Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:10:37

Il peggioramento della situazione politica ed economica in Libano sembra non avere fine. In gennaio la lira libanese si è ulteriormente svalutata sul mercato nero, e lo ha fatto a un ritmo davvero impressionante: mercoledì un dollaro veniva scambiato con 56.000 lire, contro i 42.000 di inizio anno, e diversi media parlavano di un nuovo record negativo. Purtroppo, però, il record è stato infranto già il giorno successivo, quando il valore della valuta libanese è sceso fino a 62.000, mentre alcuni esperti citati da L’Orient-Le Jour ritengono che entro la fine dell’anno la quotazione del dollaro potrebbe raddoppiare. Secondo Marwan Barakat, capo delle ricerche della Banca Audi, l’ultimo round di deprezzamento è influenzato da «una mancanza di fiducia, nel mezzo del vuoto presidenziale, in assenza di un governo nel pieno esercizio delle sue funzioni, e mentre le riforme sono a un punto morto, ciò che mette in pericolo il potenziale accordo con il Fondo Monetario Internazionale» che il Libano sta negoziando.

 

Un fatto avvenuto questa settimana permette di intuire quanto sia grave la situazione anche per la tenuta degli apparati statali, o di ciò che ne resta. È notizia di questi giorni, infatti, che per la prima volta e  come misura una tantum, gli Stati Uniti hanno reindirizzato all’esercito libanese una parte (circa 72 milioni di dollari) degli aiuti destinati al Paese, così da permettere alle forze armate di pagare i salari del personale. Anzi, per essere precisi, i soldi americani non servono solo a pagare gli stipendi, bensì a cercare di aumentarli: il rischio (ormai una realtà) per il Libano è che la crisi economica che distrugge il potere d’acquisto dei nuclei famigliari spinga anche molti dipendenti pubblici a optare per la fuga dal Paese. Prima dello scoppio della crisi un soldato libanese guadagnava l’equivalente di circa 800 dollari al mese, mentre ora la cifra è scesa intorno ai 100 dollari. La situazione è talmente grave che dal 2020 l’esercito ha tolto la carne dalla dieta delle truppe e ha invece iniziato ad offrire giri in elicottero a pagamento a privati cittadini o a giornalisti.  Ora, grazie al contributo americano (che verrà erogato da UNDP), i soldati dovrebbero ricevere 100 dollari aggiuntivi per i prossimi sei mesi. Oltre alle motivazioni economiche è chiaro che Washington è consapevole di come lo sgretolamento dell’esercito e della polizia lascerebbe ancora più spazio al partito-milizia sciita Hezbollah (il quale, tra l’altro, è accusato di utilizzare una ONG ambientalista per coprire le sue attività militari nel sud del Libano). Intanto, il Libano è anche temporaneamente privato del diritto di voto all’Assemblea Generale dell’Onu dopo che Beirut non ha pagato i contributi minimi richiesti dall’organizzazione internazionale. Secondo quanto riportato dalla CNN, però, le autorità libanesi provvederanno molto rapidamente a sanare la situazione.

 

Anche per protestare contro la crisi economica e l’ultima ondata di svalutazione molti libanesi sono scesi in piazza, bloccando alcune zone di Beirut e il principale accesso alla città meridionale di Tiro. Ma non è soltanto per questo che i libanesi protestano. Ha infatti dell’incredibile ciò che sta avvenendo intorno all’inchiesta sull’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. Le indagini, guidate da Tarek Bitar (qui un suo ritratto a cura di L’Orient-Le Jour) per identificare i colpevoli della più grande esplosione non nucleare della storia, sono riprese lunedì dopo essere state bloccate per 13 mesi. Bitar, riporta Reuters, sta indagando su una serie di importanti esponenti del mondo della politica, della giustizia e della sicurezza, tra cui funzionari di alto livello dell’intelligence come i generali Abbas Ibrahim e Tony Saliba. Per il sistema politico libanese Bitar si è spinto troppo in là, dato che il giorno successivo alla riapertura dei fascicoli, il procuratore generale libanese Ghassan Oueidat ha sfiduciato Bitar, intimandogli di fermare il procedimento giudiziario. Non solo: Oueidat ha anche deciso la scarcerazione di tutti i sospettati incarcerati fino a questo momento, alcuni dei quali si sono già imbarcati su dei voli per l’America. Secondo Aya Majzub, vicedirettore dell’area Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty, le autorità giudiziarie hanno «rapidamente scartato l’analisi legale di Bitar, senza nemmeno confrontarsi con essa, dimostrando chiaramente che non sono interessati alla verità e alla giustizia». Tra coloro che si oppongono fortemente alle azioni di Bitar non manca, naturalmente, Hezbollah e la sua rete di mezzi di comunicazione.

