Decenni di occupazione e due anni di guerra hanno scavato un solco profondissimo tra ebrei e palestinesi. Eppure, tra mille difficoltà, qualcuno cerca di costruire un futuro migliore

Ultimo aggiornamento: 07/10/2025 15:56:21

Il paesaggio della Cisgiordania è un cantiere in continuo movimento. Nuove strade spuntano dal nulla, le rotonde sono fresche di asfalto e, sulle colline che caratterizzano il paesaggio, si vedono da tutte le parti i segni inconfondibili dell’espansione degli insediamenti israeliani. I coloni iniziano piantando una bandiera, poi a volte compare una roulotte e infine le prime costruzioni. Questa espansione, considerata illegale dal diritto internazionale, ha subito un’accelerata dopo il 7 ottobre.

Lo sa bene Daoud Nassar, palestinese cristiano di 54 anni e custode della Tenda delle Nazioni, una fattoria che pratica la resistenza non violenta in una collina a sud-ovest di Betlemme, poco lontano dal villaggio di Nahalin. I 42 ettari di terra della famiglia Nassar sono da decenni circondati da cinque insediamenti, che sorgono sulle alture circostanti. Fino a qualche anno fa la situazione era statica. Poi, dopo il 7 ottobre 2023, le gru e le betoniere hanno cominciato a circolare con maggior frequenza e gli ultimi insediamenti sono stati costruiti (da lavoratori palestinesi) proprio a ridosso della fattoria. Daoud, insieme al fratello Daher e alla sorella Amal, non vive più alla Tenda delle Nazioni dopo essere stato attaccato dai coloni. Ma anche raggiungere la proprietà da Betlemme è sempre più complicato, perché sono stati costruite nuove barriere e i posti di blocco mobili ogni tanto appaiono rallentando il traffico. Alcuni giorni impediscono del tutto il passaggio. Su una strada a cui si poteva accedere alla fattoria a piedi, adesso c’è una bandiera israeliana e il confine tra quello che probabilmente diventerà un nuovo insediamento illegale e la Tenda delle Nazioni è un ammasso di spazzatura.

Immagine1.jpg«L’unica protezione rimasta è la presenza internazionale», spiega Daoud facendo riferimento ai gruppi di volontari che da diversi Paesi stranieri si danno il turno durante l’anno per lavorare alla Tenda delle Nazioni. Gruppi di pellegrini passavano per ascoltare la storia della proprietà, dove non c’è acqua corrente, e l’elettricità è disponibile solo grazie ai pannelli solari. 

La terra venne acquistata dal nonno di Daoud nel 1916. «La mia famiglia fece due cose che al tempo non erano usuali: registrò la terra e decise di vivere nella fattoria anziché fare avanti e indietro», racconta Daoud, che quindi possiede i documenti dell’Impero ottomano, dell’Impero britannico, della Giordania e del governo israeliano che attestano che i 42 ettari della Tenda delle Nazioni appartengono alla famiglia Nassar.

Eppure è da 34 anni che Daoud combatte una battaglia legale per dimostrare di essere il legittimo proprietario della terra, con un costo che in totale ha superato i 300.000 euro, una spesa che è stato possibile affrontare solo grazie alle donazioni internazionali e alla rete di contatti che la famiglia Nassar ha costruito negli anni. Una volta le autorità israeliane si sono presentate con un assegno in bianco. «Ma non possiamo vendere questa terra, perché l’abbiamo ereditata, per noi è un dono. E i doni non si vendono», commenta Daoud, spiegando che i suoi antenati hanno sempre vissuto nelle grotte naturali che si trovano nella fattoria, stabilendo anche un legame spirituale con il luogo.

La vita dei volontari e delle volontarie alla Tenda delle Nazioni è estremamente ripetitiva. Alle 7 colazione, poi divisione dei compiti (dar da mangiare agli animali, innaffiare le piante, spianare i terreni, sistemare le aiuole o le residenze di altri volontari in arrivo...), pausa caffè verso le 10.30, ripresa dei lavori e alle 13 pranzo. Fino alle 15.30 circa ci si riposa, soprattutto d’estate, quando il caldo rende impossibile qualunque attività che non sia leggere o dormire. A giorni alterni, verso sera, si innaffiano circa 8-900 piante a mano, con le taniche d’acqua, a sua volta presa da una cisterna, a causa della mancanza di acqua corrente. Si cena intorno alle 19 e poi si passa il tempo in compagnia e a guardare il tramonto sulle colline di Betlemme, il momento più gratificante della giornata.

Immagine2.jpgSarebbe facile cedere al pensiero di trovarsi in un’oasi di pace. Qui, in realtà, a 950 metri di altitudine, tutte le sere si sentono i bombardamenti israeliani su Gaza. All’inizio di quest’ultima guerra si sentiva anche la terra tremare. I volontari vivono quasi tutti nelle grotte scavate nel terreno perché il governo israeliano ha vietato le costruzioni in superficie. Alla fattoria c’è anche una piccola cappella dove ogni tanto si celebra la Messa. Anche se la famiglia Nassar appartiene alla Chiesa luterana, non è inusuale che si tengano celebrazioni ecumeniche, per la presenza di volontari che appartengono a diverse confessioni. «I primi cristiani non avevano chiese, celebravano nelle grotte. Qui facciamo la stessa cosa», spiega ancora Daoud. Sul pavimento della cappella è stato disegnato un Cristo che spezza in due un fucile, uno dei tanti simboli che alla Tenda delle Nazioni richiamano la non violenza attiva.

