Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:46:24

Il presidente americano Joe Biden si è preso la briga di spiegarlo agli americani con un editoriale pubblicato sabato scorso: «ecco perché vado in Arabia Saudita». Prima riga: «per iniziare una nuova e più promettente era dell’impegno americano» in questa regione. Aumentare il flusso degli idrocarburi per diminuire i prezzi dell’energia, contrastare il terrorismo jihadista, contenere l’Iran e sostenere Israele e gli alleati arabi sono, in sintesi estrema, i punti sottolineati da Biden sul Washington Post. Biden è «chiaramente sulla difensiva», ha scritto Kristian Coates Ulrichsen, e dunque «non sorprende che la Casa Bianca abbia faticato a produrre una narrazione chiara del viaggio».

 

È superfluo dire che non è bastato un editoriale per convincere gli scettici.

 

Una parte della critica si è soffermata sulla parte di viaggio che si è già svolta in Israele. Da un lato, come ha scritto Haaretz, le autorità israeliane sono sollevate dal fatto che Biden non abbia insistito sull’uccisione di Shirin Abu Akleh (menzionata solo prima di partire alla volta di Gedda), e che non abbia spinto sulla questione palestinese (offrendo più semplicemente 100 milioni per gli ospedali palestinesi). Dall’altro proprio queste considerazioni hanno portato alcuni a sottolineare come Biden stia solo portando avanti le politiche iniziate da Donald Trump.

 

Ma il grosso delle critiche si concentra sui due giorni che Biden spenderà in Arabia Saudita (venerdì pomeriggio e sabato).

 

Jon Hoffman (George Mason University) ha scritto su Foreign Policy che un aumento della presenza americana in Medio Oriente, e soprattutto l’estensione di una garanzia americana alla sicurezza di alcuni Paesi (come ipotizzato nel caso degli Emirati Arabi), sarebbe un «nonsenso strategico», perché finirebbe per favorire proprio gli interessi dei Paesi che Washington vorrebbe contrastare (oltre che, argomenta Hoffman, bypassare il ruolo del Congresso). Foreign Policy ospita anche l’opinione opposta di Firas Maksad, secondo il quale il viaggio di Biden è opportuno, perché serve per ricostruire lo status globale di Washington. 

 

Anche Cinzia Bianco, Ellie Geranmayeh e Hugh Lovatt sostengono che alcune delle azioni intraprese da Washington potrebbero essere controproducenti. Nel recente Commentary pubblicato per ECFR, i tre analisti hanno sottolineato come la promessa americana di sostenere la formazione di una partnership militare tra Israele e i Paesi arabi, con lo scopo dichiarato di contrastare l’Iran, significherebbe l’ulteriore «militarizzazione delle relazioni tra Israele e gli arabi» e potrebbe portare a ulteriore instabilità. Infatti, come verrebbe percepita dall’Iran la formazione di una tale alleanza, per quanto questa si voglia difensiva? Teheran la vedrebbe come una minaccia e avrebbe tutto l’interesse ad avanzare il più rapidamente possibile il suo programma nucleare. Una situazione non dissimile da quella tipica del “dilemma della sicurezza” teorizzata dagli studi sulle relazioni internazionali. Inoltre, ha scritto Kristian Coates Ulrichsen, la parte saudita del viaggio di Biden rischia di «aggiungere, anziché risolvere, punti di tensione» tra il presidente americano, la sua base politica e le relazioni saudite-americane.

