Per il Corano la fede è il ritenere veritiero quanto cade al di fuori del campo del visibile e del deducibile, ovvero quanto appartiene al “mondo occulto”

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:00

Per il Corano la fede è il ritenere veritiero quanto cade al di fuori del campo del visibile e del deducibile, ovvero quanto appartiene al “mondo occulto”. Ma per giungere alla conoscenza di quanto è assente e ignoto abbiamo bisogno di un testimone che ce lo mostri. E la ricerca di un testimone è opera della ragione.

Le religioni differiscono le une dalle altre, non solo per i dogmi, le leggi e i riti, ma anche secondo le culture delle persone che vi appartengono, le tradizioni di civiltà, il tipo di lingua e i significati che ciascuna di esse attribuisce alle parole e ai termini. Questa differenza si estende non solo alle espressioni e ai contenuti, ma anche alle realtà del mondo visibile e invisibile. Quante parole ed espressioni esistono in questa o quella religione che non si possono trasporre in altre lingue, come concetti religiosi, anche se si può forse renderle perfettamente o quasi a livello linguistico! A questa categoria appartiene anche, ad esempio, la coppia fede e ragione: sembra che nessuna lingua o religione sia priva di qualche elemento che vi corrisponda, sia a livello della lingua corrente, che a livello della terminologia religiosa. Ciononostante il significato che viene espresso con fede e ragione in questa o quella religione differisce, poco o tanto, da un'altra fede.

Per questo è utile, per capire la portata di un qualsiasi termine religioso in una data lingua, confrontarlo con il significato che esso assume in altre religioni, anche nel caso in cui esse siano accomunate da radici religiose e linguistiche condivise. Dal momento che il nostro argomento concerne ragione e fede nell'Islam, e nel Corano in particolare, ci limiteremo qui a una veloce comparazione tra i due concetti come vengono impiegati nell'Ebraismo e nel Cristianesimo - le due religioni con cui l'Islam condivide l'appartenenza a una radice comune, cioè la religione di Abramo - per ritornare poi a evidenziare i significati propri con cui questa coppia viene utilizzata nel Corano. Gli esperti di religioni comparate affermano che, anche se ci siamo abituati a parlare in modo generale della fede ebraica, cristiana e musulmana con il presupposto che il termine fede riassuma l'ambito dei rapporti tra l'uomo e Dio in queste religioni, la realtà è ben diversa. Nell'ebraico, la lingua dell'Ebraismo, non c'è un termine che esprima questo significato. Questo perché le parole da cui possiamo capire il messaggio della Torah nel complesso sono quelle che esprimono l'azione divina e non quelle che parlano della posizione dell'uomo. Tale azione divina rivelata dalla Torah si organizza attorno a un'idea centrale, che è quella del «patto» o «testamento» che Dio conclude con gli israeliti che ha scelto perché siano «il popolo eletto». Dio, da parte sua, si mantenne fedele a questo «testamento» quando prese Abramo come amico; gli israeliti dunque devono essere anch'essi fedeli, da parte loro, osservando la legge che ha loro portato Mosè, colui che parlò con Dio, e da cui dipende la loro salvezza, cioè il loro ritorno nella «terra promessa» (Palestina). È chiaro dunque che la rappresentazione che l'Ebraismo fa del rapporto tra gli israeliti e Dio non lascia spazio alla necessità di un concetto di fede che rimandi in un modo o nell'altro al dogma, all'adesione personale a tale dogma e alla fedeltà, come avviene nel Cristianesimo e nell'Islam. Pertanto la questione che si pone riguardo al popolo d'Israele non è la fede, nel senso del dogma, ma la fedeltà al «testamento» di Dio con loro.

