Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/07/2024 16:24:53

Dopo il fallito attentato al candidato repubblicano Donald Trump, anche la stampa araba torna a fare i conti con una sua vecchia conoscenza: l’ex (e forse futuro) presidente degli Stati Uniti che nel 2020 volle i famosi – o famigerati, a seconda delle prospettive – Accordi di Abramo, che avrebbero dovuto (il condizionale è d’obbligo) risolvere una volta per tutte l’annosa questione del riconoscimento dello Stato ebraico da parte dei Paesi arabi. La testata di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid non fa niente per celare il proprio fastidio nei confronti di un leader politico così smaccatamente ostile alla causa palestinese e totalmente allineato con Tel Aviv: «nella giornata di ieri abbiamo assistito a scene nella città di Gaza che ricordano massacri e attacchi già avvenuti in precedenza. Abbiamo seguito finché è stato possibile, finché le telecamere, i siti e i canali di informazione ci hanno portato nella città di Butler, nello stato della Pennsylvania, dove Trump stava parlando di fronte a una folla di suoi sostenitori». L’attentato avrebbe quindi distolto l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale dai tragici fatti di Gaza. Su al-Quds al-‘Arabi, lo scrittore e politico siriano Mouaffaq Nyrabia sonda gli (imperscrutabili) umori degli arabi a proposito della politica estera di Trump: «gli arabi potrebbero essere uno dei popoli più timidi nell’esprimere i loro veri desideri. Ciò si applica sia alle posizioni degli Stati arabi sulla guerra in Ucraina sia alla possibilità che Trump venga rieletto il prossimo autunno per un secondo mandato». «Noi e il resto del mondo – prosegue Nyrabia – siamo molto interessati alla politica [americana] e al fatto che essa possa cambiare, ma non abbiamo voce per indicare la direzione che vogliamo. L’attuale difficoltà di valutare Trump dipende dalla sua natura, che sembra essere imprevedibile, impulsiva e volubile. Egli promuove lo slogan “make America great again!” ma per realizzarlo vuole instaurare l’autarchia e cambiare direzione in maniera improvvisa, tornando a viva forza a politiche di investimento nel progresso militare, tecnologico e finanziario». Per quanto riguarda la regione mediorientale, «con il successo di Trump, la posizione americana causerà un dietrofront della politica di distensione con l’Iran, sia a livello internazionale che regionale. Ciò spingerà il Fronte del Rifiuto [l’Asse della Resistenza] verso una maggiore ostilità. L’elezione di un presidente iraniano moderato non avrà quindi alcun effetto calmante, finché la Guida Suprema, i Guardiani della Rivoluzione e le Forze Quds deterranno le redini del potere e la politica estera». Ma come si comporterà Trump – considerato la «mente» degli Accordi di Abramo – di fronte alla crisi di Gaza e allo scenario geopolitico venutosi a creare dopo il 7 Ottobre? La risposta è a metà fra l’ironia e la rassegnazione: «forse potrebbe ritornare al suo piano originale, quando offriva a Israele doni su doni, dalle leggi a favore dell’esproprio delle terre, degli insediamenti e dello status di Gerusalemme, fino alla cancellazione della soluzione dei due Stati, rimossa dalle sue priorità e obiettivi».

 