 

Ci sono poi le conseguenze legate all’inversione a U operata da Biden, che aveva promesso di rendere l’Arabia Saudita un paria e di far pagare a MbS l’omicidio Khashoggi. Ciò permetterà a MbS di ottenere ciò che «tre anni di campagne di PR, di spese per attività di lobbying e persino un nuovo circuito di golf» non sono riusciti a dargli: il «ritorno alla rispettabilità», ha scritto Fred Ryan sul Washington Post (di cui è editore). Secondo Ben Rhodes, membro dell’amministrazione Obama, «la retorica americana sulla democrazia sarà etichettata dai cinici come un’ipocrisia focalizzata sugli avversari geopolitici degli Stati Uniti», mentre l’impegno americano contro il cambiamento climatico svanisce di fronte alla necessità di ottenere petrolio a prezzi più contenuti. Il risultato, sostengono i critici, è che il viaggio renderà paradossalmente più difficile per Biden raggiungere gli obiettivi di politica estera che si era prefisso. Secondo Rhodes sarebbe però troppo facile scaricare la colpa sul presidente in carica; al contrario, la necessità di avere petrolio economicamente conveniente e la stessa figura di MbS «sono in molti modi un prodotto dell’ordine mondiale a guida americana degli ultimi decenni».

 

Negli Emirati la visione dei fatti è diversa ed è ben sintetizzata da Ebtesam Al Ketbi, presidente dell’Emirates Policy Center. Al Ketbi ha spiegato dalle colonne del quotidiano emiratino The National che la visita di Biden è un’importante opportunità per rafforzare il format del “Negev forum” e per « la sicurezza e le capacità di difesa missilistica degli Emirati e dei Paesi del CGG».

 

Un altro rischio per Biden è quello di aver compiuto un viaggio che, seppur per motivi diversi, è impopolare tanto per la base democratica quanto per quella repubblicana (come ha mostrato l’indagine di Shibley Telhami pubblicata da Brookings). Ma, ancora peggio, Biden potrebbe tornare a mani vuote. È il rischio che vedono anche gli analisti cinesi (e con ogni probabilità per loro è anche un auspicio): come scritto sul Global Times da Yang Sheng e Cui Fandi è improbabile che, considerata la declinante influenza americana nell’area, Biden riesca a formare una «nuova alleanza militare». È già significativo che ad accogliere Biden ci sia stato Khaled al-Faisal, governatore di Mecca, e non – come avvenuto durante il viaggio di Donald Trump – direttamente Re Salman (o eventualmente MbS). Inoltre, a poche ora dell’arrivo del  presidente americano nella penisola arabica, Anwar Gargash, consigliere del presidente emiratino Mohammed bin Zayed, ha specificato che Abu Dhabi è contraria alla formazione di un asse regionale contro l’Iran, che non vuole uno scontro con Teheran e che programma l’invio di un ambasciatore nella Repubblica Islamica. Gargash ha infine affermato che gli Emirati si distanziano da tutte le dichiarazioni israeliane che riguardano l’Iran. Il “fronte” auspicato da Washington non sembra dunque così compatto.

 

Forse però la persona che più di tutti può definire l’esito del viaggio di Biden non compare sul programma . Come ha scritto Haaretz, questa persona potrebbe essere la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei: è lui, si legge, a tenere in mano la penna con cui decidere se siglare la rinascita dell’accordo sul nucleare. Se lo facesse, sostiene Aluf Benn, «la costellazione regionale delle forze cambierebbe», mentre in caso contrario ci sarebbe un nuovo aumento della tensione e, con esso, dei prezzi del petrolio, determinando il fallimento del viaggio di Biden. Non a caso anche il presidente russo Vladimir Putin sembra preoccuparsi di cosa deciderà di fare Teheran.

 

Quanto, davvero, sono vicini Iran e Russia?

 

Poco prima che Biden partisse per il Medio Oriente, Putin ha annunciato che la settimana prossima sarà a Teheran, dove lo raggiungerà anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Sebbene ufficialmente l’incontro sia dedicato alla situazione in Siria, esso avviene all’interno di un contesto ben preciso: Russia e Turchia sono impegnate nei colloqui con l’Ucraina per lo sblocco delle esportazioni di grano attraverso il Mar Nero e secondo Politico il fatto che Erdoğan e Putin si incontrino di persona può essere letto come un segnale che le trattative potrebbero sbloccarsi.