Fedeltà e Dio

Anche se, come abbiamo detto, il concetto di fede racchiude nel Cristianesimo, come nell'Islam, quello di dogma, tuttavia il suo contenuto non è lo stesso nelle due religioni. E così, mentre il concetto di fede nell'Islam ruota attorno all'accettazione della missione di Muhammad - su di Lui sia la pace -, come vedremo in dettaglio, troviamo che questo concetto nel Cristianesimo si concentra intorno all'idea di fedeltà, fidélité: da un lato, la fedeltà con cui Dio realizzerà la sua promessa attraverso la venuta del Messia alla fine dei tempi per stabilire la giustizia etc., e dall'altro la fedeltà con cui deve agire il fedele cristiano, secondo i significati che abbraccia il rito del battesimo (che simboleggia il lavacro dal peccato originale). Così, mentre il concetto di fede (foi) si collega in queste due religioni con la salvezza, l'idea della fedeltà escatologica è del tutto assente dall'orizzonte islamico, quanto meno da come esso si presenta nel Corano. L'orizzonte cui si connette il concetto di fede nel Corano è un orizzonte che riguarda contemporaneamente questo mondo e l'altro, riunendo in qualche modo la promessa ebraica e quella cristiana: da un lato, infatti, Dio ha promesso ai credenti la vittoria nella loro lotta contro i politeisti e i miscredenti in questo mondo e, dall'altro, ha promesso ai credenti sinceri il paradiso nell'altra vita. Quelli che precedono sono brevi spunti sulla differenza tra il concetto di fede nell'Ebraismo, nel Cristianesimo e nell'Islam. Quanto al concetto di ragione in ciascuna di queste religioni, esso va riferito in realtà non alla religione in sé, ma alla cultura all'interno della quale s'è diffusa questa o quella religione. Ibn Manzûr, autore del dizionario medievale Lisân al-'arab, raccoglie le parole che sono in relazione etimologica con il termine fede (îmân) e le definisce nominando i loro contrari come segue: «Amn (sicurezza): il contrario della paura. Amâna (lealtà): il contrario del tradimento. Îmân (fede): il contrario della miscredenza. Îmân nel senso di tasdîq (ritenere veritiero): il contrario di ritenere menzognero». Questi significati sono tutti presenti nel Corano e rientrano in un'unica rete semantica. Infatti, colui che ha fiducia nel suo compagno non ne ha paura e non teme di essere da lui tradito, né che questi gli tenga nascosta la verità o la rinneghi o la smentisca (la miscredenza), e perciò lo ritiene veritiero e confida in lui e non lo considera falso. Da questo capiamo l'affermazione di Ibn Manzûr: «I lessicografi e gli altri uomini di scienza sono concordi sul fatto che il significato della fede è il ritenere veritiero».

Dobbiamo però aggiungere che il «ritenere veritiero» si applica solo a una notizia che ci fornisca la conoscenza di quanto è a noi assente. Infatti quello che è presente lo possiamo constatare da soli, essendo visibile, udibile etc. Per giungere alla conoscenza di quanto è assente e ignoto abbiamo invece bisogno di trovare delle tracce o un testimone che ce lo mostri. E la ricerca di un testimone circa quanto è assente (ovvero la considerazione, i'tibâr, nel senso di passaggio, 'ubûr, dalle tracce di una cosa alla cosa stessa) è opera della ragione e non appartiene all'ambito della fede. La fede dunque è il «ritenere veritiero» quanto cade al di fuori del campo del visibile e del deducibile, ovvero quanto appartiene al "mondo invisibile". Il Corano definisce gli argomenti "invisibili": se l'uomo razionale non crede a essi, diventa miscredente, cioè non è definibile come in possesso della fede nel senso sciaraitico; Dio l'Altissimo dice infatti: «E chi rinnega Dio, i Suoi Angeli, i Suoi Libri, i Suoi Messaggeri e il Giorno Ultimo, erra d'errore lontano» (Corano 4,136). Pertanto la fede, in senso religioso, comprende la fede «in Dio e nei Suoi Angeli e nei Suoi Libri, e nei Suoi Messaggeri, e nel Giorno Ultimo»: tutte queste cose non appartengono al mondo sensibile, ma a quello invisibile e per questo la fede in esse è descritta come un «ritenere veritiero», ritenere veritiero colui che ci informa al riguardo di esse.