La famiglia Nassar, infatti, ha deciso di vivere secondo quattro principi: «Rifiutiamo di odiare, perché l’odio non può che generare altro odio. Rifiutiamo di essere vittime, di sederci in un angolo e aspettare che qualcuno venga a salvarci. Agiamo sulla base della nostra fede cristiana. E crediamo nella giustizia, anche se l’ingiustizia che stiamo vivendo può durare anche cento o mille anni. Non importa, alla fine la giustizia prevarrà», afferma Daoud. «Trasformiamo la frustrazione in azione positiva», aggiunge. Ogni volta che la loro terra è stata attaccata, la famiglia Nassar non ha scelto la strada della vendetta, ma la ricostruzione e l’ideazione di nuovi progetti. In un paio di occasioni, la piantumazione di nuovi alberi da frutto che erano stati sradicati dai bulldozer israeliani, è stata finanziata da organizzazioni ebraiche. «Piantare un albero vuol dire credere nel futuro», ribadisce Daoud con serenità. «Una delle ultime idee che mi è venuta in mente sarebbe di fare in modo che la fattoria diventi un centro educativo sulla sostenibilità ambientale, visti tutti i progetti che siamo riusciti ad attuare nonostante l’assenza di acqua ed elettricità. Anche educare nelle nuove generazioni significare avere speranza nel futuro».

 

I beduini stretti nella morsa delle ruspe

In questo momento l’area più calda è quella a Est di Gerusalemme in particolare nella regione chiamata E1 (East 1), dove il governo israeliano ha di recente deciso l’espansione dell’insediamento di Ma’ale Adumim, separando in due la West Bank e isolando Gerusalemme Est dai territori palestinesi. Il completamento del piano E1, risalente agli anni ’90 e poi congelato a causa delle pressioni internazionali, renderebbe del tutto impossibile la già pressoché impraticabile creazione di uno Stato palestinese contiguo nei territori occupati. Lo ha sottolineato lo stesso ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, quando ha annunciato l’approvazione della costruzione di 3.000 nuove abitazioni». L’E1 seppellisce l’idea di uno Stato palestinese e prosegue le numerose iniziative che stiamo intraprendendo sul campo nell’ambito del piano di sovranità di fatto che abbiamo iniziato ad attuare con l’istituzione del governo».

Nel mezzo di questo scontro ci sono i beduini, comunità mai riconosciute nonostante vivano in queste zone desertiche da sempre e in forza di questo considerate “abusive”. Costrette a rinunciare al nomadismo, oggi abitano perlopiù in baracche costruite in lamiera, oppure in stanze fatte di pannelli di legno e tetti composti da teli di plastica. Da tempo vedono ridursi le loro mandrie perché spesso i coloni comprano un capo di bestiame, lo inseriscono tra le mandrie dei beduini e fanno una foto. Poi vanno dalla polizia israeliana sostenendo che il bestiame sia loro e così rubano ai beduini i pochi mezzi di sussistenza rimasti.

Diverse associazioni lavorano da anni in queste aree. Le famiglie beduine hanno rifiutato gli aiuti medici, nonostante la diffusione di malattie genetiche, conseguenza della pratica tradizionale (non religiosa) di sposarsi tra cugini. Hanno però chiesto la possibilità di avere delle scuole per i loro figli. I bambini infatti erano soliti percorrere la strada che porta a Gerico per andare a scuola, che ora è diventata troppo pericolosa a causa del numero crescente di insediamenti. I ragazzi più grandi frequentavano la scuola di gomme, una struttura per beduini costruita nel 2009 dall’ONG milanese “Vento di Terra” con oltre 2.000 copertoni. La presenza dei coloni lungo il tragitto terrorizza i bambini, così le famiglie hanno chiesto aiuto alle autorità palestinesi. Adesso per andare a lezione ci vogliono 40 minuti di autobus, rispetto ai cinque minuti che ci mettevano prima a piedi. Gli insediamenti sono sempre più spesso circondati da filo spinato e telecamere, diventando anche un luogo in cui sperimentare le ultime tecnologie per il riconoscimento facciale.

Nelle settimane di agosto, prima della ripresa delle lezioni, bambini di tutte le età si ritrovano per giocare, spesso includendo giochi d’acqua per far fronte alle alte temperature, che superano anche i 40 gradi. Ma prima di lanciare i gavettoni ai bambini piace farsi dipingere la faccia. Uno degli alunni ha chiesto: «A me disegni una bandiera palestinese? Perché io sono palestinese».