Il quotidiano panarabo filo-emiratino al-‘Arab, invece, si premura di sottolineare lo scarso interesse del candidato repubblicano per le questioni regionali: «nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha discusso delle faccende mediorientali con frasi succinte e sparse». Nella stragrande maggioranza dei casi non vi è niente di scritto, ma soltanto dichiarazioni estemporanee. Entrando nel merito, la sua visione sugli eventi in corso a Gaza è piuttosto chiara: «non ha aggiunto niente di nuovo, sostiene Israele e non ha mai chiesto di fermare la guerra nella Striscia o di evitare di colpire obiettivi civili, o di facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari. Al contrario, stando a una delle sue prime dichiarazioni, questa guerra durerà a lungo». Per quanto riguarda il dossier Iran, è probabile che con lui i rapporti tra Washington e Teheran diventino più tesi. Non solo, “The Donald” «potrebbe esercitare pressioni sugli Stati arabi per impedire lo sviluppo delle relazioni con Teheran. È altresì probabile che l’Iraq acquisti una rilevanza in questo ambito, in ragione della sua relazione con l’Iran e del ruolo di certe milizie irachene antisraeliane […]. Trump potrebbe infine fare pressioni sui Paesi arabi affinché si allontanino da Cina e Russia, ma probabilmente questo tentativo si risolverà con un fallimento, perché i Paesi sono ormai consapevoli degli attuali cambiamenti del sistema internazionale e del fatto che la presenza di un modello unipolare non agisce nei loro interessi». Sullo stesso giornale, l’autore emiratino Mohammed Khalfan al-Sawafi usa la figura di Trump per descrivere lo stato di salute politico-culturale di Stati Uniti ed Europa: anche «se l’Occidente si vanta di averci portato la democrazia e l’alternanza politica, credo che Trump sia un uomo della società democratica che appartiene alla società liberale. Ma in lui è chiara quella “sete per il potere” che altri nascondono […]. La maggior parte di noi ha vissuto nella falsa convinzione, perpetuata dai media occidentali e dai loro ricercatori, che questo amore per il potere sia una piaga circoscritta al Sud [globale], cioè al mondo arabo, all’Africa e persino all’Asia. In realtà, però, chi osserva i comportamenti dei capi di Stato occidentali scoprirà che anche loro non sono diversi dalle altre società nel desiderare di rimanere al potere il più a lungo possibile. Dobbiamo rivedere molte delle idee e dei valori che ci sono stati importati dall’“altro”».

 

Infine, il giornale panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat dedica un articolo alla politica estera del vice di Trump, James D. Vance: «per noi è interessante conoscere la personalità e le idee del senatore Vance mostrata nei suoi incontri e interviste televisive: è a favore del ritorno delle sanzioni all’Iran e alla proibizione delle armi nucleari. Sostiene l’accordo di difesa americano-saudita, nonostante questo sia opera del presidente Biden. Non ritiene però l’accordo collegato alla guerra di Gaza. Come tutti i candidati, è un convinto alleato di Israele. Nella nostra regione è contro gli estremisti, le organizzazioni estremiste e i loro progetti politici. Vance è la copia giovane di Trump».

 

Israele e Iran: due facce della stessa occupazione [a cura di Mauro Primavera]

 

I violenti attacchi compiuti dall’esercito israeliano tra il 12 e il 13 luglio hanno scatenato ancora una volta l’indignazione di gran parte della stampa araba. Fino a pochi giorni fa – scrive il giornalista libanese Hanna Saleh su al-Sharq al-Awsat – «regnava nella regione un clima di ottimismo per arrivare a una tregua che venisse estesa al Libano». Tuttavia Netanyahu, forse sfruttando l’effetto “Donald Trump” e la debolezza di Biden, è intenzionato a risolvere con la forza il duplice conflitto con Hamas e Hezbollah grazie ai maggiori spazi di manovra di cui ora gode: «è chiaro che l’occasione gli è favorevole per andare oltre i negoziati; il tempismo è perfetto per distruggere i tentativi di raggiungere una tregua». Su al-‘Arabi al-Jadid, lo studioso palestinese Khaled Hrub se la prende contro il clima di censura e la critica contro Hamas: «negli ultimi due secoli, in nessuna guerra di liberazione nazionale la resistenza che combatte l’occupazione e il colonialismo era stata sottoposta a una critica così aspra ed evidente». Per Hrub, il presunto “peccato originale” di Hamas, ossia quello di aver provocato la crisi di Gaza il 7 ottobre, è un refrain ripreso da numerosi canali di informazione palestinesi e arabi. «Al Arabiya e sorelle sostengono sia a parole che nei fatti Israele e la sua guerra, con l’unico obiettivo di criminalizzare e combattere la Resistenza». Sulla stessa testata, il giornalista egiziano Wael Qandil se la prende con quegli «arabi sionisti» che, più o meno apertamente, sostengono Israele, criticano Hamas e confidano nella buona riuscita del percorso negoziale. Sotto accusa anche il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen, che per Qandil rappresenta il tipico leader arabo che si è sottomesso alle logiche dell’aggressore: «Abu Mazen crede di vincere l’occupazione israeliana con le sue posizioni, anche se governerà su Gaza una volta che Israele avrà finito di distruggerla». Il giornalista definisce questa corrente un “diluvio”, uguale e contrario a quello di al-Aqsa: «c’è un diluvio di abbattimento e scoraggiamento che cerca di spingere la coscienza araba verso la “sionizzazione” dello spirito e della mente […]. Questo contro-Diluvio di guerra psicologica è pericoloso per gli arabi e per la Palestina più della stessa aggressione militare avviata dall’entità sionista a Gaza dal 7 Ottobre».