La fede da sola non basta

D'altro canto i lessicografi distinguono anche tra fede e Islam. La fede infatti, essendo un ritenere veritiero, ha come sede il cuore. L'islam invece è la proclamazione di sottomissione e avviene attraverso la lingua. Da questo confronto essi deducono che «ogni credente è musulmano, ma non ogni musulmano è credente». Tuttavia questo tipo di distinzione e di confronto non esplora fino in fondo tutti gli usi che il Corano fa di questi due termini. Infatti ci sono versetti che affermano che la fede in Dio e negli Angeli etc. da sola non basta, ma ha bisogno dell'Islam. «Dì: "Crediamo in Dio e in quel ch'è stato rivelato a noi e in quel ch'è stato rivelato ad Abramo e a Ismaele e a Isacco e a Giacobbe e alle Tribù, in ciò che fu dato a Mosè, a Gesù e ai Profeti dal loro Signore senza far distinzione alcuna fra loro, e a Lui noi tutti ci diamo"» (Corano 3,84). Il discorso qui si rivolge a Muhammad e ai Compagni che credono nella sua missione, e ordina loro di credere anche in ciò che fu rivelato ai profeti e agli inviati precedenti, e proclamare il loro islâm, cioè la loro sottomissione a Dio. Il versetto successivo viene subito a confermare che «chiunque desideri una religione diversa dall'Islam, non gli sarà accettata da Dio, ed egli nell'altra vita sarà tra i perdenti» (Corano 3,85). Questo versetto dunque stabilisce che l'Islam, in questo senso ampio che abbraccia la fede che si ricollega ad Abramo, è esso solo la religione accetta presso Dio, la fede di cui il Corano dice, in un altro passo, che essa è «la religione del vostro padre Abramo. Egli vi ha chiamato Muslim già da antico» (Corano 22,78). Quanto alla divergenza che è nata tra i figli di Abramo circa le questioni di fede, essa risale a loro e non a Dio (Corano 3,19-20). È chiaro che il concetto di islâm nel Corano si amplia a comprendere le religioni che sono derivate dalla fede di Abramo, cioè fondamentalmente l'Ebraismo, il Cristianesimo e l'Islam, cui vengono aggiunti in altri versetti, i sabei e gli zoroastriani. Tuttavia il concetto di islâm si restringe in altri versetti per esprimere la semplice proclamazione a voce dell'appartenenza alla religione islamica, senza la fede nel cuore.

La ragione di questa differenza risiede nel fatto che il destinatario del discorso nei due casi non è lo stesso. Il Corano è sceso a brani per accompagnare lo sviluppo e rispondere alle questioni secondo le necessità della situazione. I versetti precedenti sono scesi a Medina e si rivolgono anche a ebrei e cristiani (la delegazione dei cristiani di Najrân). Quanto invece al versetto seguente, che restringe il concetto di islâm, esso fu rivelato sempre a Medina, ma si indirizza a un gruppo di beduini arabi. Dio l'Altissimo afferma: «I beduini dicono: "Noi crediamo!" Rispondi loro: "Voi non credete! Dite semmai: 'Abbiamo abbracciato l'Islam', perché la fede non v'è ancora entrata in cuore"» (Corano 48,14). In questo versetto, dunque, si trova una nuova definizione del rapporto tra fede e islâm secondo le necessità della situazione. Questo versetto e quello che segue scesero infatti per alcuni beduini, di cui i commentatori dicono che avevano proclamato il loro islâm ed erano arrivati a Medina a chiedere al Profeta che desse loro la stessa posizione degli Emigrati con tutti i loro meriti in questo mondo e nell'altro. Il versetto precedente giunse per rispondere loro che la proclamazione del solo islam con la lingua non basta ed è necessaria la fede nei cuori circa il messaggio dell'islam e questo richiede l'ubbidienza verso Dio e il suo inviato. Se faranno così con retta intenzione, - afferma il versetto - conseguiranno quello che meritano senza perdere nulla della loro ricompensa. Successivamente il Corano definì, sempre nello stesso contesto, le caratteristiche che fanno sì che il musulmano si innalzi a un livello di fede tale da meritare quanto chiesero quei beduini: «Perché i credenti sono coloro che han creduto in Dio e nel Suo Messaggero, e non hanno avuto dubbi, e han lottato con i loro beni e con le loro persone sulla via di Dio: quelli sono i sinceri» (Corano 49,15). Da quanto precede risulta evidente che il rapporto tra la fede e l'islam non è unidirezionale e pertanto non è corretto affermare che ogni musulmano è credente, ma neppure che ogni credente è musulmano. È la posizione del singolo a definire il rapporto tra questi due concetti.