Le nuove generazioni di israeliani e palestinesi, cresciute in un clima di guerra, ci tengono a rimarcare le divisioni. Se le giovani ragazze israeliane indossano collane con la sagoma della Palestina che incrocia la Stella di David, tra le ragazze beduine va di moda quella che riproduce gli stessi confini, ma accompagnata da un fucile. Anche ai visitatori, dopo aver chiesto la provenienza, i bambini più piccoli non chiedono il nome, ma la preferenza politica: «Ami la Palestina? Ami Israele?». Su un sasso colorato, un bambino beduino, rifiutando questa logica, ha scritto in arabo “hurriyat as-salam” che significa “la libertà della pace”.

Immagine3.jpgMentre i bambini giocano, nelle colline tutt’intorno agli asili beduini si vedono continuamente passare betoniere, gru e bulldozer. Prima della guerra del 7 ottobre negli insediamenti israeliani lavoravano diversi palestinesi. Adesso non più. Gli uomini sono quindi spesso a casa senza lavoro, oppure sono costretti a lavorare nelle piantagioni realizzate dai coloni di fronte agli insediamenti. Ma sono soprattutto le donne a provvedere alla famiglia. Realizzano ricami, saponi e candele mentre i figli dormono. Alcune di loro vorrebbero istituire una cooperativa, ma non si sa se sarà possibile. Le famiglie beduine, sempre più circondate e oppresse da nuovi insediamenti, non sanno dove andranno quando ad un certo punto saranno costrette ad abbandonare le misere baracche dove vivono ora. Però sperano di riuscire a continuare a mantenersi anche quando se ne andranno.

Le mogli hanno chiesto di fare qualcosa affinché anche i loro mariti possano tornare a lavorare. Molti di loro sono a casa da quasi due anni perché dopo il 7 ottobre tutti i palestinesi che lavoravano a contatto con realtà israeliane sono stati licenziati. Alcuni di loro hanno seguito un corso di ebraico in modo da poter mantenere un impiego all’interno degli insediamenti, ma anche per tutelarsi dalle autorità israeliane, che spesso si presentano con documenti che le famiglie beduine non sono in grado di leggere, in modo da poter prendere il possesso della terra anche tramite sotterfugi legali. I tribunali spesso chiedono i certificati di proprietà della terra, ma i beduini, gli ultimi anche all’interno della società palestinese, non li hanno mai posseduti. Spesso dicono che la terra è stata donata agli uomini da Dio, e quindi non può essere di proprietà di nessuno.

 

Presenza protettiva con la musica

In modo simile a quanto accade alla Tenda delle Nazioni, in varie parti della Cisgiordania gruppi di attivisti israeliani, coordinati da associazioni come Rabbis for Human Rights o Jordan Valley Activists, si dedicano alla presenza protettiva. È il caso per esempio di Kai Jack, contrabbassista e insegnante di musica, che ha deciso di fare volontariato circa un anno e mezzo fa dopo aver ottenuto la cittadinanza israeliana. Cresciuto tra gli Stati Uniti e la Norvegia, si racconta con queste parole: «quando sono arrivato a Gerusalemme per studiare all’Accademia musicale sette anni fa non sapevo granché del conflitto, in realtà, ma avevo voglia di imparare. E come norvegese, e non ebreo, non musulmano, non cristiano, era facile semplicemente fare amicizia con tutti. E quindi anche ascoltare molte storie. Studiavi a Gerusalemme Ovest ma insegnavo musica ai bambini a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, e quindi ho subito avuto accesso a un sacco di narrazioni diverse. Ho cercato di approfittarne per imparare il più possibile e il mio attivismo è iniziato con la musica. Cercavo opportunità all’estero per i miei studenti palestinesi di Gerusalemme Est».

Le cose sono cambiate dopo aver ottenuto la cittadinanza israeliana. Kai non aveva mai conosciuto il proprio padre biologico, ma sapeva essere un ebreo che viveva a Tel Aviv. Nonostante l’ebraismo passi per la linea materna, in base alla legge del ritorno i figli degli ebrei possono comunque ottenere la cittadinanza israeliana. «E così mi sono detto: ora posso restare, posso buttarmi a fare presenza protettiva perché non possono espellermi. Posso usare questo privilegio per fare qualcosa di buono per gli altri».

La pratica non è uniforme, ma si adatta alle esigenze specifiche delle comunità. Masafer Yatta, per esempio, nel Sud della Cisgiordania, «è un insieme di villaggi che hanno delle specie di basi operative disponibili per i volontari. Una di queste è il seminterrato della casa di Basil Adra, uno dei co-registi di No Other Land». Gran parte del lavoro è quindi stazionare e saltare in macchina se succede qualcosa, se ci sono attacchi di vario tipo. «La notte, invece, gli attivisti si dividono per dormire nelle case delle diverse comunità più a rischio di attacchi dei coloni», continua Kai.

Nella Valle del Giordano, la situazione è diversa: «Le comunità sono molto più piccole. Non sono nemmeno villaggi. Si tratta di una o due famiglie in un punto e poi a cinque minuti di strada ci sono altre due o tre famiglie. Non ci sono impianti idraulici e l’unica elettricità viene da pannelli solari. E quasi tutte le comunità vivono di pastorizia. Per cui la nostra attività consiste nell’accompagnare i pastori dalle 6 del mattino. E poi restiamo con loro».

