Il tempo del grigio è finito. Restano solo bianco e nero, pro e contro la violenza

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:58

Due sconquassi a brevissima distanza: la strage di Nizza e il fallito colpo di stato in Turchia. Due tuoni, ma il più fragoroso è il primo: mentre infatti le vicende turche s’inseriscono in una “normale” logica di lotta per il potere, con colpi bassi, manovre dietro le quinte, epurazioni e naturalmente sangue, nel caso di Nizza siamo di fronte all’inspiegabile. Tanto inspiegabile che la maggior parte degli esperti di jihadismo ha esitato quasi un giorno prima di pronunciarsi, forse augurandosi segretamente che si trattasse di un gesto di un pazzo isolato che nessuno osasse far proprio. E invece, con qualche ora di ritardo, è arrivata la rivendicazione dello Stato Islamico.

Due pensatori vengono in mente di fronte a questa tragedia: il primo è Benedetto XVI. Il bene è razionale, il male invece è un abisso oscuro il cui perché ultimo ci sfugge. Locuzioni come “raptus omicida” non sono che espressioni di comodo per coprire il nostro invincibile disagio.

Il secondo pensatore è René Girard e la sua lettura antropologica della violenza come un virus della civiltà. Isis e gli altri movimenti jihadisti hanno messo in circolazione il veleno e alcuni individui – che per tranquillizzarci vorremmo sempre disagiati e squilibrati – lo raccolgono, si infettano e colpiscono, a Nizza come a Würzburg. Che si tratti di un’azione isolata successivamente rivendicata dall’organizzazione terroristica o che esista una “cabina di regia”, alla fine fa poca differenza. Il meccanismo è antico quanto il mondo, ma la novità è che oggi questo fenomeno emulatorio è enormemente amplificato dai mezzi di comunicazione. Quel contagio che un tempo poteva investire un gruppo limitato su un territorio preciso, fino a portarlo, come estrema ipotesi, all’annientamento, ora può raggiungere l’intera comunità globale.

A fronte di questa situazione occorre avere il coraggio di dire che il sistema di incanalamento e finalizzazione della violenza che la sharî‘a medievale aveva previsto non regge più. Non serve essere un grande esperto di diritto islamico per sapere che questo non ha mai autorizzato la strage su larga scala di civili disarmati, in particolare bambini, e i tentativi di alcuni ambienti jihadisti di reperire degli antecedenti alle loro azioni nell’uso medievale di baliste e catapulte sono risibili. Eppure, questo sistema di norme ed eccezioni, concessioni e ritrattazioni, pesi e contrappesi, questa casuistica fondata su testi contraddittori, oggi non basta più.

Di fronte alla violenza esibita e celebrata di un camion lanciato a tutta velocità sulla folla inerme, il dottore della legge suona ridondante. E infatti, nel mondo musulmano, chi li segue più questi ulema “ufficiali” da cui reclamiamo, dopo ogni attentato, la presa di distanze e la condanna?

Pochi giorni fa un attentato ha colpito Medina. Pochi morti, relativamente parlando, ma l’impatto simbolico è enorme, perché per i musulmani è territorio sacro. Con questa azione, la violenza, che in questi anni ha già duramente colpito il Medio Oriente, è entrata prepotentemente nel santuario stesso dell’Islam, come al tempo degli omayyadi e poi dei carmati, come sotto i wahhabiti fanatizzati di inizio Ottocento e – quasi una prova generale – come per l’insurrezione salafita-jihadista del 1979.

Il tempo del grigio è finito. Restano solo bianco e nero, pro e contro la violenza. E restano soprattutto gli esempi. Se Oasis continua a raccontare anche esperienze di incontro tra cristiani e musulmani, non è per irenismo, giustificazionismo o paura. È perché al contagio del male vuole opporre un altro contagio, quello del bene. Anch’esso continua a operare, grazie soprattutto alla testimonianza feconda dei martiri del nostro tempo, in particolare i tanti cristiani del Medio Oriente che, malgrado le persecuzioni subite, hanno scelto di non alimentare il ciclo della vendetta. Le loro vite documentano quella rinuncia alla violenza sacrale, sempre da rinnovare, che il Cristianesimo offre a tutti gli uomini di buona volontà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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