L’ideologia del jihad venne manipolata dai governanti sunniti per la propria affermazione politica contro gli sciiti ma non solo

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:03

Ortodossia e violenza. Recuperata per affrontare le crociate, l’ideologia del jihad venne manipolata dai governanti sunniti per la propria affermazione politica: la “guerra santa” divenne un mezzo per contrastare soprattutto gli sciiti, considerati un pericolo per l’unità islamica. Il fanatismo che ne è scaturito non si è più spento.

Dalle sue origini nel Corano e nella Sunna fino alle sue forme attuali, il jihad ha conosciuto una complessa evoluzione che è andata di pari passo con una crescente ideologizzazione. Uno snodo cruciale in questa storia è rappresentato dal periodo delle Crociate e dalle reazioni che esse suscitarono, in particolare tra i sunniti della regione siriana. Fino al 1148, data dell’attacco dell’esercito della seconda crociata contro Damasco, nella città non vi era stato alcun appello serio al jihad. Sembra che le autorità religiose si fossero mostrate indifferenti e che quelle politiche avessero generalmente preferito intavolare relazioni pacifiche con i crociati. Di fatto, i pochi casi di predicazione e di attivismo jihadista a Damasco non riflettevano né l’umore dei governanti né della maggioranza dell’élite culturale, ma erano capeggiati da personalità religiose che o non avevano alcuna rilevanza o erano appena arrivate in città. Un caso celebre fu quello di al-Sulamî (m. 1106), un insegnante di grammatica araba che nel 1105 scrisse il Libro del Jihad e ne predicò il contenuto nella moschea di Bayt Lihya, alla periferia di Damasco. La scelta di una moschea piuttosto marginale per predicare il libro a un pubblico composto da sette persone (tre persone comuni e quattro giovani) conferma l’atteggiamento generale d’indifferenza per la propaganda del jihad a Damasco.

Nella sua visione del jihad, al-Sulamî attribuiva la responsabilità dell’invasione crociata alla fragile condizione spirituale dei musulmani. Egli considerava le crociate la continuazione di un più ampio e perfido “jihad” cristiano per la conquista dei territori islamici, che, iniziato in Spagna e in Sicilia, aveva raggiunto la Siria e Gerusalemme. In altre parole, egli vedeva negli attacchi un caso di guerra religiosa cristiana contro l’Islam e i musulmani.

Nel 1148 però, il fallito tentativo di conquistare Damasco nel corso della seconda crociata causò un cambiamento delle alleanze politiche. I damasceni si rivolsero al nemico di un tempo, l’emiro selgiuchide Nûr al-Dîn, chiedendogli protezione da futuri attacchi crociati, mentre fino a quel momento la loro alleanza con il Regno franco di Gerusalemme era stata rivolta proprio a proteggere la città da Nûr al-Dîn e prima ancora da suo padre Zangî. Il matrimonio non era solo di convenienza, ma ideologico. Il programma di Nûr al-Dîn di rivitalizzare il sunnismo era stato molto efficace tra i sunniti di Siria, particolarmente ricettivi e pronti a rispondervi visto l’impatto su di loro di quello che è normalmente chiamato “il secolo sciita” (il secolo in cui la maggior parte del mondo islamico fu governato da dinastie sciite). Nella visione delle autorità religiose sunnite gli sciiti erano responsabili della degenerazione spirituale dell’Islam e dei musulmani. Vi era addirittura chi accusava i fatimidi sciiti dell’Egitto di aver invitato i crociati a invadere la Siria e conquistare Gerusalemme.

Ecco perché le autorità religiose sunnite di Damasco vedevano in Nûr al-Dîn un salvatore che avrebbe messo fine al secolo sciita e rivivificato il sunnismo. Per esempio, nella Storia di Damasco Ibn ‘Asâkir (m. 1176) immortalava così la conquista di Aleppo da parte di Nûr al-Dîn nel 1146:

 

[Nûr al-Dîn] reintrodusse il sunnismo [ad Aleppo] e ristabilì la vera religione, corresse l’eresia che essi seguivano nell’appello alla preghiera, sbaragliò gli sciiti eretici e rivivificò le quattro scuole giuridiche sunnite.