 

Viene tuttavia quasi spontaneo interpretare il summit di Putin con Erdoğan ed Ebrahim Raisi come una risposta agli incontri di Biden in Medio Oriente, in buona parte focalizzati proprio al contrasto della Repubblica Islamica. Questa settimana, infatti, sono emerse diverse notizie secondo cui Teheran si sarebbe impegnata a fornire a Mosca aiuti militari per la guerra in Ucraina. Ne ha parlato ad esempio la BBC, che ha specificato che l’Iran potrebbe fornire «centinaia» di droni, di cui alcuni armati, per il dispiegamento in Ucraina. Sebbene la notizia sia tutt’altro che confermata (e appare difficile che l’Iran abbia questa capacità, soprattutto nei numeri indicati da diversi media), indica comunque il timore che la cooperazione militare tra Iran e Russia, già operativa in Siria, possa estendersi ad altre aree del mondo. I dubbi riguardo alle informazioni sul sostegno iraniano alla guerra russa in Ucraina arrivano anche dal fatto (ripreso tra gli altri da Associated Press) che il ministro degli Esteri iraniano Amirabollahian in visita a Roma questa settimana ha espresso la contrarietà di Teheran all’invasione dell’Ucraina. Amirabollahian ha inoltre ribadito che le trattative sul nucleare sono ancora in corso e che anche su questo Teheran ha posizioni diverse rispetto a Mosca. In generale, nonostante si parli parecchio della convergenza tra Mosca e Teheran e dei legami economici che si stanno creando tra le due capitali, è difficile che Russia e Iran formino un’alleanza strategica. A favore di buone relazioni russo-iraniane gioca anche la necessità di attraversare l’Iran per recapitare merci russe in India. Tuttavia, come ha evidenziato il ricercatore Esfandyar Batmanghelidj, dal punto di vista commerciale sono principalmente tre i motivi che impediscono la formazione di una partnership strategica di lungo periodo: primo, i due Paesi producono le stesse merci e, secondo, l’approfondimento di legami commerciali espone le aziende russe ad altre sanzioni secondarie. Infine, i consumatori sia nel mercato russo che in quello iraniano si stanno considerevolmente impoverendo. In effetti, in particolare in Iran, la situazione economica è disastrosa: una famiglia media in Iran ha perso il 10% del suo potere d’acquisto solo nel periodo 22 maggio 2022 – 21 giugno. Per avere un’altra idea di cosa ciò significhi basta osservare che, a causa anche (ma non soltanto) del mantenimento delle sanzioni americane, da quando il presidente Biden è entrato in carica ad oggi il prezzo dei beni alimentari è aumentato in Iran del 108%, mentre quello delle spese sanitarie del 55%.

 

Intanto, in risposta alle celebrazioni per la Giornata Nazionale dell’hijab e della castità, diverse donne iraniane hanno protestato contro l’obbligo vigente in Iran di indossare il velo in pubblico. La protesta ha portato molte di loro a togliersi il velo, andando incontro ai rischi connessi.

 

Dbeibah rimuove un uomo chiave del settore petrolifero libico

 

