In un Paese dove la maggioranza della popolazione ha meno di 35 anni, la scelta di un Gran Mufti novantenne appare come un segnale di prudenza e di continuità con il passato

Ultimo aggiornamento: 10/11/2025 16:36:25

Saleh al-Fawzan è il nuovo Gran Mufti dell’Arabia Saudita. Succede a sheikh ‘Abdulaziz bin ‘Abdullah Al al-Sheikh, scomparso il 23 settembre scorso. Oggi novantenne, al-Fawzan è considerato una delle autorità religiose salafite più autorevoli e influenti del Paese, e non solo. È nato nel 1935 nel villaggio di al-Shamasiyya, vicino a Burayda, 350 chilometri a nord di Riyad, e appartiene alla tribù dei Dawasir (Dosairi), una delle più numerose e potenti dell’Arabia Saudita. Rimasto orfano di padre in giovane età, al-Fawzan compì i suoi primi studi a Burayda, per poi trasferirsi a Riyad, dove nel 1961 si laureò alla Facoltà di Sharia. È membro del Consiglio degli Ulema, la più alta istituzione religiosa del Paese, della Commissione permanente per la Ricerca scientifica e la Fatwa, e del Consiglio di Diritto islamico della Mecca.

Al-Fawzan è stato allievo di alcuni dei più importanti ulema wahhabiti del Regno, tra cui sheikh ‘Abdulaziz bin ‘Abd Allah bin Baz, che a sua volta ricoprì la carica di Gran Mufti dal 1993 al 1999, sheikh ‘Abd al-Rahman al-Sa‘di, autore di uno dei commentari coranici più letti tra i salafiti contemporanei, e sheikh ‘Abdallah bin Humaid, già capo del Consiglio superiore della Giustizia.

La nomina di al-Fawzan ha diviso l’opinione pubblica saudita. Alcune fatwe emesse in passato dal chierico hanno infatti acceso aspre polemiche. Tra le più discusse figura quella che definisce «ateo ed eretico» chi rifiuta l’urina di cammello per scopi medicinali e che pertanto «deve essere trattato alla stregua di un apostata». Particolarmente controverso è anche il parere legale che dichiara miscredente chi pratica il culto dei santi, stabilendo che non sia lecito per i credenti pregare per loro dopo la morte, o la fatwa che vieta alle donne di viaggiare da sole, senza la presenza di un mahram (parente maschio).

 

Il lento tramonto degli eredi di Mohammad Ibn ‘Abd al-Wahhab

La nomina del nuovo Gran Mufti era attesa da settimane con grande curiosità. Il progetto di trasformazione della società e dello Stato che il principe ereditario Mohammed bin Salman da anni porta avanti nell’ambito della Vision2030 ha comportato finora una progressiva emarginazione dell’establishment religioso tradizionale, prima con l’esautorazione dei poteri della Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio (comunemente nota come polizia religiosa), poi con la promozione di un “islam moderato”, più volte evocato da MbS, e infine con l’apertura ai settori dell’intrattenimento e del turismo, a lungo osteggiati dai chierici. Questa nomina avrebbe quindi potuto rappresentare un ulteriore indicatore della direzione che la leadership saudita intende imprimere all’apparato religioso, e dello stato attuale dei rapporti tra la casa reale e l’autorità religiosa.

Per certi versi, la decisione di nominare una figura esterna alla famiglia degli Al al-Sheikh (letteralmente “la gente dello sheikh”, cioè i discendenti del “fondatore” del Wahhabismo Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab), ma al tempo stesso profondamente radicata nella tradizione wahhabita, come Saleh al-Fawzan – allievo di Ibn Baz e originario del Qasim, una delle regioni più conservatrici del Regno – è un segnale di continuità con il passato. Del resto, però, la sua età avanzata (90 anni) lascia immaginare un mandato di durata limitata, e più simbolico che operativo. La scelta di una personalità che si colloca nel solco della tradizione salafita sembra inoltre riflettere l’attenzione della monarchia a mantenere lo status quo e non creare ulteriori malumori all’interno dell’establishment religioso, già profondamente segnato in questi ultimi anni dalle riforme promosse da MbS. Negli ultimi mesi, sembrano peraltro essere riemersi alcuni contrasti tra la monarchia modernizzatrice e i religiosi conservatori, come dimostra la chiusura, lo scorso settembre, di diversi locali e sale da concerto a Riyad e Gedda.

Colpisce, tuttavia, il contrasto tra la nomina del novantenne Fawzan e le politiche modernizzatrici adottate negli ultimi anni dal principe ereditario in altri ambiti – l’apertura di cinema e sale da concerto, l’abolizione della rigida separazione dei sessi, la concessione della patente alle donne o la possibilità per entrambi i sessi di accedere agli stadi – volte a guadagnare il favore delle nuove generazioni, in un Paese in cui circa il 70% della popolazione ha meno di 35 anni.

Per la seconda volta dal 1953, anno di istituzione della carica di Gran Mufti, per questo incarico viene scelta una figura esterna alla famiglia degli Al al-Sheikh. La prima volta era accaduto nel 1993, quando re Fahd nominò Gran Mufti Ibn Baz, uno dei più eminenti esperti religiosi del tempo. All’epoca, questa mossa fu letta come il tentativo di rompere il monopolio degli Al al-Sheikh sulla scena religiosa e garantire legittimità al progetto dello Stato attraverso una figura che godeva di un ampio riconoscimento popolare al di fuori della storica famiglia di chierici e allo stesso tempo dava solide garanzie di fedeltà politica alla casa reale. Oggi non è più questo il caso, anche perché i discendenti di Ibn ‘Abd al-Wahhab non rappresentano più una minaccia reale per i Saud. Un segno di questo atteggiamento ormai quietista delle istituzioni religiose saudite nei confronti della monarchia è un tweet del 2017, all’epoca fissato in cima alla pagina del Consiglio degli Ulema, oggi non più attiva, che suonava come una vera e propria dichiarazione di lealtà al sovrano: «Noi sosteniamo il nostro governante in tutto ciò che ritiene possa essere nell’interesse del Paese e delle persone».