Malattia del cuore

Vi è poi un'altra differenza tra fede e islâm, analoga a quella che abbiamo ricordato, e che riguarda questa volta la possibilità di descrivere uno dei due termini, ma non l'altro, come passibile di crescita e diminuzione. Infatti nel Corano vi sono versetti che parlano della crescita della fede e della crescita del suo contrario, la miscredenza, mentre non troviamo nulla che indichi tale possibilità in relazione al concetto di islâm (Corano 8,1-4). Perciò la fede, come si rafforza con la crescita della conoscenza dei suoi oggetti, così anche si indebolisce con la carenza di sincerità e scende a livello del dubbio che causa una condizione di perplessità e d'agitazione nell'anima, detta in modo metaforico malattia del cuore: una malattia che può crescere o diminuire. Coloro che sono colpiti da questa malattia sono chiamati dal Corano «ipocriti» (Corano 2,8-12). Da quanto precede appare che la fede cresce quando si combina con una più ampia conoscenza del mondo invisibile, da un lato, e con le buone opere dall'altro, mentre si indebolisce per via del dubbio e dell'incertezza e dell'assenza d'ubbidienza. L'islâm invece, come abbiamo detto, è la semplice attestazione con la lingua, e viene anche detto «proclamazione delle due testimonianze» (la testimonianza che non vi è dio se non Dio e quella che Muhammad è l'inviato di Dio).

Pertanto esso non può essere descritto in termini di crescita o diminuzione, dal momento che la proclamazione delle due testimonianze è, in sé, vera e completa. Quanto abbiamo detto della fede e del suo essere passibile di crescita e diminuzione suscita una domanda che non cessa di essere oggetto di divergenza tra le varie scuole dell'Islam: la fede è solo «il ritenere veritiero con il cuore» o implica anche, insieme a questo, l'obbedienza? Ci limiteremo qui, come abbiamo fatto nei paragrafi precedenti, a quanto si può comprendere dal Corano su questa questione e diremo che nel Libro Sacro non si danno quasi menzioni della fede senza che insieme a essa siano ricordate le buone opere. L'espressione «coloro che credono e operano il bene» si ripete nel Corano in modo imponente e tale da spingere a credere che la fede da sola non basti e che le buone opere costituiscano una condizione per la sua completezza o, quanto meno, per meritarne i frutti nel giorno della Risurrezione. Lo stesso vale per l'espressione «coloro che credono e temono Dio» (cioè stanno lontani da quanto Dio vieta). Se cerchiamo di esaminare i passi coranici in cui viene menzionata la fede, troveremo che essa è sempre abbinata alle buone opere (praticare le virtù) o al timor di Dio (evitare i vizi). Ciò avviene ogni volta che se ne parla nel contesto della retribuzione in questa vita e nell'altra.