Quando arrivano i coloni, gli attivisti fanno quello che chiede la comunità, continua a spiegare Kai: «A Masafer Yatta, per esempio, chiamano spesso l’esercito, che però non viene per proteggere i palestinesi e cacciare i coloni, ma per proteggere i coloni se i palestinesi attaccano. Ma di solito la presenza dell’esercito abbassa il rischio che si verifichi violenza. Nella Valle del Giordano, invece, i soldati non vengono quasi mai. E se vengono, di solito arrestano un palestinese o un attivista. Anche se è tutto filmato e glielo mostri. Il nostro lavoro principale di fatto è filmare. Oppure a volte facciamo da intermediari perché i soldati non sempre parlano l’arabo e i palestinesi non sempre parlano l’ebraico. Oppure se un soldato insiste che lasciamo un’area, ma non ci stanno presentando il documento corretto che dovrebbero presentarci, allora possiamo chiamare un avvocato e metterli al contatto al telefono se è d’aiuto in un momento. E poi in casi più rari, se è un incontro con coloni che sono chiaramente già violenti o cercano di esserlo, allora è una scelta individuale di ogni singolo attivista, ma possiamo scegliere di metterci tra il colono e il palestinese. La maggior parte dei palestinesi sa di non dover rispondere alla violenza con la violenza perché sa che le conseguenze saranno terribili».

Anche con la cittadinanza israeliana, non fa paura fare questo tipo di attivismo? «A volte sì, anche se penso che la paura sia un’emozione più piccola rispetto alla frustrazione e alla rabbia che si prova. Ma alla fine della giornata le conseguenze per me personalmente sono abbastanza piccole. Sì, occasionalmente anche gli attivisti possono essere feriti fisicamente. Ma non importa cosa succede a noi, non è niente in confronto a quello che sta succedendo ai palestinesi».

In un anno e mezzo, Kai ha già ideato un progetto musicale: “Circa sei mesi fa ho iniziato a portare alcuni amici musicisti nella Valle del Giordano per suonare e cantare con le comunità. Ora stiamo lavorando all’idea di creare un’orchestra per i bambini e di andare a dare lezioni una o due volte a settimana. Grazie alle donazioni che abbiamo ricevuto abbiamo potuto comprare qualche strumento». Non sempre l’attività però è stata priva di sfide: «La primissima volta che siamo andati, abbiamo fatto visita a una famiglia con cui sono molto legato perché ho fatto presenza protettiva con loro molte volte e avevo chiesto se gli sarebbe piaciuto che venissimo a suonare musica. Avevo preparato un intero monologo in arabo dove dicevo “Nonostante i tempi estremamente difficili crediamo ancora che la musica sia importante e possa sostenerci”. E poi ho detto una frase su come la musica possa riportare i nostri sorrisi. E il padre della famiglia mi ha interrotto e ha detto: “Kai, non abbiamo alcun motivo di sorridere. Ogni singolo giorno è una lotta e vediamo amici e familiari morti sui nostri telefoni tutto il giorno ogni giorno. Non c’è motivo di sorridere. Non parlarci di sorridere”. È stato un momento davvero imbarazzante e scomodo. Abbiamo suonato due canzoni e il padre ha detto: “Grazie. È abbastanza”. Temevo che fosse un’attività divertente solo per noi perché siamo musicisti e mi chiedevo se fosse effettivamente utile in qualche modo per le comunità. Per fortuna ogni singola comunità per cui abbiamo suonato dopo quella prima esperienza è stata molto positiva. È un processo di apprendimento per noi, su come fare e come farlo in un modo che sia significativo».

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I tour al confine con la Striscia di Gaza

Fino al 7 ottobre 2023 la vita di Amit Musaei, guida turistica israeliana, era concentrata sull’organizzazione di tour per pellegrini cristiani, in particolare evangelici. Durante la pandemia di covid aveva trasformato l’esperienza in tour virtuali, insegnando ad altri colleghi come farli. Per l’autunno scorso era prenotato con due anni di anticipo. L’8 ottobre 2023 avrebbe dovuto ritirare gruppi di crocieristi al porto di Ashdod.

La sua vita è cambiata dopo essere scampato alla strage del festival Supernova. E poi è cambiata di nuovo quando si è aperto il fronte con l’Iran e un bombardamento missilistico ha travolto il suo quartiere a Holon: sei palazzi rasi al suolo, centinaia di famiglie sfollate, la scuola delle figlie distrutta.

La mattina del 7 ottobre Amit ha perso tre amici. Due di loro erano i suoi migliori amici d’infanzia. «Li vedevo ogni giorno», dice. Hanno figlie coetanee delle sue. All’alba stavano andando al Nova per vedere il sorgere del sole. L’attacco di Hamas li ha sorpresi tra i kibbutz Be’eri e Re’im: hanno provato a rifugiarsi in un bunker, sono stati uccisi lungo la strada. Con loro è morta anche Celine, amica della coppia. Nei giorni successivi Amit ha rilasciato interviste a emittenti internazionali, solo in inglese. Poi si è richiuso in se stesso. «Dopo un mese di interviste ne ho avuto abbastanza: sono sprofondato». È rimasto in casa per quattro settimane, è uscito solo per funerali. Fino a che tre amici sopravvissuti lo hanno convinto a rimettere piede fuori casa e tornare a vivere.