 

Queste parole non lasciano dubbi sul fatto che il trionfo del sunnismo in Siria ed Egitto fu visto dalle autorità religiose sunnite come il risultato più significativo di Nûr al-Dîn, il culmine del suo regno. Per quanto riguarda la predicazione del jihad, diversamente da quando a farsene carico erano i dotti di minor rango, vediamo ora i più illustri ‘ulamâ’ di Damasco far propria la causa in centri religiosi importanti e su indicazione diretta dei governanti. Tra di essi spicca la figura di Ibn ‘Asâkir.

 

Ibn ‘Asâkir e la sua visione del jihad

Nato a Damasco nel 1105 e formato alle scienze religiose, Ibn ‘Asâkir divenne la più celebre autorità nell’insegnamento degli hadîth. Animato da uno zelo religioso esagerato, egli riteneva che la presenza dei crociati e dei fatimidi in Siria ed Egitto avesse turbato l’ordine naturale delle cose, nel quale il sunnismo avrebbe dovuto regnare incontrastato. Nel 1150 Ibn ‘Asâkir partecipò attivamente alla propaganda jihadista contro la seconda Crociata. Tra i suoi seguaci vi era l’illustre emiro ‘Izz al-Dawla ‘Alî Ibn Murshid, del celebre clan dei Banû Munqidh, che dopo aver ascoltato il dotto partì per condurre il jihad contro i crociati vicino ad Ascalona, dove fu ucciso nell’estate del 1151.

Ma ai fini del nostro discorso è più rilevante il fatto che il sultano Nûr al-Dîn abbia domandato a Ibn ‘Asâkir di comporre una raccolta di quaranta hadîth sul jihad. Riconoscente, lo studioso redasse I quaranta hadîth per l’incitamento al jihâd. Che cosa poteva offrire una raccolta di quaranta hadîth in più rispetto a un’opera tradizionale sul jihad? La risposta a questa domanda va cercata nelle caratteristiche di ognuno di questi due generi. Un trattato giuridico tradizionale doveva esaminare questioni legali, tra le quali vi erano la legittimità o l’illegittimità del jihad, il trattamento e i diritti del nemico, i molti stratagemmi che un nemico avrebbe potuto escogitare per essere immune dagli attacchi, compresa la falsa conversione all’Islam, ecc. Il colpo di genio di Ibn ‘Asâkir è consistito nel fatto che ricorrendo al modello delle raccolte di quaranta hadîth, egli riuscì ad aggirare tutte queste questioni. Ibn ‘Asâkir si concentrò sugli hadîth che riguardavano

1) l’importanza del jihad rispetto agli altri doveri religiosi;

2) le punizioni spettanti a chi rifiutava di combattere il jihad;

3) le ricompense preparate per chi lo intraprendeva;

4) i requisiti che i combattenti devono soddisfare per poter intraprendere il jihad.

I due hadîth seguenti danno un’idea di questi temi.

 

Un uomo venne dal Profeta e chiese: «Messaggero di Dio, insegnami qualcosa che valga quanto compiere il jihad sulla via di Dio». Il Profeta rispose: «Non c’è nulla di simile. Quando il combattente esce a combattere sulla via di Dio, tu [per essere pari a lui] puoi forse entrare in moschea, pregare incessantemente e digiunare ininterrottamente?» L’uomo rispose: «Non posso farlo». Abû Hurayra aggiunse: «Perfino le peregrinazioni del cavallo del combattente per il jihad gli guadagnano buone azioni».