 

Erdoğan sceglie su quale terreno giocarsi la campagna elettorale

 

La Turchia ha rinviato a data da destinarsi l’incontro trilaterale che avrebbe dovuto tenersi a Bruxelles in febbraio per discutere dell’adesione di Finlandia e Svezia alla NATO. Dopo l’accordo raggiunto a Madrid l’anno scorso, solo i parlamenti di Turchia e Ungheria devono ancora formalizzare il via libera a Oslo e Stoccolma. Tuttavia, come ha ricordato Reuters, secondo Ankara la Svezia non sta rispettando gli impegni presi riguardo ai rapporti che il Paese scandinavo intrattiene con i gruppi curdi. Inoltre, appena prima del rinvio dell’incontro il presidente turco Erdoğan aveva avvertito che non sarebbe stato possibile attendersi il sostegno della Turchia all’ingresso nella NATO di «coloro che permettono quel tipo di blasfemia di fronte alla nostra ambasciata. Se non dimostrate rispetto per le nostre credenze religiose, non avrete alcun supporto». Il riferimento è al rogo del Corano avvenuto a Stoccolma per mano di Rasmus Paludan, un politico (tra l’altro: danese) di estrema destra, dopo che la polizia svedese aveva autorizzato lo svolgimento della manifestazione. Secondo il presidente turco, ciò che è avvenuto è un attacco a tutti gli 85 milioni di cittadini turchi.

 

La posizione della Turchia non si concilia facilmente con quella svedese: come ha ricordato al-Jazeera, infatti, i leader del Paese scandinavo hanno condannato l’accaduto e ribadito la loro solidarietà con i musulmani che si sono sentiti offesi. Al tempo stesso, però, hanno difeso e rivendicato la concezione ampia di libertà di parola che caratterizza l’Europa e la Svezia. Giovedì sono inoltre emerse nuove informazioni secondo le quali sarebbe in realtà un giornalista di Russia Today (RT) ad aver incoraggiato Paludan a compiere questa azione allo scopo di rallentare il processo di allargamento della NATO.

 

Inoltre, mentre la Finlandia ha rimosso l’embargo alla vendita di armamenti alla Turchia, con la Svezia le cose sono complicate dal già citato rapporto tra Stoccolma e i curdi. Molti politici svedesi, principalmente di sinistra ma non solo, hanno preso parte a conferenze nelle quali erano presenti tra gli ospiti anche degli esponenti del Partito curdo dei lavoratori (PKK), che Ankara (e non solo) considera un gruppo terroristico. Tuttavia, secondo Halil Karaveli (Foreign Policy) «il fatto che Svezia e Finlandia siano le prime nazioni occidentali a riconoscere che i gruppi curdi […] sono legati al PKK e pongono una minaccia alla sicurezza della Turchia rappresenta una vittoria diplomatica per Ankara». In fondo però, ha scritto Karaveli, il vero tema «non è cosa dica o faccia la Svezia, ma cosa facciano o non facciano gli Stati Uniti sul terreno» in Siria, dove «ciò che rappresenta un asset di sicurezza nazionale per Washington [i curdi, NdR] è qualcosa che la Turchia considera una minaccia esistenziale». Sono perciò le azioni statunitensi a influenzare pesantemente gli interessi di sicurezza nazionale turca e dunque, ha concluso Karaveli, a decidere nel bene o nel male dell’allargamento della Nato a nord.

 

In questo contesto ci si avvicina alle elezioni previste in primavera, e non è da escludere che l’innalzamento delle tensioni con la Svezia su un tema sensibile come il rispetto dell’Islam serva al presidente turco in carica proprio a questo proposito. Tuttavia, come riporta Ben Hubbard da Istanbul, Erdoğan non si limita certo a questo. Il leader dell’AKP ha dato il via a una serie di misure volte a mitigare gli effetti dell’inflazione (in parte generata proprio dalle sue scelte di politica economica): a partire dal mese di dicembre, il governo ha aumentato del 55% il salario minimo nazionale e del 30% gli stipendi dei funzionari pubblici, ampliato programma per finanziare i commercianti e i piccoli imprenditori, e facilitato l’accesso alle pensioni. Secondo Ahmet Kasim Han, professore di relazioni internazionali all’Università Beykoz di Istanbul, «Erdoğan sta cercando di combattere questa battaglia [elettorale] su un terreno di sua scelta, nello scenario che lui determina, con le armi che desidera e possibilmente con l’avversario che preferisce». Alla luce di queste osservazioni e degli sviluppi degli ultimi anni, segnati dalla repressione del dissenso e dalla pesante limitazione della libertà di stampa, l’Economist ha notato che «il comportamento di Erdoğan mentre le elezioni si avvicinano può spingere quella che oggi è una democrazia profondamente imperfetta […], verso una completa dittatura». Anche in merito alle politiche economiche, infatti, i critici del presidente lo accusano di avere usato i suoi mandati soltanto per concentrare più potere possibile nelle sue mani, e di utilizzarlo ora non a beneficio dei cittadini ma per influenzare l’esito delle elezioni ancor prima che le urne vengano aperte. Lo stesso tipo di discorso viene applicato da Bloomberg al caso dell’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO: nel bloccare l’adesione dei Paesi scandinavi all’Alleanza atlantica Erdoğan sta mettendo il suo interesse politico di breve termine al di sopra della sicurezza dell’Occidente.

