Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:18

La Turchia continua a giocare la sua partita geopolitica su più fronti, ma deve scontrarsi con una squadra molto compatta. È infatti appena nato il Forum per il gas nel Mediterraneo orientale (East Mediterranean Gas Forum – EMGF) che vede impegnati in un unico fronte Egitto, Grecia, Cipro, Italia, Israele e Giordania, mentre la Francia ha per ora chiesto di poter prendere parte alla nuova organizzazione intergovernativa. Le continue tensioni riguardano la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale; più precisamente la disputa riguarda la divisione e la mappatura delle reciproche aree marittime e il fatto che la Turchia abbia inviato, e continui a inviare, missioni esplorative in acque di Grecia e Cipro, entrambi membri dell’Unione europea.

 

Mentre la Grecia e la Turchia hanno ripreso i negoziati dopo la mediazione della cancelliera tedesca Angela Merkel e dell’Unione europea, secondo Foreign Policy è l’Italia l’ago della bilancia in questa vicenda. Ma a tenere per ora bloccata l’azione italiana è anche l’intricata matassa di alleanze nel Mediterraneo: la Turchia in quanto membro della NATO è alleata di Italia, Francia e Stati Uniti; eppure in Libia la Francia sostiene l’LNA, mentre la Turchia, insieme all’Italia e altri attori, difende il GNA e controlla di fatto larga parte del Paese. Inoltre, l’Eni nel Mediterraneo orientale lavora con Cipro e l’Egitto a scapito di Ankara. Sebbene gli analisti concordino sul fatto che dall’UE non verranno imposte sanzioni (serve l’unanimità dei 27 membri, e bisogna ricordare che alcuni Paesi europei hanno siglato un accordo con Ankara che in parte blocca l’arrivo di profughi siriani in Europa), l’aggressività turca spinge l’Italia ad avvicinarsi alla Francia e abbracciare il progetto (di cui non si conoscono i dettagli) di Pax Mediterranea proposto da Macron, costringendo l’Europa e tenere una postura sempre più rigida nei confronti di Erdogan, conclude Foreign Policy.

 

Ma Ankara è attiva anche su altri fronti, come dicevamo in apertura. In particolare quello africano, oltre ovviamente quello mediorientale, dove infastidisce sempre il rivale francese. A inizio mese Erdogan si è recato in Mali, Guinea-Bissau e Senegal, racconta Middle East Eye, mentre a luglio il ministro degli esteri turco aveva siglato accordi di partenariato con la Nigeria, consolidando la rete di relazioni turche in Africa.    

 

In Medio Oriente invece la Turchia ha annunciato che nei prossimi giorni comincerà la costruzione di una ferrovia che collegherà il Paese a Mosul, in Iraq. Come spiega Daniele Santoro, questo e altri progetti infrastrutturali nell’area euroasiatica «competono per offrirsi a Pechino come piattaforma, snodo o terminale delle nuove vie della seta, in uno scontro regionale la cui linea di faglia ricalca le divisioni emerse nel conflitto libico e più in generale nelle diatribe mediterranee». In opposizione invece  alla “nuova” alleanza tra Israele e Paesi del Golfo, Erdogan ha cercato di compattare il fronte palestinese, scrive Middle East Eye, da sempre diviso in fazioni rivali

 

Il rush finale di Trump prima delle elezioni

 

L’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Kell Craft ha dichiarato che un altro Paese arabo presto siglerà la normalizzazione dei rapporti con Israele. A meno di due mesi dalle elezioni, l’amministrazione Trump cerca di segnare un ulteriore successo facendo pressioni sul governo in Sudan, che, però, è ancora un governo di transizione – e infatti si chiama ancora Transitional Military Council. Secondo quanto scrive Axios, il Sudan avrebbe chiesto in cambio ai governi americano ed emiratino tre miliardi di dollari in aiuti umanitari per far fronte alla crisi economica e alle alluvioni che nelle scorse settimane hanno devastato il Paese, e un ulteriore impegno a versare aiuti economici per tre anni. Inoltre, il Consiglio di transizione ha chiesto alla Casa Bianca di rimuovere il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo internazionale.