 

Dal “sionismo arabo” si passa, sulla testata libanese filo-Hezbollah al-Akhbar, al “sionismo cristiano”. Si tratta di «un movimento quasi del tutto sconosciuto nel nostro mondo arabo. Tuttavia, la verità sconvolgente è che il sionismo è iniziato come movimento cristiano prima di diventare ebraico, per via del credo dominante nel protestantesimo anglosassone dalla metà del XIX secolo in merito al “ritorno del popolo di Israele alla sua terra”». Questo credo religioso si sarebbe trasformato col tempo in una corrente politica che sta alla base della formulazione della “Dichiarazione Balfour”, con cui il Regno Unito nel 1917 aprì alla possibilità di stabilire in Palestina una national home per gli ebrei.  Più recentemente, «il sionismo cristiano ha incoraggiato Donald Trump a indirizzare i suoi attacchi contro la legittimità della questione palestinese attraverso il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico nel dicembre del 2017».

 

Molto critico anche il quotidiano di proprietà qatariota al-Quds al-‘Arabi che se la prende un po’ con tutti. Per cominciare vi è, ancora una volta, l’Occidente, reo di aver mostrato solidarietà a Israele in vari modi, tra i quali figura il riconoscimento dell’Islam politico come «nemico, vero o immaginario, del sistema politico arabo», un vero e proprio «spaventapasseri» che ha l’effetto di legalizzare qualsiasi movimento politico gli si opponga, a prescindere dal suo orientamento ideologico. Vi sono poi quei Paesi arabi «capeggiati dagli Emirati Arabi» che, nonostante il terribile conflitto nella Striscia, hanno mantenuto relazioni con lo Stato ebraico: «la guerra genocidiaria non ha spinto nessuno di quegli Stati a riconsiderare la normalizzazione, oppure a minacciare di interromperle se dovesse continuare l’aggressione». Ce n’è anche per il presidente tunisino Kais Saied e per quello siriano Bashar al-Assad, che sfruttano la questione palestinese in ambito propagandistico, per consolidare il loro regime autoritario.

 

Al-‘Arab, giornale panarabo di orientamento filo-emiratino, si concentra sull’altra occupazione, forse persino più pericolosa degli israeliani in Palestina: quella iraniana. «La verità è che l’Iran non è poi così diverso da Israele. Entrambi distruggono tutto ciò che si trova sulla strada per il raggiungimento dei loro obiettivi ed entrambi costruiscono i loro progetti sui cadaveri degli innocenti in Medio Oriente: iracheni, siriani, yemeniti e libanesi non sono poi così diversi dai palestinesi, perché tutti loro sono diventati il carburante del fuoco del colonialismo che si è insediato nei loro Paesi. A completamento dei piani espansionistici iraniani, Teheran e i membri dell’Asse cercano dal 7 Ottobre di consolidare e diffondere un discorso politico e mediatico che segue questa logica: se non sei il megafono dell’Iran o un servitore della sua agenda, allora sei a favore dell’occupazione israeliana e sei asservito alle politiche americane. Attraverso questa pratica di terrorismo intellettuale avvolta da definizioni e accuse di slealtà, di disonestà e di tradimento, l’Iran sta cercando di trovare nuove aree di influenza e di controllo». Di questo passo, conclude al-‘Arab, l’occupazione israeliana della Palestina verrà «sostituita con quella iraniana, che sogna di creare un impero persiano sul sangue dei popoli arabi».   

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