 

Il Messaggero di Dio (la pace e la preghiera siano su di lui) disse: «Chi sferra un attacco sulla via Dio (la gloria e la grandezza gli appartengono) ha accettato di sottomettersi completamente a Dio (la gloria e la grandezza gli appartengono) e “Chi vuole creda, chi non vuole respinga la fede. Per vero abbiam preparato per gli empi un fuoco” [Cor. 18,29]». Anas ibn Malik domandò: «Messaggero di Dio, ora che da te abbiamo ascoltato questo hadîth, chi oserà abbandonare il jihad e rimanere nelle retrovie?» Il Messaggero di Dio (la pace e la preghiera siano su di lui), rispose: «Quello che Dio ha maledetto e con cui è adirato. Per lui Dio ha preparato un castigo tremendo. In verità alla fine dei giorni comparirà un gruppo di persone che non credono nel jihad. Dio ha giurato su se stesso che chiunque sosterrà questa dottrina sarà torturato come nessun altro peccatore».

 

Producendo un manuale che conteneva soltanto dei detti del Profeta, alcuni dei quali si rifanno o alludono a versetti coranici che mettono l’accento sul dovere del jihad, Ibn ‘Asâkir riuscì a estrapolare la dottrina sunnita del jihad dalla struttura legale e giurisprudenziale in cui era inserita, ricentrandolo sugli insegnamenti divini e profetici. In breve, i Quaranta hadîth di Ibn ‘Asâkir trasformarono Muhammad in un sostenitore del jihad, facendo dell’Islam una religione che insiste sopra ogni altra cosa sul dovere di condurre il jihad. In questo senso Ibn ‘Asâkir contribuì a radicalizzare l’ideologia del jihad sunnita, sottraendola alla definizione che a partire dal IX secolo ne aveva dato la dottrina islamica tradizionale. Quest’ultima

1) riteneva che il jihad non andasse combattuto contro i correligionari musulmani;

2) lo considerava un obbligo comunitario e non individuale;

3) si preoccupava soprattutto delle sottigliezze e delle sfumature giuridiche circa il corretto assolvimento dell’obbligo del jihad.

 

La predicazione strumentale

Ben dopo la morte di Ibn ‘Asâkir continuarono a tenersi a Damasco numerose sessioni di predicazione dei Quaranta hadîth. Tre sessioni del 1227, contemporanee alla crociata dell’Imperatore Federico II, meritano in particolare di essere evidenziate. A una prima considerazione si potrebbe presumere che i Quaranta hadîth fossero strumentali alla predicazione del jihad come risposta diretta alle nuove sfide dei crociati, nel momento in cui le locali autorità religiose e politiche sunnite erano ansiose di mobilitare i damasceni per combattere le nuove ondate di invasori. Ma in gioco c’era qualcosa di più che le sfide dei nuovi crociati. La predicazione del jihad a Damasco scaturiva anche dal conflitto interno alla dinastia ayyubide. All’epoca il sultanato ayyubide era diviso fra tre fratelli (i nipoti di Saladino): al-Kâmil era il sultano dell’Egitto e controllava Gerusalemme, a Damasco al-Mu‘azzam deteneva la maggior parte della Palestina e della Transgiordania, e al-Ashraf era signora della Jazîra (la Mesopotamia storica).

Le tre sessioni di predicazione si tennero tra il febbraio e il marzo del 1227 nel complesso della moschea omayyade. Ebbero un carattere per lo più informativo, visto che l’esercito di Federico sarebbe arrivato solamente nell’ottobre del 1227 (Federico arrivò in persona ad Acri solo nel settembre del 1228). Si potrebbe ipotizzare che, poiché queste sessioni di predicazione precedettero la crociata di Federico II, non potevano esserne una risposta. Ma non era così: i damasceni erano perfettamente consapevoli dell’imminente arrivo di Federico dato che era stato lo stesso imperatore a informarli. Infatti ben prima di partire dall’Europa, Federico aveva inviato un emissario ad al-Mu‘azzam (m. 1227) per sapere che cosa potesse offrire l’emiro ayyubide di Damasco nel caso in cui egli si fosse astenuto dall’attaccare la città. Le fonti ci dicono che al-Mu‘azzam respinse con sdegno l’apertura di Federico, rispondendo all’emissario dell’imperatore con queste parole: «Di’ al tuo padrone che io non sono come gli altri, l’unica cosa che ho per lui è la spada».

