Un foreign fighter britannico pubblica online un manuale per visitatori dello Stato Islamico: interessante finestra su come gli jihadisti organizzano la società

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:44

Mentre le Nazioni Unite rilasciano l’ennesimo rapporto sulle donne rapite e ridotte in schiavitù in “maniera esponenziale” dagli uomini di al Baghdadi, il mondo guarda pressoché paralizzato l’avanzata e il consolidamento del più spaventoso tra gli Stati. lo Stato Islamico. Sì, perché per capire come tanto l’esercito iracheno quanto quello siriano supportati in modo più o meno coordinato dai raid aerei della coalizione internazionale non bastino a fermare gli jihadisti bisogna liberarsi dalle suggestive teorie cospirative e interrogare la realtà sul terreno. E sul terreno ci sono due fatti importanti: l’odio sedimentato delle popolazioni sunnite che in Iraq come in Siria tendono paradossalmente a sentirsi più protette dagli squadroni della morte che dai propri rispettivi governi (anche a Palmira la gente denuncia la fuga dei generali di Assad con buona pace dei civili rimasti in balia degli “invasori”) e la capacità del Califfato di terrorizzare da un lato e dall’altro di organizzare la nuova società, governare, controllare un territorio grande come il Belgio. In questa prospettiva è interessante leggere (per quanto assurda sia) la «Breve Guida allo Stato Islamico» (A Brief Guide to the Islamic State), un pampleth in inglese a uso di potenziali visitatori del Califfato redatto e pubblicato da un foreign fighter britannico, Abu Rumayasah al Britani. Assurda appunto, ma utile a sbirciare nella testa di chi la scrive, di chi la legge e di chi l’ha immaginata. L’autore, che precisa nella prefazione di non parlare a nome di nessuno ma di voler fornire una «narrazione alternativa alla vita nello Stato Islamico», dispensa indicazioni dettagliate sul cibo (raccomandando lo shish kebab e il cappuccino), la tecnologia, i trasporti, il clima e il sistema scolastico all’interno del regno di al Baghdadi (non ci sono informazioni o istruzioni militari). La logica è quella di sempre: la macchina della propaganda (sul duplice registro del terrore e della fascinazione distillata in forma di lavaggio del cervello) è uno dei punti di forza del Califfato che mescola hard power a soft power (ricordate l’hotel a 5 stelle di Mosul?). Alla lista dei limiti già oltrepassati mancava solo la guida turistica. «Se pensate che nello Stato Islamico si viva di pane raffermo e acqua infetta sbagliate di grosso» scrive Abu Rumaysah al Britani. Segue l’elenco di «succulenti» shawarma, «gustosi» shish kebab e «più che soddisfacenti» sandwich di falafel da «innaffiare» con «cocktails di frutta». L’autore menziona pure latte, zucchero, cappuccini «senza eguali nella regione» e gelati (ne parlava anche il foreign fighter belga Brian de Mulder spiegando a distanza alla madre disperata rimasta ad Anversa perché la sua esistenza siriana fatta di guerra ma anche gelati e nuotate fosse il paradiso dei sensi...). C’è poi il tempo, che al Britani, al netto di variazioni di latitudine, descrive come un delizioso «clima mediterraneo da resort vacanziero». E pazienza per la puzza sulfurea d’inferno respirata a pieni polmoni dai cristiani crocefissi, i «nemici» decapitati, i prigionieri, le donne e chiunque si metta di traverso sulla strada del progetto jihadista: la guida garantisce che il caldo torrido di certe stagioni è mitigato dal fresco all’interno delle moschee, dall’acqua distribuita a profusione lungo le strade e dall’abbigliamento coprente per uomini e donne che protegge dal peccato ma anche dal sole (per l’inverno si parla di un clima secco di tipo scandinavo...). I trasporti sono l’altro aspetto a cui la guida tiene in modo particolare. «Il Califfato si sta espandendo e ha bisogno di un’adeguata rete di trasporti» si legge. Mentre le intelligence di mezzo mondo si arrovellano sul modo di bloccare l’avanzata degli jihadisti (ed è questa obiettiva incapacità di fermare un esercito di circa 50 mila combattenti che alimenta le teorie del complotto) loro pensano a come collegare «comodamente» Raqqa e Falluja (anche per far saltare definitivamente i confini disegnati dagli accordi di Sykes e Picot). A parte che al Britani riferisce di conversazioni tra giovani jihadisti ambiziosi al punto di sognare d’espandersi fino alla Birmania e alla Cina (dando per scontato di essere già in LIbia, nel Sinai, in Nigeria...), l’aspetto interessante è la menzione degli ingegneri civili arruolatisi con il Califfato e di come la leadership conti su di loro per la costruzione di strade (i soldi, come è noto, non mancano, si parla di 323 milioni di dollari guadagnati solo dalla gestione del traffico dei migranti nel deserto africano). L’epilogo è “filosofico”. L’autore chiude infatti spiegando, a suo modo, perché l’affermazione del Califfato coincida con la fine del capitalismo (e ne suoni il requiem). Interpretazione soggettiva del mondo ovviamente, ma che coincide in modo sinistro con quanto affermano le migliaia di volontari europei (5mila? 6mila?) arruolatisi tra le fila di al Baghdadi. Tutti, e con forza maggiore quell’uno su sei di loro che è un convertito, cercano qualcosa assai più che scappare da qualcos’altro. Valori? Emozioni forti? Senso? Ideologie? Dio? La morte nell’incapacità di vivere la vita? Una valvola di sfogo all’odio verso il mondo, gli uomini, i diversi? Qualsiasi sia la risposta ci riguarda tanto e forse ancora di più della minaccia armata dall’altra parte del Mediterraneo. La Stampa