Da alcune settimane la Libia è di nuovo sprofondata nel caos. Dalla caduta di Gheddafi è stato evidente come il controllo delle rendite petrolifere sia uno dei principali punti attorno ai quali i governi contendenti libici si dividono. Si coglie allora quale possa essere l’importanza della mossa a sorpresa del Governo di Unità Nazionale (GNU) guidato da Abdulhamid Dbeibah, che ha rimosso Mustafa Sanalla dal suo incarico di presidente della compagnia petrolifera nazionale (NOC). Al suo posto è stato nominato Farhat Bengdara, già governatore della Banca Centrale Libica durante gli ultimi anni del regime di Muammar Gheddafi. Bengdara ha subito affermato che il suo primo obiettivo è quello di rimuovere il blocco ai terminali che ha provocato la drastica riduzione delle esportazioni di petrolio dalla Libia. Come ha scritto il Financial Times, la nomina di Bengdara è stata favorita dal lavoro diplomatico degli Emirati Arabi e secondo alcuni analisti il tentativo di Tripoli è quello di creare una frattura tra il generale Khalifa Haftar e Fathi Bashagha. Malik Traina di Al-Jazeera sostiene che Dbeibah ha preso la decisione dopo aver incontrato il figlio di Haftar, il quale, in cambio della rimozione di Sanalla, avrebbe accettato di rimuovere il blocco alle esportazioni di petrolio e di interrompere il sostegno a Fathi Bashagha. Come al solito però, le cose in Libia non vanno come ci si potrebbe aspettare: Sanalla, che negli anni aveva cercato di mantenere la NOC equidistante dai due governi rivali di Tobruk e Tripoli, ha rifiutato la decisione e ha accusato il governo tripolino di aver agito nonostante il suo mandato sia scaduto. Ma non finisce qui, perché nella sua posizione Sanalla è forte del sostegno di due pezzi da 90: Stati Uniti e Regno Unito hanno infatti chiarito il loro apprezzamento per Sanalla, schierandosi di fatto contro gli Emirati. Nelle parole dell’ambasciata britannica: «l’indipendenza e l’integrità della NOC vanno protette e rispettate». La presa di posizione è significativa perché, come ha ricordato Mohamed Eljarh su Twitter, sia Washington che Londra sono state importanti per permettere a Dbeibah di rimanere al potere anche oltre la scadenza del suo mandato. Emadeddin Badi ha invece sottolineato come la mossa di nominare Bengdara (che tra l’altro ha legami con la Russia) politicizzerà il settore petrolifero libico a favore di un riavvicinamento di corto respiro tra Dbeibah e Haftar. Ma quanto durerà questo riavvicinamento? E come reagirà quella parte di milizie della zona nord-occidentale della Libia che è contraria a Dbeibah e che, come ha ipotizzato il ricercatore Jalel Harchaoui, potrebbe avere buon gioco a utilizzare Bashagha come veicolo del proprio malcontento?

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino e Mauro Primavera

Reazioni arabe al viaggio di Biden in Medio Oriente: occhi puntati sulla Palestina

 

Questa settimana la visita di Joe Biden in Medio Oriente ha quasi monopolizzato l’attenzione dei quotidiani arabi.

 

Al-Quds al-Arabī ha commentato la decisione di Biden di pubblicare, quarant’otto ore prima della sua partenza per il Medio Oriente, un editoriale sul Washington Post, sulle ragioni della sua visita in Arabia Saudita. Questa decisione sarebbe funzionale a placare il risentimento della leadership saudita, infastidita dalle precedenti dichiarazioni del presidente americano sul proprio conto. Allo stesso tempo, il riavvicinamento tra Riyad e Washington – si legge – ha messo in allerta Teheran, che vede sfumare ulteriormente la possibilità di raggiungere un accordo sul nucleare. Posto di fronte a questa prospettiva, l’Iran ha preso le contromisure «approfondendo la sua alleanza politica e militare con Mosca e fornendo a quest’ultima centinaia di droni». A sua volta, Vladimir Putin ha risposto annunciando la sua partecipazione a un vertice che si terrà a Teheran il prossimo 19 luglio. Ufficialmente organizzato per trattare della questione siriana (tant’è vero che all’incontro parteciperà anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan), secondo al-Quds questo incontro è «una mossa parallela sullo scacchiere della politica internazionale per bilanciare la visita di Biden nella regione e dimostrare che gli alleati iraniani della Russia mostrano un entusiasmo molto maggiore rispetto ai presunti “alleati” dell’America, a Riyad e Abu Dhabi». L’obbiettivo della visita di Biden in Arabia Saudita – conclude l’editoriale – è «ripristinare la vecchia alleanza e mobilitare le forze influenti in Medio Oriente, incluso Israele, in una lunga guerra, in cui l’Ucraina potrebbe essere solo l’inizio».

 

Gran parte degli articoli della settimana sono però dedicati alla questione palestinese e alle prospettive di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, uno degli obiettivi del viaggio di Biden.