 

Sebbene Trump abbia affermato di non essere «mai stato più ottimista» riguardo al Medio Oriente, Payton Knopf e Jeffrey Feltman (Brookings) sottolineano che l’ingresso del Sudan nel club degli alleati di Israele potrebbe minare il processo di transizione in atto nel Paese. Subito dopo la caduta del regime di Bashir, diversi Paesi del Golfo (come sempre l’Arabia Saudita e gli EAU da una parte, il Qatar e la Turchia dall’altra) hanno cercato di influenzare il processo di transizione in Sudan. Ma la Turchia e il Qatar non hanno avuto particolare successo, al contrario di Riad e Abu Dhabi, che, poco interessate al processo democratico del Sudan, hanno finanziato la giunta militare per assicurarsi un alleato nella regione.

 

Tuttavia nell’ultimo anno la situazione economica e umanitaria è peggiorata, la popolazione si sente sempre meno rappresentata dal Consiglio che regge il potere e, leggiamo sempre su Brookings, le pressioni americane su Khartoum (dove il segretario di Stato Mike Pompeo dovrebbe recarsi venerdì 25 settembre) rischiano di far fallire il processo di transizione e di conseguenza creare una nuova Libia: «Questa transizione non può avere successo se il paese si trova invischiato in rivalità regionali. La Libia dovrebbe servire da monito in questo senso. Dato che la popolazione del Sudan è quasi sei volte superiore a quella della Libia, il crollo dello Stato sarebbe ancora più catastrofico - non solo per i suoi cittadini, ma anche per gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner in Europa e in Medio Oriente. La prima priorità di Washington dovrebbe essere il successo della transizione in Sudan e la creazione di un governo unificato con legittimità popolare che sia in grado di prendere il tipo di decisione storica che un accordo di pace israelo-saudanese sarebbe». In parallelo ai viaggi di Pompeo, il capo dell’Africom, Stephen Townsend, mercoledì 23 settembre è volato in Algeria, per gestire altri teatri di tensione in Africa, in particolare il Mali e la Libia, scrive Le Monde.

 

In un paragrafo

 

Le discussioni sui certificati di verginità in Francia

 

Dopo averlo annunciato lo scorso ottobre, l’Eliseo ha finalmente fornito dettagli sul progetto di legge per combattere il “separatismo”, termine “macroniano” che indicherebbe la tendenza di alcune minoranze etniche o religiose a slegarsi dalla società francese. L’obiettivo dichiarato del governo è minare «l’islamismo radicale in tutte le sue forme»: a tale scopo, il progetto prevederebbe la penalizzazione del personale medico che rilascia certificati di verginità. Ma l’équipe di Macron sta forse sbagliando bersaglio penalizzando i medici? Secondo diversi esperti, invece che difendere i diritti delle donne questo provvedimento rischia di esporle ancora di più al pericolo, dal momento che non andrebbe comunque a sradicare una pratica consolidata all’interno di alcune comunità musulmane.

 

La repressione degli uiguri e non solo

 

I progetti cinesi di “rieducazione” delle minoranze etniche non si stanno limitando alla regione uigura dello Xinjiang. Un’inchiesta di Reuters e un report dell’esperto Adrian Zenz hanno rivelato questa settimana la presenza di campi di detenzione anche in Tibet, un’altra regione che ha cercato l’indipendenza dal governo cinese. Sulla repressione degli uiguri e sulla distruzione del loro patrimonio culturale islamico, è stato creato lo Xinjiang Data Project, che, con delle grafiche accurate, mappa anche la diffusione nella regione dei campi di “rieducazione” e spiega le politiche di sorveglianza messe in atto da Pechino.

 

In una frase

 

Tra i diversi ostacoli che rallentano l’accordo politico intra-afghano c’è la questione dell’industria mineraria, da decenni in mano ai talebani (Foreign Policy).

 

Mentre l’Iran stringe la mano al Pakistan e i rapporti tra New Delhi e Teheran si indeboliscono, per l’India la normalizzazione con Israele e con i suoi “nuovi amici” del Golfo diventa sempre più attraente (Haaretz).

 

Martedì 22 settembre una nuova esplosione ad Ain Qana, nel sud del Libano, ha distrutto un deposito d’armi di Hezbollah (BBC).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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