Dio l'Altissimo dice ad esempio: «E se la Gente delle città avesse creduto e avesse temuto Dio avremmo riversato su di loro benedizioni dal cielo e dalla terra» (7, 96); e anche: «In verità coloro che credono e operano il bene, avranno i Giardini di delizie, dove resteranno in eterno: promessa di Dio, questa, verissima. Egli è il Possente Sapiente!» (31, 8-9). La ricompensa promessa è nel primo versetto relativa a questo mondo (pioggia e piante), mentre nel secondo si riferisce alla vita eterna. Come comprendere questo accostamento tra fede e buone opere da un lato e fede e timor di Dio dall'altro? Ritornando ancora una volta al Corano vediamo con chiarezza che il contrario della fede è la miscredenza, cioè la mancanza di fede in Dio, «nei Suoi Angeli, nei Suoi Messaggeri e nel Giorno Ultimo» e che il miscredente, in questo senso, se non gli perviene il messaggio di alcun inviato, non riceverà la mercede della miscredenza che è il castigo. Dio l'Altissimo afferma: «Noi non castigammo mai senza aver prima inviato un Messaggero Divino» (Corano 17,15). Se invece questi viene raggiunto dall'invito a credere da parte di un messaggero e lo dichiara menzognero rifiutando di rispondervi, allora egli merita il castigo. Se poi crede e tiene per vero l'invito, ma non esegue gli obblighi che il Messaggero gli presenta e non cura le esortazioni al timor di Dio e alle buone opere, allora la sua fede lo spinge comunque fuori dalla cerchia della miscredenza e lo pone in quella dell'empietà (fisq). Se infine il miscredente crede, ma resta all'oscuro dei doveri e degli obblighi, la sua fede è effettiva, ma la ricompensa, in bene o in male, non è stabilita con un testo chiaro, e perciò resta affidata a Dio: se vorrà lo ricompenserà, o lo punirà se lo desidererà.

Il castigo dell'apostata

L'apostata poi è colui che abbandona la fede per la miscredenza e perde così la ricompensa della fede, nonostante le buone opere che può vantare, e consegue la mercede della miscredenza che è il castigo dell'inferno. Non vi è però nel Corano alcun testo che ne preveda l'uccisione: tutti i versetti relativi alla condizione dell'apostata rimandano il suo stato al giorno della Risurrezione, lasciando aperta davanti a lui la porta del pentimento. Al riguardo Dio l'Altissimo afferma: «Quanto a quelli di voi che avranno abbandonato la fede e saran morti negando, vane saranno tutte le opere loro in questo e nell'altro mondo, e saran dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno» (Corano 2,217). Finora abbiamo parlato della fede in relazione ai concetti che hanno a che fare con il suo contenuto (l'essenza della fede, la sua crescita e diminuzione, l'islâm, la miscredenza, l'apostasia, la ricompensa e il castigo etc.). Ci resta da parlare dei mezzi con cui si ottiene la fede. Se la fede è il «ritenere veritiero» quanto è stato portato dagli inviati, qual è il mezzo per condurre la gente alla fede, cioè a ritenere veritieri questi inviati? Riguardo all'Ebraismo e al Cristianesimo possiamo dire che il mezzo fondamentale, anche se non l'unico, che Mosè e Gesù - su di Loro sia la pace - hanno utilizzato per condurre la gente alla fede nei loro messaggi, sono stati i miracoli: per Mosè si tratta di dieci segni, in primo luogo la trasformazione del bastone in serpente. Quanto al Messia, essi consistono in una serie di prodigi come la risurrezione dei morti, la guarigione del cieco e del lebbroso etc.

Anche se la Torah e il Vangelo esaltano la riflessione razionale e invitano ad adoperare la ragione, l'assenza di miracoli e prodigi nella missione di Muhammad e il suo rivolgersi alla sola ragione si impongono come un fenomeno che distingue l'Islam dall'Ebraismo e dal Cristianesimo. Infatti gli avversari coreisciti del messaggio di Muhammad - su di Lui sia la pace - gli chiesero più volte di portare segni miracolosi sull'esempio di quelli che avevano portato i profeti precedenti, per poter credere che egli era effettivamente mandato da Dio. Ma la risposta fu sempre un rifiuto di questa sfida. A ciò si riferiscono le parole dell'Altissimo: «E quel che Ci impedì di mandare ancor te con segni di miracolo, fu solo l'aver gli antichi smentito quei segni» (Corano 17,59); il testo indica poi che i miracoli straordinari dei profeti non avevano come scopo stabilire verità in sé, ma solo «impaurire» e con ciò condurre la gente a lasciarsi guidare dagli inviati, come afferma l'Altissimo proseguendo il versetto precedente: «Così, segni, ne invieremo solo a terrore del mondo» (Corano 17,59).

