Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:01:18

Lo scorso week end l’attenzione di tutto il mondo è stata rivolta alla marcia verso Mosca, ufficialmente contro i vertici militari russi, messa in atto da Yevgeny Prigozhin, il leader della milizia paramilitare Wagner. Con i suoi mercenari Prigozhin è avanzato significativamente, prima di fermarsi a circa 200 chilometri dalla capitale grazie anche alla mediazione del leader bielorusso Lukashenko. È proprio in Bielorussia che, per ora, dovrebbe trovarsi Prigozhin. Al di là delle ripercussioni sulla stabilità interna della Russia e sull’evoluzione della guerra in Ucraina, uno degli interrogativi che questa ribellione ha sollevato riguarda l’influenza che la Wagner ha assunto in varie regioni del mondo: come si è sviluppata? Quale futuro si prefigura per gli impegni all’estero della milizia russa, che è presente in diversi Paesi arabi e africani?

 

Nella Repubblica Centrafricana, per esempio, i mercenari della Wagner hanno stretto una salda alleanza con il presidente Touadera. Ma mentre contribuiscono a garantire la stabilità del governo centrale, si sono anche resi responsabili di gravi crimini: massacri, esecuzioni, stupri, torture e sequestri, ha scritto l’inviato della BBC Jack Losh. Secondo Elis Gjevori (Middle East Eye) i mercenari della Wagner sono stati così utili per la causa di Mosca in Ucraina perché si erano prima fatti le ossa in altri conflitti: a fianco delle forze ufficiali russe in Siria, autonomamente in Libia, Sudan, Mali e, appunto, Repubblica Centroafricana. Non mancano però i rischi di un effetto boomerang: le violenze e la brutalità descritte tra gli altri da Losh colpiscono soprattutto persone di fede musulmana e, come ha spiegato Raphael Parens su War on the Rocks, questo potrebbe favorire la ripresa del fenomeno jihadista lungo il confine meridionale della Russia. Ciò non avrebbe ripercussioni solamente per Mosca, che diverrebbe bersaglio dei terroristi a causa del risentimento anti-russo che le operazioni della Wagner contribuiscono ad alimentare nel Sahel: la prospettiva di un «rinnovato conflitto etno-religioso nel Caucaso e in Asia Centrale avrebbe impatti di ampia portata per Stati Uniti, Cina e India».

 

Secondo Andreas Krieg (King’s College), le operazioni della Wagner sono incominciate in Libia, dove i contatti, si legge sul sito qatarino Middle East Eye, furono facilitati dagli Emirati Arabi Uniti. Secondo Ferhat Polat (Università di Exeter) il ruolo svolto dei mercenari russi in Libia è stato fondamentale, perché ha permesso ad Haftar di ottenere «l’esperienza e le risorse» altrimenti non disponibili nel suo esercito. Inoltre, è da qui che le operazioni si sono estese al Sudan, grazie anche alla vicinanza tra il generale libico Haftar e il leader delle Forze di Supporto Rapido, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. L’attività dei mercenari in queste aree, però, non è soltanto di tipo bellico. Al contrario, la Wagner ha ottenuto il controllo di vaste risorse, soprattutto minerarie, che utilizza sia per finanziare se stessa – si legge su MEE – che per inviare risorse preziose al Cremlino. Come scrive Foreign Policy, è proprio questa diffusa e autonoma rete di interessi anche economici a rendere difficile ipotizzare un semplice scioglimento della Wagner. Infatti, quella che si è creata nelle zone dove opera la milizia è una «catena alimentare»: comincia al Cremlino, passa ai mercenari e da qui alle milizie locali. «Questo ha permesso lo stabilimento di forze militari alternative e non ufficiali, che hanno creato una mutua dipendenza tra loro stesse e i regimi locali, garantendo alla Russia un’importante leva per influenzare le politiche di questi Paesi», ha scritto Zvi Bar’el su Haaretz.

