Arabia Saudita, che ha emesso una fatwa circa tali operazioni in cui afferma: «Non vedo per esse legittimazione giuridica e non le considero jihâd sulla via di Dio. Temo che siano semplici operazioni suicide». O ancora la fatwa del Rettore di al-Azhar, lo Shaykh Muhammad Sayyid al-Tantawî che ha dichiarato: «Le operazioni suicide (intihariyya) sono un martirio se sono dirette contro soldati, non contro bambini o donne». Una lunga argomentazione, basata sull’opinione di numerosi ulema, refuta queste due opinioni.

 

Martirio e Redenzione

Il punto di vista musulmano sul fenomeno del martirio sembra essere ben poco chiaro sul piano giuridico. Pare che i motivi politici vi giochino un ruolo importante, sia per sostenere la liceità degli attacchi suicidi, sia per rifiutarla, come nel caso delle autorità ufficiali dell’Egitto e dell’Arabia Saudita. Un’opinione spirituale e teologica come quella dello Shaykh Nâsir ad-Dîn al-Albânî è rara. Lo sciismo ha sviluppato la concezione del martirio redentore, in particolare attraverso la celebrazione della morte violenta di al-Husayn, che ricorda per certi aspetti il ruolo attribuito dalla spiritualità e dalla teologia cristiana alla morte di Cristo. In definitiva, nell’opinione comune, ogni persona morta di morte violenta potrà essere chiamata “martire”, comprese personalità notoriamente poco musulmane come Saddam Hussein. Quanti vi si sono opposti sono tutti sciiti e ciò mostra bene come i criteri siano parziali e ciascuno tenda a difendere la propria politica. Nel Cristianesimo il primo martire è Cristo. La sua morte non comporta alcuna forma di violenza contro chiunque; proprio al contrario egli accetta la violenza altrui, la prende su di sé per distruggere violenza e odio, come ha detto bene San Paolo in questo magnifico passo della lettera agli Efesini [2,13-19]: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio». In seguito Stefano, il “protomartire” imiterà il gesto di Gesù fin nei minimi dettagli [cfr. Atti 7].

Chiunque utilizza la spada, foss’anche per difendere il gruppo e la comunità, perirà di spada, come dice Cristo, e non può essere considerato martire. Il martire cristiano è un non-violento per natura, che testimonia (yashhad) l’Amore di Dio che perdona sempre in un mondo in cui regna la violenza. Solo il non-violento animato in tutti i suoi atti dall’amore può ambire al titolo di martire. In definitiva, abbiamo a che fare con due visioni piuttosto differenti dell’amore per Dio: una visione in cui io testimonio l’amore per Dio combattendo fino al sacrificio di me per il Suo Nome; e un’altra in cui testimonio quest’amore rinunciando a ogni violenza per cacciare odio e violenza da questo mondo. Ciascuno è chiamato a fare la sua scelta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Samir Khalil Samir, Centralità del martirio nell’Islam odierno, «Oasis», anno IV, n. 7, maggio 2008, pp. 39-43

 

Riferimento al formato digitale:

Samir Khalil Samir, Centralità del martirio nell’Islam odierno, «Oasis» [online], pubblicato il 19 aprile 2009, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/centralita-del-martirio-nell-islam-odierno.

Tags