La psicologa poi gli suggerisce di raccontare la sua esperienza. Amit non scrive, ma ricorre a ciò che conosce: le mappe. Con Google ricostruisce gli spostamenti, tappa per tappa, e allestisce un tour su Zoom. Da quel lavoro è nata la sua personale ripartenza. Da dicembre 2023 sinagoghe, missioni ebraiche e gruppi di cristiani che sostengono il progetto sionista lo invitano a parlare ai volontari. Accompagna piccoli gruppi in giro, poi qualcuno gli chiede di scendere a sud. Accetta. Torna nei luoghi del trauma: «Mi sono ritrovato dove i miei amici sono stati uccisi mentre si nascondevano in un rifugio». Le richieste arrivano dal passaparola. «Non l’ho cercato. Ma ogni tour è terapeutico: condivido la mia storia e sto meglio. È anche il mio sostentamento, e un modo per restare attivo».

Oggi guida percorsi in inglese verso le colline di Sderot, da cui si vede Gaza City attraverso la barriera di divisione, e quella che viene chiamata l’“envelope” di Gaza. Sulla strada, a cinquanta minuti da Tel Aviv, Amit apre mappe, spiega il significato dei toponimi e la storia di quei posti: «Per due ore non parlo del 7 ottobre: spiego la geografia e i legami storici di questa terra». Il taglio è dichiarato: «Parlo dal mio trauma, dal punto di vista di un israeliano, ebreo, sionista. Non posso parlare per altri, posso esporre le mie difficoltà. I boati, le esplosioni, le intercettazioni: tutto mi faceva scattare. Poi ho capito che potevo reggerlo», continua. «Il problema è la mancanza di conoscenza. Io do contesto, invito a studiare anche la narrazione dell’altro».

«Nel mio mestiere collaboro ogni giorno con arabi: negli hotel, con gli autisti, li incontro nei siti cristiani in Galilea, a Betlemme. Si lavora insieme per i pellegrini». Alla domanda se la convivenza con i palestinesi sia possibile, risponde in maniera asciutta: «È possibile, ma dipende. Riconoscimento, diritti, fine dell’odio: queste sono le condizioni. Ci sono esempi di prosperità condivisa. Ci vuole la volontà di farlo però».

Il tour intorno a Gaza passa dai luoghi del massacro: Nova, Sderot, i crocevia a sud. Ma mostra anche le iniziative di solidarietà intraebraica che hanno preso vita dal basso fin dal giorno successivo alla strage, come la sinagoga Chabad di Sderot, che ha distribuito cibo, medicine, pannolini nelle 36 ore successive all’attacco. O gli “Shuva Brothers”: tre fratelli che si sono attivati per portare sostegno ai soldati israeliani di stanza nell’area. L’8 ottobre servivano caffè e pasti caldi a centinaia di soldati radunati in un incrocio della regione intorno a Gaza. Oggi servono oltre mille pasti al giorno.

Il cerchio umano che sostiene Amit si chiama Nova Foundation, nata il giorno successivo allo scoppio della guerra da chi organizzava il festival. Ha messo a disposizione assistenti sociali, collegamenti per la previdenza, spazi per restare tra pari, gruppi di supporto psicologico, attività per spezzare l’isolamento: yoga, danza, pallacanestro, uscite al mare. Amit continua a partecipare a incontri mensili tra sopravvissuti e famiglie in lutto.

«Senza speranza non sarei qui. Ho avuto desideri di morte. Oggi ogni tour è anche un esercizio di speranza». Il riferimento corre alla Hatikvà, l’inno nazionale israeliano, che significa proprio “speranza”. «Il nostro Stato è giovane. Abbiamo pagato molto per essere qui. Ma se non avessimo speranza, non chiederemmo nemmeno il ritorno degli ostaggi. Ogni giorno è il giorno giusto perché tornino».

 

Rompere il silenzio

Joel Carmel è cresciuto nella comunità ebraica di Londra. Il padre è un rabbino e Jojo, come lo chiamano gli amici, ha frequentato una grande scuola ebraica, andava regolarmente in sinagoga, si è unito ai movimenti giovanili ebraici. «Come ebreo della diaspora, il messaggio che ho sempre ricevuto era chiaro: difendere Israele», racconta. Qualsiasi critica a Israele veniva letta come intrinsecamente radicata nell’antisemitismo. «Io e i miei amici partecipavamo regolarmente a contro-proteste davanti all’ambasciata israeliana, sventolando grandi bandiere e proclamando: “Israele ha il diritto di difendersi”. Scrivevamo lettere di proteste anche alla BBC e al Guardian, convinti che difendere Israele fosse un atto personale».