 

Il quotidiano filo-saudita al-Sharq al-Awsat è sembrato voler sgombrare subito il campo da ogni illusione: la giornalista libanese Huda al-Huseyni ha affermato che il problema non si pone: «non ci saranno progressi verso una cooperazione israelo-saudita in virtù dell’adesione di Riyad all’Iniziativa di pace araba». Secondo al-Huseyni, inoltre, Biden starebbe corteggiando il più grande produttore mondiale di petrolio per risolvere un problema che genera frustrazione negli americani, cioè l’aumento dei prezzi del carburante. Nella migliore delle ipotesi, ha scritto, Biden può sperare di contrattare con Riyad un ulteriore aumento della produzione di greggio rispetto a quella già preventivata per il mese di luglio, ma non deve aspettarsi una riduzione dei prezzi a livello mondiale. Anche perché il Regno non ha la capacità di supplire alla quantità di petrolio che il mondo perderà a causa delle sanzioni imposte alla Russia. Ad ogni modo, ha concluso al-Huseyni – «il principe ereditario Muhammad bin Salman sa a che cosa mira Biden e si siederà davanti al presidente americano dicendogli: “io sono il nipote di re ‘Abdulaziz, che è stato onesto e ha mantenuto le sue promesse nei confronti del tuo Paese, e seguirò la sua strada. Ti chiedo di rinnovare la promessa che Roosevelt fece a mio nonno di proteggere gli interessi del mio Paese, del mio popolo e della mia nazione».

 

Più possibilista il londinese al-‘Arab, che questa mattina ha titolato “Un cambiamento dell’umore dell’opinione pubblica saudita rispetto alla relazione con Israele”. La tesi di fondo è che l’autorità palestinese, con il suo atteggiamento di lotte interne, ha contribuito a far calare l’entusiasmo dei sauditi per la causa palestinese. Questo però non significa che il Paese sia effettivamente pronto a sconfessare la sua posizione storica di sostegno alla Palestina, benché negli ultimi anni siano arrivati diversi segnali favorevoli in questo senso: il principe Muhammad bin Salman ha descritto Israele come un potenziale alleato, Riyad ha aperto ai voli diretti da Israele nel Regno per il trasporto dei pellegrini musulmani, alla Dakar 2021 (che si svolge in Arabia Saudita) è stata consentita la partecipazione anche ai piloti israeliani e, in generale, i sermoni durante la preghiera del venerdì sono meno ostili a Israele rispetto a quanto lo fossero in passato.    

 

Sono invece molto critiche le testate tradizionalmente schierate dalla parte dei palestinesi e contro gli autocrati arabi.

 

Sul quotidiano filo-islamista ‘Arabī21 Hazem Ayyad ha definito la visita di Biden «uno spettacolo mediatico e diplomatico che non gode del favore dei popoli della regione, i quali soffrono per le condizioni economiche deteriorate e per la sedizione israeliana, che aggrava la crisi di legittimità politica nella regione araba. Ciò che Kissinger immaginava essere un cambiamento nella regione araba – ha concluso Ayyad – era soltanto un riflesso distorto del declino e dell’erosione dell’influenza americana nella regione e nel mondo».

 

Al-Arabī al-Jadīd ha pubblicato un breve video di un gruppo di palestinesi intenti a protestare contro la visita di Biden chiedendo a Mahmoud ‘Abbas di non incontrare il presidente americano a Betlemme, dopo che quest’ultimo ha firmato la Dichiarazione di Gerusalemme, che assicura a Israele la superiorità militare nella regione.