 

Altri morti in Cisgiordania

 

Continuano le tensioni tra israeliani e palestinesi. Nel corso di un’operazione delle forze israeliane contro l’organizzazione “Jihad islamica” nel campo profughi di Jenin, sono morti 9 palestinesi, tra cui una donna 61enne. La decima persona è stata uccisa invece ad al-Ram proprio nel corso di manifestazioni contro il raid a Jenin, che secondo il resoconto della BBC ha causato un violento scontro a fuoco durato oltre tre ore. Dopo il raid, si è verificata l’ormai nota spirale: da Gaza sono stati lanciati dei razzi – tutti intercettati – verso Israele, che ha risposto con un raid sulla Striscia. Secondo al-Jazeera il lancio è stato rivendicato dalla Jihad islamica, mentre fonti della sicurezza israeliana fanno sapere di essere pronte a qualsiasi tipo di scenario. Come ricorda al-Monitor questa nuova ondata di violenza complica ulteriormente il viaggio del Segretario di Stato Antony Blinken nella regione, previsto per la settimana prossima. Un’altra iniziativa diplomatica è quella portata avanti da Re Abdallah di Giordania, il quale ha incontrato Benjamin Netanyahu in una visita a sorpresa. Durante l’incontro con il premier israeliano, il Re hascemita ha chiesto alla controparte di «rispettare lo status quo storico e legale di al-Aqsa» e di porre fine alle violenze per rilanciare il negoziato di pace con i palestinesi. Inoltre, poco dopo aver incontrato Mohammad bin Zayed, il Re giordano ha incontrato anche l’emiro del Qatar Tamim al-Thani.

 

Le relazioni di Israele non sono complicate soltanto con i Paesi vicini. Neanche quelle con gli Stati Uniti a guida democratica sono semplici e di certo non saranno facilitate dalla notizia riportata da Axios in questi giorni. Washington ha infatti chiesto agli israeliani di trasferire in Ucraina i vecchi (per gli standard israeliani) sistemi di difesa missilistica Hawk, non più in uso ma presenti nei magazzini dello Stato ebraico. Finora però Netanyahu ha rifiutato, per timore che la fornitura interferisca nei rapporti con la Russia e possa portare a maggiori difficoltà israeliane nelle incursioni in Siria, dove Mosca mantiene grande influenza ma al tempo stesso non ostacola l’aviazione israeliana.

 

L’Iran ha abbastanza materiale per la bomba atomica

 

Rafael Mariano Grossi, capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ha affermato che l’Iran ha accumulato una quantità sufficiente di uranio arricchito (circa 70 chilogrammi) per costruire «diverse» armi nucleari, se decidesse di farlo. Nonostante questo, come si legge sul Financial Times, Stati Uniti ed Europa mantengono ancora accesa una piccola (piccolissima) speranza di rianimare l’accordo sul nucleare del 2015. Come affermato da Grossi, anche se nessuno ha dichiarato la fine del JCPOA, bisogna riconoscere che nemmeno uno degli obblighi previsti è rispettato e «ogni limite che esisteva è stato violato diverse volte».

 

Pakistan: 220 milioni di persone senza elettricità

 

La mancanza di riserve di valuta straniera continua a colpire l’economia pakistana. Le navi container affollano i porti senza che sia possibile scaricare le merci, perché gli importatori non riescono a procurarsi i dollari con cui pagarle. Le cose non vanno meglio dal punto di vista energetico, anzi: lunedì si è verificato un blackout generale in tutto il Paese, che ha lasciato 220 milioni di persone senza elettricità. Inoltre, seguendo le indicazioni del Fondo Monetario, le autorità di Islamabad hanno iniziato a lasciar fluttuare il valore della rupia, che in breve tempo ha perso il 10 percento. In questo contesto, dopo aver già fornito prestiti a Islamabad per un valore di 3 miliardi di dollari, Mohammad bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti, si è recato in visita in Pakistan, dove ha incontrato il primo ministro Shehbaz Sharif.

 

In breve

 

A causa dell’elevata inflazione, ora gli egiziani potranno accedere a dei prestiti anche per l’acquisto di libri (BBC).

La Francia ha richiamato per consultazioni il suo ambasciatore in Burkina Faso (France 24), mentre le relazioni tra Parigi e Ouagadougou continuano a deteriorarsi in seguito all’arrivo al potere di Ibrahim Traoré (Jeune Afrique).

 

Dopo un’indagine durata due anni l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche (OPCW) ha stabilito che almeno un elicottero dell’esercito siriano è responsabile per l’uso di armi chimiche a Douma nel 2018 (Reuters).

 

 

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