Intorno ai 16-17 anni, per Jojo era chiaro che “non era abbastanza” difendere Israele “dalle retrovie”. Sente di dove fare “la cosa vera”: e cioè compiere l’aliyah (che in ebraico significa “ascendere”, salire spiritualmente, ma si usa per indicare i movimenti migratori verso Israele) e arruolarsi nell’esercito. Entra nelle Forze di difesa israeliane (IDF) a 20 anni e viene assegnato al COGAT, l’unità che si occupa del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori.

Il COGAT e il suo braccio operativo, l’amministrazione civile, sono la vera forza motrice dell’occupazione. L’amministrazione civile è, in sostanza, il governo di fatto della Cisgiordania. Osservando il diagramma dei suoi dipartimenti (che include agricoltura, archeologia, sanità, infrastrutture, acqua ed elettricità), si capisce che essa opera come un vero e proprio governo, con la fondamentale differenza che non è eletto: è un “regime militare”, commenta Joel, gestito da cittadini israeliani nominati dal ministero della Difesa.

Il primo incarico di Jojo è stato al confine con Gaza, al valico di Erez, dove coordinava l’ingresso e l’uscita dei diplomatici. La parte più “strana” di quell’esperienza era l’assoluta separazione con la popolazione della Striscia: Jojo non incontrò né vide mai nessuno di Gaza a causa del muro. L’Erez Crossing, che è stato uno dei primi avamposti violati il 7 ottobre 2023, è un luogo a cui Jojo pensa costantemente, ricordando che alcuni soldati con cui ha prestato servizio sono stati uccisi o rapiti.

Durante il suo lavoro con l’amministrazione civile, nonostante fosse convinto che «l’occupazione fosse un problema», una prospettiva condivisa da pochi in Israele, riteneva di poter essere “l’ufficiale buono”: pensava di essere una persona onesta e che avrebbe «provato ad aiutare» i palestinesi. Ben presto ha scoperto che era una missione impossibile: «Il sistema è molto grande e molto forte. E cambiare il sistema dall’interno è difficile perché sei solo un ingranaggio molto piccolo». Joel ha servito nel distretto di Jenin, dove rilasciava i permessi ai palestinesi per entrare in Israele.

Andava tutto bene, finché Jojo non si è unito, per curiosità, a una “missione di mappatura della polizia di frontiera” (chiamata Magav, una delle varie unità sotto la direzione dell’IDF). In jeep, armato di tutto punto, con gli altri soldati si è diretto verso un piccolo villaggio vicino a Jenin all’una di notte.

Arrivati alla prima casa, il comandante ha bussato alla porta, ordinando a una persona terrorizzata di svegliare e portare tutti i membri della famiglia al piano di sotto. È seguito un interrogatorio di base: nomi, numeri di identificazione, luoghi di lavoro, scuole frequentate dai bambini.

Jojo è rimasto in disparte, impotente, osservando la famiglia, inclusi bambini di sei e otto anni, completamente terrorizzati. «Ricordo di aver provato a sorridere ai bambini ma di aver ricevuto in cambio uno sguardo di paura, rabbia e odio».

È stato quello sguardo a provocare una serie di domande a cascata nella testa del soldato che fino a qualche anno prima protestava a Londra per il diritto di difesa di Israele: l’addestramento e l’educazione che aveva ricevuto gli avevano sempre insegnato che queste operazioni venivano fatte “per ragioni di sicurezza”, e cioè per proteggere amici e familiari a Tel Aviv o Gerusalemme. «Chi sto proteggendo svegliando questi bambini nel cuore della notte?», si è chiesto Jojo. Una domanda ha aperto le porte ad altri pensieri: «Forse non solo non sto proteggendo, forse sto creando anche un problema di sicurezza». Dopo l’operazione di mappatura, i bambini non sarebbero di certo usciti da quell'esperienza come “meravigliosi sionisti”, ammette Joel.

Le missioni di mappatura avvengono «ogni notte, in continuazione» a danni di famiglie considerate innocenti o, nel linguaggio dell’IDF, «non coinvolte», perché se si trattasse di sospettati si tratterebbe di una missione di arresto.

Il comandante, prima di partire per la missione, aveva svelato lo scopo delle operazioni notturne: «Entriamo nel cuore della notte per mostrare loro chi comanda. Sono atti di intimidazione per ricordare ai palestinesi che sono costantemente sorvegliati». L’idea per cui «sappiamo dove vivono, e non solo, sappiamo in quale letto dormono» è alla base dell’occupazione.

Alla fine del servizio obbligatorio Jojo ha lasciato l’esercito. È passato qualche anno e poi si è unito a Breaking the Silence, una nota organizzazione di ex-soldati che hanno servito a Gaza e in Cisgiordania. Dal 2004 sono state raccolte circa 1.500 testimonianze, per creare un quadro più ampio di cosa significhi la routine quotidiana dell’occupazione, le istruzioni impartite ai soldati e le interazioni con i palestinesi e i coloni. Dopo il 7 ottobre, diversi altri giovani soldati si sono rivolti a Breaking the Silence, raccontando le terribili esperienze vissute nella Striscia di Gaza e che, spesso, non hanno niente a che vedere con la sicurezza.

