La propaganda politica che ha portato il presidente Erdogan e l’Akp a una nuova vittoria. I poteri del “Sultano” sono sempre più ampi

Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 10:34:33

Si sono abbassati i riflettori sulla campagna elettorale che come una giostra politica ha ravvivato le città di tutta la Turchia. Colori, musica, slogan sono stati il carosello a cielo aperto degli ultimi due mesi in cui la propaganda dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi) si è imposta nello spazio pubblico nazionale, aprendo la via all’ennesima vittoria elettorale. Dalla sua fondazione nel 2002, per la prima volta il Partito Giustizia e Sviluppo si è presentato al pubblico con tre loghi distinti, ma estremamente significativi. Accanto al tradizionale simbolo del partito compare quello di Erdogan presidente e il nuovo vakıt Türkiye vaktı (è il tempo della Turchia) a corollario di quella sintesi isamico-nazionale che, seppur presente sin dalla genesi del partito, è emersa con forza dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016, con l’esaltazione della grandezza della nazione turca e con l’Islam e i valori tradizionali a fungere da collante sociale e fattore di community building.

 

La propaganda

Proprio come la notte del tentato golpe, quando la volontà dei cittadini ha prevalso sul tentativo sovversivo dei golpisti, i concetti di irade (volontá), erdem (virtù) e cesaret (coraggio) sono stati i cardini della retorica elettorale di Recep Tayyip Erdogan. Nel suo progetto politico il presidente ha infatti messo l’accento sulla forza del leader, qualità necessaria per un güçlü meclis (parlamento forte), güçlü hukumet (sistema politico forte), güçlü Türkiye (una Turchia forte), in cui il benessere delle persone viene prima di tutto (önce insan).

 

Riconosciuto come un insostituibile leader di partito, oggi Erdogan è apprezzato per essere il Reis, ossia il capo dal potere superiore e sovrano, mentre i settori più conservatori del suo elettorato lo acclamano addirittura come Rabbim (mio Signore). D’altronde, in 16 anni di potere incontrastato Erdogan è stato riconosciuto come coraggioso sostenitore degli oppressi e strenuo difensore dei valori di fratellanza musulmana: non a caso il saluto della Rabia – gesto della mano a quattro dita che inizialmente esprimeva solidarietà a Mohammed Morsi dopo il colpo di Stato egiziano del 2013 – è divenuto il contrassegno del suo programma politico, assumendo più recentemente il significato di: «una patria, uno Stato, una bandiera, una nazione». Certamente il richiamo ai valori islamico-conservatori della Turchia non è nuovo nella tradizione politica dell’AKP, che è fondata sulla costruzione di una nuova sintesi ideologica volta a riconciliare l’eredità dei movimenti islamici del passato con i parametri dello Stato secolare turco. Nel progetto di tutela di un’identità culturale di stampo conservatore associata al liberalismo economico è infatti centrale il discorso islamico basato sull’idea di giustizia e progresso, entrambi temi presenti e combinati nel “brand-AKP”.

 

L’attenzione a grandi progetti infrastrutturali – dalla costruzione del Kanal Istanbul alla messa in opera della terza centrale nucleare – e alle strutture di assistenza sociale, oltre che alla creazione di aree verdi e al rilancio tecnologico, riflette l’interpretazione propria dell’AKP della «politica come servizio delle persone», in cui la comunità diviene il principale agente di controllo sociale e l’Islam un segno di ordine morale. Forte dei successi ottenuti nel passato e del miglioramento degli standard di vita apportati dalle riforme strutturali degli ultimi sedici anni, lo slogan yaparsa yine AKP yapar (se s’ha da fare [qualcosa], lo farà di nuovo l’Akp) traccia una linea divisoria rispetto ai partiti all’opposizione, percepiti come inefficaci nel soddisfare le richieste sociali e garantire fertilità (bereket) e abbondanza (bolluk).

 

Islam pilastro fondamentale

Con l’hastag #DurmakYokYolaDevam (Non fermarti vai avanti), l’AKP non solo ha sfidato apertamente il blocco dell’Alleanza Nazionale che – composto da diversi partiti e tradizioni politiche si è coalizzata dietro lo slogan #Tamam (va bene, basta così) con l’unico intento di contrastare il dominio assoluto di Erdogan –, ma si è posta l’obiettivo di accrescere ulteriormente il potere della Turchia in ogni sfera della vita politico-sociale. Questa idea di benessere prospettata dalle nuove congiunture domestiche e dal crescente ruolo giocato a livello internazionale si basa sulla convinzione che l’Islam sia la condizione sine qua non di una società che si regge su solidi principi e in cui il richiamo alla storia ottomana diviene un imprescindibile elemento di gloria. Durante i comizi elettorali tutte le piazze sono state salutate al grido di Selam (ciao), mentre i continui riferimenti all’importanza della fratellanza (kardeşlik) nel progetto della Grande Turchia hanno creato una forte complicità con il pubblico.

 

Attingendo alla profonda insicurezza e alla legittima preoccupazione di molti turchi di fronte ai profondi cambiamenti socio-economici e alle minacce alla sicurezza interna ed esterna, il presidente ha inoltre attinto al concetto di birlik (unità), giocando in modo estremamente significativo sulla psicologia sociale fondata sul sospetto. Con continui richiami alle operazioni militari oltre confine contro i nemici della Turchia, Erdogan si è poi fregiato del titolo di paşa che ben sottolinea il grande impatto della tradizione imperiale ottomana nell’eleborazione delle sue politiche. Il compromesso, l’orgoglio nazionale e i valori religiosi sono stati il leit motiv dei comizi politici: per l’AKP Allah yeter, Millet yeter (Allah basta, la Nazione basta). Da ciò consegue che ogni sviluppo, a partire dall’esito elettorale, dipenderebbe dalla decisione delle persone e dal permesso di Dio (Allah kabul etmese).

 

Alla stessa logica – utile anche ad attrarre il sostegno dei turchi residenti in Europa – è ascrivibile l’invito a condurre una «crociata della mezzaluna» contro la decisione austriaca (e di chiunque ne seguirà l’esempio) di chiudere sette moschee ed espellere imam finanziati dall’estero. Tuttavia, recita la retorica dell’AKP, se «la Turchia ha bisogno di un leader forte», l’Occidente ne desidererebbe la caduta. Per questo il 24 giugno i cittadini turchi sono stati esortati «a impartire un’altra lezione all’Europa e a tutti coloro che vorrebbero vedere Erdogan perdere». «Se Dio vuole, gli darete un’altra lezione». Con quasi il 90% di affluenza alle urne, quella del 24 giugno 2018 rimarrà impressa come la vittoria ottenuta «con l’aiuto del Signore», che sancisce non solo l’inizio di una nuova era politica, ma probabilmente anche la strutturazione del «Tayyipismo» come nuova ideologia di Stato.

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