Si potrebbe inoltre supporre che al-Mu‘azzam potesse contare sull’aiuto del fratello, il sultano al-Kâmil (m. 1238). Ma tale assistenza fraterna era in realtà improbabile dato che era stato lo stesso al-Kâmil a inviare nel 1226 un emissario a Federico, offrendogli Gerusalemme in cambio di un suo attacco contro al-Mu‘azzam a Damasco. Al-Kâmil sapeva che Federico stava preparando una crociata perciò la sua offerta era un tentativo diplomatico preventivo per assicurarsi che Federico non invadesse l’Egitto.

Nel 1227 Federico inviò il suo ambasciatore ad al-Mu‘azzam per verificare la possibilità di raggiungere un accordo migliore di quello con al-Kâmil. Ciò che le nostre fonti dicono circa la risposta di al-Mu‘azzam all’apertura di Federico è solo una posizione di facciata. In realtà deve esserci stato un accordo dietro le quinte che le cronache musulmane non hanno riportato. Secondo Sibt Ibn al-Jawzî (consigliere di al-Mu‘azzam e responsabile della propaganda del jihad), il governante di Damasco offrì a Federico tutti i suoi possedimenti a Ovest del fiume Giordano. E questo lo fece ben prima che al-Kâmil e Federico negoziassero i termini della resa di Gerusalemme. In altre parole, al-Kâmil fu costretto ad accettare condizioni sfavorevoli proprio perché al-Mu‘azzam aveva concluso un trattato con Federico.

Siccome tutti questi eventi ebbero luogo quando Federico si trovava ancora in Europa, ci troviamo di fronte a una complessa e intricata realtà politica: una lotta di potere tra gli emiri ayyubidi in Egitto e in Siria, con il conseguente impatto sul rapporto tra ayyubidi e crociati e, per estensione, sulla propaganda jihadista a Damasco. Perciò, le tre sessioni di predicazione dei Quaranta hadîth di Ibn ‘Asâkir non devono essere necessariamente considerate come rivolte contro Federico II e la sua crociata ma piuttosto contro al-Kâmil. In altre parole, si utilizzava un’ideologia radicalizzata del jihad come strumento politico, per conseguire obiettivi politici, indipendentemente dal fatto che gli ‘ulamâ’ che l’avevano prodotta e propagandata fossero motivati da zelo religioso o da opportunismo.

 

La sinistra eredità di Ibn Taymiyya

Per comprendere l’impatto e l’eredità della radicalizzazione dell’ideologia del jihad sviluppata sotto Nûr al-Dîn e sotto i suoi successori ayyubidi (e per la quale abbiamo numerosi esempi di manuali di jihad simili al modello promosso da Ibn ‘Asâkir), un buon caso è offerto dalle lettere e dai pronunciamenti giuridici (fatwa) del celebre dotto damasceno Ibn Taymiyya (m. 1328).

In molte lettere e fatwe Ibn Taymiyya presenta gli sciiti e i cristiani del monte Libano come una minaccia per l’Islam e il mondo musulmano. Ibn Taymiyya condannava anche un terzo gruppo: i sunniti “eterodossi” che abitavano il monte Libano o lo visitavano, alla ricerca di proprietà religiose che si ritenevano legate a quel luogo. Proprio per questo, tutto ciò che era legato al monte Libano, la sua fauna e la sua flora, il suo terreno e la sua anima, ripugnavano al gusto di Ibn Taymiyya.