Jojo, che lavora come advocacy director dell’associazione, ha anche menzionato che, nonostante l’IDF abbia dichiarato nel 2021 di aver interrotto le missioni di mappatura grazie alla nuova tecnologia Blue Wolf (un’app che consente ai soldati di scansionare i volti dei Palestinesi per il riconoscimento facciale), queste missioni sono in realtà continuate anche con altri nomi.

Tra le sue varie attività, conduce alcuni tour di Breaking the Silence a Hebron, nel sud della Cisgiordania, città di importanza storica e religiosa sia per gli ebrei che per i musulmani (è considerata il luogo di sepoltura di Abramo, Isacco e Giacobbe, ma fu anche la prima capitale del regno di Davide), e ancora oggi focolaio di tensioni per la presenza di insediamenti di ebrei estremisti. Il tour comincia al Parco Kahane di Kiryat Arba, che prende il nome dal rabbino Meir Kahane, descritto in una lapide come “martire” e “grande studioso della Torah e un eroe nelle sue azioni”. Americano, assassinato nel 1990 a New York, Kahane, fondò negli anni ’60 la Lega per la difesa degli ebrei (Jewish Defense League, JDL) una “gang ebraica”, come l’ha definita Jojo, sorta dopo l’Olocausto sulla base di un’ideologia profondamente razzista, che prendeva di mira, tra gli altri, afroamericani e comunisti. Emigrato in Israele nel 1970, Kahane tradusse la sua ideologia in razzismo anti-palestinese. Nonostante una serie di fallimenti iniziali, Kahane ottenne un seggio alla Knesset nei primi anni ’80 (quando bastava un solo seggio per superare la soglia). La sua piattaforma era incentrata sulla segregazione totale tra ebrei e non ebrei e sulla trasformazione della Bibbia in Costituzione. All’epoca, l’establishment di destra lo isolò completamente: ogni volta che Kahane parlava, tutti i parlamentari, incluso il primo ministro, lasciavano l’aula. Fu persino approvata una legge contro l’incitamento all’odio razziale che gli impedì di candidarsi nuovamente.

Oggi, però, le cose sono cambiate. Uno dei principali discepoli di Kahane è un volto ben noto all’interno dell’attuale governo israeliano, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che controlla la polizia e il sistema carcerario. A differenza di Kahane, Ben-Gvir è stato accettato dall’establishment. Netanyahu stesso ne ha favorito l’ingresso alla Knesset per assicurarsi i suoi voti.

Prima della creazione dello Stato d’Israele, a Hebron la presenza ebraica si concluse in modo violento nel 1929, quando la popolazione araba, aizzata dalla voce che gli ebrei volessero marciare sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, aggredì gli ebrei locali. I morti furono decine, ma molti si salvarono trovando rifugio presso famiglie arabe. Le autorità britanniche costrinsero i sopravvissuti a trasferirsi a Gerusalemme, ponendo fine a centinaia di anni di presenza che risaliva ai tempi delle prime migrazioni di ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna nel 1492. Da allora, la città è forse uno dei posti che porta tutti i segni più profondi del conflitto israelo-palestinese e racconta la trasformazione che Israele ha subito a causa della diffusione delle idee religiose estremiste.

Immagine5.jpgL’occupazione seguita alla guerra dei Sei Giorni del 1967 aprì la strada al movimento dei coloni. Tra marzo e aprile 1968, un gruppo di 60 studenti di una yeshiva, guidati dal rabbino Moshe Levinger, chiese e ottenne il permesso dall’IDF di trascorrere la Pasqua a Hebron, alloggiando in un hotel. Allo scadere delle 48 ore, Levinger rifiutò di andarsene, dicendo che erano «venuti per insediarci nella città dei nostri padri». Levinger, a differenza dei coloni odierni che usano il termine più neutro di “residenti”, accettò l’identità di “coloni”. Il governo israeliano permise loro di restare, trasferendoli all’interno della base militare del governatore locale a Hebron.

L’insediamento di Kiryat Arba, dove fu trasferita la comunità di Levinger, venne fondato nel 1970. La Guerra dello Yom Kippur del 1973 interruppe l’euforia del 1967. La sorpresa dell’attacco (il 6 ottobre) indusse molti israeliani a riconsiderare l’invincibilità di Israele e a ritenere necessari “compromessi territoriali” per la sicurezza. Questo portò, sotto il governo Begin, al primo accordo di pace con l’Egitto e alla restituzione del Sinai occupato nel 1967. I coloni interpretarono questo come un segnale d’allarme: non volevano perdere il loro controllo sulla Cisgiordania e decisero di creare una realtà sul campo che fosse difficile da smantellare. Nel 1979, Miriam Levinger (moglie di Moshe) guidò un gruppo di donne e bambini di Kiryat Arba a occupare la clinica abbandonata di Beith Hadassah a Hebron. Ancora una volta, il governo permise loro di rimanere.