 

Lo stesso quotidiano ha intervistato l’ex ministro palestinese Hanan Ashrawi, secondo la quale quello tra Biden e Abu Mazen è soltanto un incontro di facciata, una sorta di copertura affinché non si possa dire che il presidente americano è stato in Israele ma non ha incontrato la leadership palestinese. Sull’incidenza che questa visita avrà sulla causa palestinese Ashrawi non nutre alcuna aspettativa: Biden, «che è la versione debole di Trump, non prenderà alcuna decisione che faccia arrabbiare Israele, pertanto i palestinesi non devono aspettarsi nulla». Tra le cose che Trump avrebbe il potere di fare, ma non farà, ci sono la riapertura del consolato americano a Gerusalemme (presente in città dal 1844, quindi ben prima della nascita di Israele), quella della sede dell’OLP a Washington, chiusa a seguito del Taylor Force Act e il blocco degli insediamenti nell’area E1, che mirano a collegare gli insediamenti a Gerusalemme Est con quelli della Cisgiordania – un progetto rimasto bloccato per alcuni anni, ripreso dopo che Trump ha proposto l’annessione di Gerusalemme a Israele.

 

Per al-Jazeera l’obbiettivo della visita di Biden è «cercare di integrare Israele nella regione e imporre agli Stati arabi, tra cui l’Arabia Saudita, un’alleanza sicuritaria ed economica con l’entità occupante».

 

Al-Quds al-Arabī oggi si è domandato se sia davvero possibile «integrare Israele nella regione». La risposta è negativa. La volontà di Biden si scontra con «il fattore geografico, storico, politico e sociale, rappresentato principalmente dall’esistenza dei palestinesi e dall’esistenza di un’ampia maggioranza, tra i popoli arabi, che sostiene i palestinesi nonostante la tirannia araba sia riuscita con “successo” ad abbattere i movimenti popolari arabi e a servirsi, in maniera esplicita o implicita, di Israele contro i popoli».

 

Se per i palestinesi la Dichiarazione di Gerusalemme è problematica, essa non lo è per una parte di Paesi arabi, che nel documento vedono soprattutto la morte definitiva dell’accordo sul nucleare iraniano. Significativa in questo senso è la vignetta celebrativa della Dichiarazione pubblicata stamane da al-Sharq al-Awsat: il vaso superiore di una clessidra rappresentante l’Iran e il nucleare quasi del tutto svuotato nel vaso inferiore sul quale campeggia la stella di David.

 

Gli Emirati, da parte loro, hanno invece preso le distanze dall’approccio conflittuale con l’Iran sotteso nella Dichiarazione di Gerusalemme. Ed è proprio il quotidiano libanese filo-hezbollah al-Akhbār (e non i quotidiani emiratini) ad aver dato rilievo alla notizia secondo cui Abu Dhabi sta lavorando per aprire un’ambasciata a Teheran.

 

Nel giorno dell’arrivo di Biden in Arabia Saudita, il quotidiano nazionale al-Riyād ha pubblicato una vignetta che celebra il ritrovato rapporto tra i due Paesi: due pezzi di puzzle rappresentanti l’uno la bandiera americana, l’altro la bandiera saudita, perfettamente incastrati tra loro.  

 

Il quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbāriyya ha ripercorso brevemente gli ultimi vent’anni delle relazioni diplomatiche tra Washington e Riyad – dal gelo seguito agli attentati dell’11 settembre, alle politiche di Obama, accusato di aver sostenuto le Primavere arabe, il disimpegno americano in Medio Oriente, i Fratelli musulmani in Egitto e l’accordo nucleare con l’Iran «scuotendo pesantemente la fiducia degli alleati del Golfo», per poi arrivare a un temporaneo miglioramento delle relazioni durante la presidenza di Trump a cui è seguito un netto peggioramento con Biden.

 

In Tunisia continuano le proteste contro la Costituzione

 

Mentre il Golfo guarda al viaggio presidenziale, in Tunisia continuano le polemiche sulla nuova Costituzione. Dopo le critiche di Sadiq Belaid, presidente della commissione costituente che la settimana scorsa aveva preso le distanze dal testo pubblicato sulla gazzetta ufficiale, il capo dello Stato Kais Saied ha pubblicato la sera dell’8 luglio un decreto che apporta modifiche alla bozza originale, allo scopo di correggere alcuni errori ed eliminare qualsiasi fraintendimento e confusione circa la corretta interpretazione della Costituzione, come ha spiegato lo stesso Saied nel discorso alla nazione in occasione dell’Eid al-Adha, la festa che conclude il pellegrinaggio. 