Per esempio, nella lettera al sultano mamelucco al-Malik al-Nâsir, che faceva seguito alla campagna contro i drusi (una setta di derivazione sciita) del monte Libano nel 1300, Ibn Taymiyya dichiarava che i nemici dell’Islam erano di due tipi: i nemici esterni, tra i quali i cristiani e gli ebrei, e il nemico interno cioè gli sciiti. A noi interessa la seconda tipologia, che Ibn Taymiyya chiamava “gente della falsità e ipocriti erranti”. A suo avviso erano peggio dei veri infedeli (cristiani ed ebrei) avendo preferito farsi amici dei nemici dell’Islam piuttosto che della gente del Corano e della Sunna. Oltre alle loro convinzioni errate, la loro alleanza con i crociati (e più tardi con i mongoli) faceva di loro il nemico interno. Ibn Taymiyya lamentava infatti che:

 

I maledetti seguaci di questa setta, come gli abitanti di Jezzine e dei dintorni, e di Jabal ‘Amila e del suo territorio, sono sempre stati alleati della gente di Cipro. Essi hanno addirittura tenuto per venti giorni un mercato all’aperto lungo le zone costiere, in cui vendevano alla gente di Cipro soldati musulmani prigionieri, cavalli e armi. Sulla loro montagna non si trova un solo Corano e nessuno di loro lo sa leggere. L’unica cosa che fanno è sostenere dottrine che violano il Libro (il Corano) e la Sunna. Gli ‘ulamâ’ ritengono legittimo tagliare i loro alberi e distruggere i loro villaggi. È il solo modo di costringerli a lasciare la Montagna. […] Ringraziamo Dio, che ha permesso al sultano di sconfiggerli e allontanarli dalla loro terra. […] Questa conquista militare sarà completa solamente quando il sultano emetterà l’ordine di sradicare ogni forma di corruzione religiosa e applicherà la sharî‘a nella loro terra (il monte Libano), costringendoli a fare la preghiera del venerdì, insegnando loro il Corano, introducendo predicatori e muezzin in tutti i loro villaggi musulmani, istruendoli sugli hadîth del Profeta, diffondendo tra loro l’educazione islamica e punendo tutti i dissidenti secondo le norme previste dalla sharî‘a.

 

Questi sentimenti di ostilità nei confronti degli sciiti del monte Libano si ripetono anche in altre fatwe di Ibn Taymiyya, rivolte contro gli sciiti in generale. In una di queste scriveva:

 

Non vi è dubbio che muovere il jihad contro queste persone e imporre loro le punizioni legali rappresenta la massima forma di obbedienza e di adempimento degli obblighi religiosi.

 

Al mercato di Damasco

La posizione militante di Ibn Taymiyya nei confronti degli sciiti si radica nella natura della predicazione del jihad a Damasco durante il periodo crociato e nel progetto di rivivificazione del sunnismo. Come abbiamo detto, le autorità religiose sunnite, soprattutto a Damasco, attribuivano il successo delle invasioni crociate alla fragile condizione spirituale dei musulmani. Secondo i sunniti revivalisti dell’epoca, la causa principale di questa fragilità era il predominio degli sciiti, che erano anche ritenuti colpevoli di aver invitato i crociati e più tardi i mongoli a invadere il mondo islamico.

Tuttavia affermare che i cristiani locali e gli sciiti del monte Libano fossero i soli a preoccupare Ibn Taymiyya è scorretto. Nelle sue lettere e fatwe c’erano, come anticipato, anche altri gruppi oggetto di polemica: i correligionari sunniti che non condividevano la sua visione dell’ortodossia sunnita. Nella fatwa sul monte Libano Ibn Taymiyya affermava che «nulla di quanto è stato stabilito da Dio (nel Corano) o dal suo Messaggero (negli hadîth) parla dei meriti religiosi del monte Libano e dei luoghi simili a questo». Eppure molti illustri uomini di religione musulmani vivevano sul monte Libano, un fatto che Ibn Taymiyya conosceva bene e non poteva ignorare. La sua risposta era che il monte Libano e luoghi simili fungevano da avamposti del jihad, dove i musulmani virtuosi si recavano per compiere il jihad contro i nemici dell’Islam, e che «vivere in questi avamposti per combattere il jihad sulla via di Dio ha molto più valore che risiedere alla Mecca o a Medina». Ma non vi era nulla di intrinseco a questi luoghi che li rendesse sacri. Perciò per Ibn Taymiyya il problema del monte Libano non era solo il fatto che fosse abitato da infedeli tra i quali l’Islam non poteva essere veramente praticato, ma anche che era un luogo in cui tra i sunniti si seguivano tendenze popolari “eterodosse”. Allo stesso modo, alcuni mistici preferivano vivere sul monte Libano per le sue virtù religiose e i suoi frutti. Ma Secondo Ibn Taymiyya, essi erano fuorviati e nell’errore. Ibn Taymiyya addirittura inveiva contro l’idea che i frutti portati al mercato di Damasco dal monte Libano avessero proprietà particolari: «Gustare i frutti provenienti dal monte Libano è un’innovazione eretica simile alle eresie dei cristiani e dei politeisti».  