Perciò Egli, al posto dei segni miracolosi, richiede loro l'uso della ragione, rimandando gli uomini al libro della natura, chiedendo loro di considerarlo attentamente per trarne una lezione: «in verità nei cieli e sulla terra sonvi segni pei credenti, e nella vostra creazione, e negli animali che Iddio ha sparso sulla terra, segni, per gente fermamente certa. E ancora nell'alternarsi del giorno e della notte e nella provvidenza che Iddio fa scender dal cielo vivificandone la terra già morta, e nel volgersi mutevole dei venti, segni vi sono per gente che sano ragiona. E questi sono i segni di Dio che Noi ti recitiamo secondo Verità; e in quale storia, se rifiutate Dio e i Suoi Segni, crederete?» (Corano 45,3-6); in aggiunta al libro della natura esiste il libro della storia, il libro dei profeti e degli inviati e dei loro popoli: «Non han dunque percorso la terra e visto qual sia stata la fine di quelli che furono prima di loro? Eran di loro più forti e violenti, avevan scavato la terra, l'avean coltivata meglio e più di loro, ed eran venuti a loro i Messaggeri Divini con prove chiarissime. E Dio non intendeva far loro torto, ma essi stessi a sé fecero torto.

E così, malvagia sarà la fine dei malvagi, poiché smentirono i segni di Dio e li derisero» (Corano 30,9-10); a prescindere dalla testimonianza della natura e da quella della storia, il Corano attira l'attenzione dei coreisciti politeisti sul Libro che Dio ha fatto scendere su Muhammad - cioè il Corano stesso; esso solo basta a convincere chi desidera essere convinto: «E dicono: "Se almeno gli fosser stati rivelati dei segni dal suo Signore!" Rispondi: "In verità, i segni sono presso Dio ed io non son altro che Ammonitore chiarissimo. O non basta loro dunque che noi ti abbiamo rivelato il Libro che vien loro recitato? Certo v'è in questo una Grazia ed un Monito per gente che crede!"» (Corano 29,50-51). Poi li sfida a portare una cosa comparabile: «O dicono essi: "Lo ha inventato Lui!"? Rispondi: "Portate allora voi una sura come queste, chiamate chi potete, che non sia Dio, se siete sinceri!"» (Corano 10, 38). L'ordine dell'universo, le lezioni insite nelle storie dei profeti, l'eloquenza del Corano sono elementi tra loro uguali e complementari come prove: nell'ordine dell'universo vi è la prova dell'esistenza di Dio e della sua unicità; nelle storie dei profeti vi è la prova della sua forza, misericordia e capacità di trarre vendetta; nell'eloquenza del Corano vi è la prova della profezia di Muhammad e della verità della sua missione. E questi tre generi di prove fondano, nel loro legame, ciò che noi chiamiamo il dato razionale religioso arabo, in opposizione al dato irrazionale che per la ragione significa, secondo il discorso coranico, associare altre divinità a Dio, negare la risurrezione e dichiarare menzognera la missione di Muhammad - su di Lui sia la pace.

(traduzione italiana dal testo arabo a cura di Martino Diez)
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Testo di Mohammad Abed al-Jabri, Cercando le tracce del mistero divino, «Oasis», anno III, n. 6, ottobre 2007, pp. 99-104.

 

Riferimento al formato digitale:

Testo di Mohammad Abed al-Jabri, Cercando le tracce del mistero divino, «Oasis» [online], pubblicato il 1 ottobre 2007, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/cercando-le-tracce-del-mistero-divino.

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