 

Se si escludono sviste ortografiche e refusi minori, le revisioni aumentano i riferimenti alla democrazia e al rispetto dei diritti umani, come dimostra il nuovo articolo quinto: «La Tunisia è una parte della umma islamica; solo lo Stato ha il compito di conseguire gli obiettivi dell’Islam ortodosso, rimanendo nel perimetro del sistema democratico, al fine di preservare la vita, la dignità, le finanze, la religione e la libertà». Un’altra modifica ha chiarito la durata della carica del presidente della repubblica che non può superare i due mandati, ognuno della durata di cinque anni, che siano consecutivi o separati.

 

Malgrado queste aggiunte, la Coalizione civile tunisina – un insieme di associazioni che include il Forum Tunisino per i diritti sociali ed economici, l’Associazione delle Donne Tunisine Democratiche e il sindacato dei giornalisti – ha dichiarato che il testo redatto l’8 luglio «non garantisce [ancora] diritti e libertà» e che, inoltre, «non è meno fragile della prima bozza».

 

‘Arabī 21 ha riportato una dichiarazione congiunta di cinque partiti tunisini (Partito Repubblicano, Corrente Democratica, Partito dei Lavoratori, Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà e il Polo Democratico) in cui si afferma che il decreto presidenziale «svilisce la legge e contraddice le decisioni prese in precedenza dallo stesso Saied». I quarantasei emendamenti alla bozza costituzionale, si legge nel comunicato, «costituiscono l’ennesima prova della personalizzazione e dell’improvvisazione che ha caratterizzato il processo di scrittura della Costituzione». L’articolo cita, inoltre, una nota dell’UGTT, il più importante sindacato del Paese, in cui si sostiene che gli emendamenti, pur non risolvendo le violazioni fondamentali, rappresentano comunque una «revisione positiva» del testo.

 

Turchia: sei anni dopo il tentato colpo di Stato

 

I quotidiani vicini al Qatar hanno ricordato l’anniversario del tentato colpo di Stato in Turchia avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, quando una parte dell’esercito cercò di prendere il potere e porre agli arresti il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Al-Jazeera ha riportato le parole dell’ambasciatore turco a Doha, Mustafa Koksu: «non dimenticheremo la posizione avuta nei nostri confronti dal Qatar e il fatto che l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani è stato il primo capo di Stato al mondo a condannare il golpe». Il diplomatico ha sottolineato, in un articolo a sua firma sempre per al-Jazeera, che la crisi ha rafforzato il patriottismo del popolo turco e la sua fiducia verso le istituzioni, come dimostrato dall’approvazione del referendum costituzionale del 2017. 

 

Anche al-‘Arabī al-Jadīd ha mostrato, seppur con toni meno enfatici rispetto ad al-Jazeera, il tentativo, da parte di Ankara, di considerare il fallito colpo di stato come “anno zero” del nuovo Stato turco, attualmente protagonista delle dinamiche geopolitiche di Medio Oriente, Europa e, da ultimo, mediatore della crisi russo-ucraina. Proprio oggi il governo ha svelato una serie di progetti che dovrebbero rilanciare e modernizzare l’economia del Paese: dall’estrazione di gas nel Mar Nero all’inaugurazione della centrale nucleare di Akkuyu prevista nel 2023, dalla produzione di auto elettriche alla costruzione di un grande polo industriale di batterie al litio, il più grande d’Europa. Erdoğan è tuttavia consapevole che l’attuale crisi potrebbe porre un freno ai grandiosi piani di sviluppo della Turchia: «Al momento abbiamo un problema con l’economia e l’inflazione, ma non permetteremo che il nostro Paese venga sopraffatto dalla questione economica. Prenderemo tutte le misure necessarie per risolvere al più presto questo problema».  

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