Va detto, però, che il depotenziamento degli Al al-Sheikh era iniziato ben prima degli anni ’90. Dopo la nascita dello Stato moderno nel 1932, la monarchia saudita iniziò ad accentrare il processo decisionale affermando il proprio primato sui chierici per evitare che si ripetessero le tensioni e le rivalità che avevano caratterizzato la fase di unificazione del Regno all’inizio del Novecento. Fin dai primi anni, re ‘Abdulaziz, il padre fondatore dell’Arabia Saudita, cercò di smussare le posizioni più intransigenti degli ulema, orientandoli a sostenere le politiche della monarchia.

Negli anni ’30, per esempio, i chierici – all’epoca poco più di una quindicina in tutto il Paese – si opposero all’adozione della radio, ritenendola incompatibile con l’etica islamica. Una situazione simile si ripresentò negli anni ’60, quando gli ulema si scontrarono con re Faisal sull’installazione di un sistema di trasmissione televisiva. Nonostante le obiezioni religiose, basate sull’idea che riprodurre immagini del corpo umano fosse immorale, Faisal emanò nel 1963 un decreto che autorizzava la costruzione di due stazioni televisive, a Gedda e a Riyad, senza consultare gli ulema. La decisione suscitò forti reazioni e manifestazioni di rabbia, culminate per la prima volta con la mobilitazione dei chierici nelle strade della capitale. Nel settembre 1965, i manifestanti tentarono persino di prendere d’assalto la stazione televisiva di Riyad. Le forze di sicurezza intervennero aprendo il fuoco sulla folla e uccisero, tra gli altri, un nipote di re Faisal, Khalid bin Musa‘id bin ‘Abdulaziz.

La monarchia cercò poi di circoscrivere ulteriormente l’influenza dei chierici “sospendendo” per un periodo la carica di Gran Mufti. Nel 1969 alla morte di Muhammad bin Ibrahim Al al-Sheikh, primo Gran Mufti dell’Arabia Saudita (in carica dal 1953), re Faisal decise di non nominare alcun successore. Le prerogative del Gran Mufti furono redistribuite tra il Ministero della Giustizia, istituito nel 1970, e il Consiglio degli Ulema, fondato l’anno successivo. Così facendo, re Faisal impedì la concentrazione dell’autorità religiosa in una singola figura, che avrebbe potuto ostacolare le riforme in ambito economico ed educativo alle quali stava lavorando. Entrambe le istituzioni furono poste sotto il controllo diretto della monarchia. Gli ulema continuavano a svolgere le loro funzioni all’interno dell’apparato statale, ma la loro autonomia risultò fortemente ridimensionata perché erano ora subordinati al Primo ministro, ruolo storicamente ricoperto dal re, salvo rare eccezioni. Peraltro, inizialmente i ministri della Giustizia erano esponenti religiosi, ma negli ultimi anni questa tendenza è cambiata, con la nomina di figure laiche, ciò che segna un’ulteriore evoluzione nell’equilibrio tra potere politico e autorità religiosa.

Anche negli anni Duemila i chierici hanno spesso ceduto alle richieste dei Saud, evitando di entrare in scontri diretti. Nel 2005, per esempio, re ‘Abdullah istituì contro il parere dei religiosi la festa nazionale, celebrata ogni anno il 23 settembre, iniziando così a promuovere un’identità nazionale laica. Allo stesso modo, la decisione di rendere lecita la guida delle donne nel 2018 è stata presa contro la volontà dell’establishment religioso: sheikh ‘Abdulaziz bin ‘Abdullah Al al-Sheikh si è allineato obtorto collo, contraddicendo di fatto la posizione tradizionale del clero su questa questione.

Un altro elemento da considerare è il numero relativamente limitato di discendenti di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab, soprattutto se confrontato con la crescita esponenziale della famiglia Saud. Storicamente i chierici wahhabiti tendevano a limitare i matrimoni poligami, riducendo così il numero di figli. Inoltre, appartenere alla famiglia degli Al al-Sheikh non implicava automaticamente intraprendere il percorso per diventare ‘ālim, un esperto di scienze religiose. Molti membri della famiglia hanno scelto percorsi alternativi, orientandosi verso ruoli in ambito governativo, finanziario o economico. Di conseguenza, oggi gli ulema discendenti degli Al al-Sheikh sono relativamente pochi.

La nomina di Saleh al-Fawzan a Gran Mufti evidenzia la volontà della monarchia di mantenere un equilibrio tra il passato e il futuro verso il quale è proiettato il Regno. Al-Fawzan incarna pienamente la tradizione salafita e la sua età anagrafica lo rende un testimone diretto di tutta la storia moderna dell’Arabia Saudita: ha conosciuto i sette sovrani che si sono succeduti dal 1932, anno dell’unificazione del Regno, a oggi, e ha vissuto tutti i grandi eventi che hanno plasmato l’identità del Paese. Al tempo stesso, però, la scelta di un chierico anziano lascia supporre che il suo mandato sarà di breve durata, facilmente gestibile dalla monarchia, e pensato come soluzione temporanea.