Inoltre, egli condannava la pratica del pellegrinaggio minore ai santuari sul monte Libano, come la tomba del Noè biblico nella città di al-Karak (oggi nella valle della Beqa‘ nel Libano orientale). Ibn Taymiyya sosteneva che fosse «assurdo e impossibile» affermare che Noè vi fosse sepolto, dal momento che Muhammad aveva detto: «Dio ha vietato alla Terra di consumare la carne dei profeti». Da questo egli deduceva che «se fosse stata veramente la tomba del profeta Noè, dovremmo trovare il suo corpo completamente intatto», ciò che non si era verificato. Inoltre, egli affermava che la sharî‘a proibiva di costruire una moschea sopra una tomba. In altre parole, questi santuari non erano il tipo di luogo che il buon musulmano avrebbe dovuto tollerare e ancor meno visitare.

La peculiare percezione che Ibn Taymiyya aveva dell’ortodossia sunnita e del suo primato implicava che tutti coloro che abitavano il monte Libano fossero combattuti fino alla totale sottomissione o obbligati accogliere la sua visione del vero Islam. I sunniti dovevano abbandonare le pratiche eretiche e fare il jihad contro i cristiani e gli sciiti fino alla loro conversione o al loro annientamento.  

Ciò che era iniziato come opportunismo politico e manipolazione politica della religione da parte del sultano Nûr al-Dîn e dei suoi successori ayyubidi finì per produrre una pericolosa realtà di fanatismo religioso. Per affrontare le sfide dei crociati fu escogitata un’ideologia radicale del jihad, che venne manipolata dai governanti sunniti, specialmente a Damasco, per il proprio tornaconto politico. Il jihad divenne uno strumento per mobilitare i musulmani contro altri musulmani. A quel punto, i più importanti ‘ulamâ’ saltarono sul carro della predicazione jihadista e rivolsero il loro fanatismo religioso contro particolari gruppi musulmani e sette che, a loro avviso, mettevano in pericolo l’unità islamica. Ed è proprio questo fanatismo e questa radicalizzazione del jihad che negli ultimi decenni si è diffusa nel mondo musulmano, con importanti ramificazioni sul piano interno e su quello globale.

 

* Questo articolo si basa in parte su Suleiman A. Mourad, James E. Lindsay, The Intensification and Reorientation of Sunni Jihad  Ideology in the Crusader Period: Ibn ‘Asākir (1105-1176) of Damascus and His Age, Brill Academic Publishers, Leiden 2013, e su di un articolo di prossima pubblicazione Why Did Ibn Taymiyya Hate Mount Lebanon?

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Suleiman A. Mourad, I frutti proibiti del Monte Libano, «Oasis», anno IX, n. 18, dicembre 2013, pp. 97-101.

 

Riferimento al formato digitale:

Suleiman A. Mourad, I frutti proibiti del Monte Libano, «Oasis» [online], pubblicato il 1 dicembre 2013, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/origine-evoluzione-jihad-ibn-asakir-ibn-taymiyya.

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