Nel 1980, in risposta a due attacchi terroristici contro il nuovo insediamento a Hebron (i primi attacchi contro civili israeliani nei territori occupati dal ’67), il governo israeliano decise di stabilire ufficialmente insediamenti nel cuore della città palestinese. Furono costruiti i primi quattro insediamenti (Abraham Avenue, Beth Ormanu, Beth Hadassah e Tel Rumeida), portando a un’immediata iniezione di soldati, dispiegati per garantire la sicurezza dei coloni e alterando anche le dinamiche urbane.

Negli anni ’90 l’Intifada e la spinta verso gli accordi di Oslo generò nuova preoccupazione tra i coloni, che si allarmarono al pensiero di dover lasciare le loro case. Nel febbraio 1994, un colono americano di nome Baruch Goldstein (anche oggi, negli insediamenti si sente prevalentemente parlare l’inglese con accento americano) seguace di Kahane e membro della squadra di sicurezza di Kiryat Arba (e quindi con accesso alle armi), entrò nella Grotta dei Patriarchi in un venerdì mattina durante il Ramadan. La moschea era gremita. Goldstein si barricò, attese che i fedeli si inchinassero e aprì il fuoco, massacrando 29 persone e ferendone oltre 120. La carneficina si concluse solo perché l’arma di Goldstein si inceppò alla quinta cartuccia (un tipo di inceppamento raro, dovuto al surriscaldamento), salvando altre vite e permettendo alle persone presenti di picchiarlo a morte. I palestinesi, nonostante fossero vittime dell’attentato, subirono un coprifuoco di due mesi. I coloni ne furono esentati.

Uno dei luoghi più controversi di Kiryat Arba è la tomba di Baruch Goldstein. La lapide lo descrive come martire, la cui memoria dovrebbe essere benedetta e il cui sangue vendicato. Per Jojo, che continua ancora oggi a essere una persona religiosa e credente, la citazione più offensiva è tratta dal Libro dei Salmi: «Aveva mani pulite e un cuore puro». La tomba è oggi un sito di pellegrinaggio. Si dice che Ben-Gvir e sua moglie, Ayala, abbiano avuto il loro primo appuntamento proprio sulla tomba di Goldstein.

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Issa Amro e le difficoltà dell’attivismo non violento a Hebron

Il tour di Breaking the Silence continua per le strade che attraversano Hebron e gli insediamenti, in cui vengono raccontate le sentenze e una serie di aneddoti che hanno fatto la storia della città. La visita termina a Tel Rumeida, a casa di Issa Amro, attivista palestinese residente a Hebron, che per lui è «il microcosmo dell’occupazione israeliana».

Al centro del suo racconto c’è la separazione giuridica e l’oppressione quotidiana: «Per legge, sono colpevole finché non è provata la mia innocenza». C’è una disparità di fondo: «Loro sono sotto la legge civile. Io, come palestinese, sono sotto la legge militare israeliana». E questo ha a che fare con i bisogni di base: «Adesso non abbiamo abbastanza acqua mentre i coloni hanno acqua 24 ore su 24, 7 giorni su 7».

 

Immagine7.jpgMa il problema più grande riguarda le relazioni sociali, per Issa, che, nato nel 1980, di formazione è un ingegnerie elettronico e ha fondato il movimento Youth Against Settlements: «Si vive nella paura. Ho paura di camminare in giro. Questa è occupazione. Ti senti sempre osservato». Amro non può avere visitatori che non vivano già all’interno dell’area segnata dal checkpoint. Le cose sono peggiorate dopo il 7 ottobre. Quel giorno, continua Issa, «ho trovato i miei vicini in uniforme militare. Poi mi hanno rapito, mi hanno aggredito sessualmente e mi hanno torturato per 12 ore». Nonostante la sua denuncia sia stata riportata da media internazionali (CNN, BBC, Guardian), «non c’è stata nessuna vera presa di responsabilità».

Per cui anche sul piano politico gli slogan e le soluzioni astratte non servono a niente se non sono accompagnate da un’uguaglianza sostanziale: «Solo la pace farà la pace. Le guerre non faranno la pace. I muri non faranno la pace». Dal fiume al mare, oggi c’è solo «uno Stato di apartheid». Ma la colpa non è solo in Israele, per Amro: «Il nostro problema non sono gli oppressori israeliani. Il nostro problema sono gli europei che parlano continuamente di diritti umani e parlano di democrazia».

E anche il nodo religioso non è giustificabile: «Dio è il Dio di tutti. Non vogliamo avere il monopolio di Abramo. Vogliamo avere uguaglianza come figli di Abramo». Perché restare dopo tutta questa sofferenza e con le quotidiane molestie dei coloni? «È difficile? È impossibile perfino restare… Non vivo una vita normale. Resto perché credo in quello che sto facendo. Ho scelto di essere un difensore dei diritti umani. Ho scelto di essere un palestinese che lavora per porre fine all’occupazione e all’apartheid israeliano. Voglio creare un futuro migliore per tutti», dice Issa. «Siate creativi e non sentitevi mai che ciò che fate è inutile perché fate il vostro dovere. Voi che siete venuti qui avete scelto di stare dalla parte giusta della storia».