 

La domanda fondamentale che molti si pongono ora è quella riguardo al futuro: cosa ne sarà delle operazioni di Wagner in Medio Oriente e Africa? Cambiando la catena di comando cambieranno anche gli obiettivi del gruppo e ci sarà un ritiro dai Paesi dove finora hanno operato? Per il ricercatore israeliano Yonatan Touval (Israeli Institute for Regional Foreign Policies) le cose sono piuttosto chiare: «non importa come la crisi [interna alla Russia] si svilupperà, la proiezione di potere della Russia nella regione MENA è destinata a diminuire». Una situazione che comporterebbe anche dei rischi: si creerebbe un vuoto di potere che potrebbe essere riempito da altri attori, ciò che a sua volta potrebbe portare a un’ulteriore destabilizzazione di Paesi come Siria e Libia. Anche per Kirill Semenov (Russian International Affairs Council) «non si può escludere che […] le filiali di Wagner in Africa si trasformino in strutture mercenarie completamente incontrollabili che potranno sviluppare legami con i governi senza tener conto di Mosca». Una frase che, peraltro, smentisce la propaganda del Cremlino secondo cui le operazioni della Wagner in Africa e altrove sono frutto di un’iniziativa privata. Del resto è stato lo stesso ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a esprimere un concetto molto preciso: i governi di Mali e Repubblica Centrafricana si sono rivolti alla milizia Wagner per garantire la sicurezza dei propri Paesi e «questo lavoro, naturalmente, continuerà». Fidèle Gouandjika, consigliere del presidente Touadera ha specificato che il suo Paese ha siglato «un accordo di difesa con la Russia e non con Wagner. La Russia ha subappaltato alla Wagner e, se la Russia non è [più di quest’idea], ci invierà un nuovo contingente». Per ora, almeno stando a quanto si legge su Politico, sul campo non si registrano movimenti di truppe che facciano pensare al ritiro dei circa 5.000 uomini dislocati nel continente africano. 

 

La settimana dell’hajj

 

Secondo la tradizione islamica, la Kaaba, l’edificio cubico situato all’interno della Grande Moschea della Mecca e meta di pellegrinaggio per i musulmani, fu ricostruita da Abramo: in origine però, ricorda Middle East Eye, fu Adamo a edificarla, prima che nei secoli successivi venisse dedicata ai culti politeisti. Nella galleria di immagini proposta dal sito qatarino possiamo osservare come è evoluto il panorama e come sono conseguentemente cambiate le raffigurazioni che se ne sono fatte man mano che l’afflusso di pellegrini si è fatto più consistente: dalla prima riproduzione datata 1575 alle ultime foto, da quando la Kaaba era pressoché l’unica cosa presente nel complesso a quando – oggigiorno – quasi scompare alla vista, sovrastata da hotel e centri commerciali. Se siete interessati alla storia culturale del pellegrinaggio vi consigliamo il sito interattivo di The Khalili Collections.

 

La novità del pellegrinaggio che si svolge questa settimana è che, per la prima volta dopo la pandemia da Coronavirus, l’Arabia Saudita ritorna al massimo della sua ricettività. L’aggiornamento del 27 giugno, si legge sul sito di al-Jazeera, parlava di 1,8 milioni di pellegrini che avevano già raggiunto la Mecca, contro i 900.000 dell’anno scorso, quando ancora erano in vigore alcune restrizioni, e i quasi 2 milioni e mezzo del 2019. Il numero è comunque destinato a salire con l’arrivo dei pellegrini sauditi e le previsioni sono di raggiungere i 2,5 milioni di fedeli, nonostante, secondo la ricostruzione di Middle East Eye, il sistema di prenotazione online continui a dare problemi e a complicare il procedimento di accredito. Secondo le nuove regole introdotte dal governo saudita, infatti, non è più possibile prenotare il viaggio tramite agenzie private specializzate, ma si deve passare per un’applicazione governativa.

 

Un altro aspetto importante riguarda i costi: secondo Reuters la spesa minima per effettuare il pellegrinaggio partendo dalla Palestina è salita fino a 26.000 rial, pari a circa 7.000 dollari americani. Una cifra che prevede il raggiungimento della Mecca via terra e la condivisione della stanza d’albergo con altri pellegrini. L’inflazione ha colpito pesantemente anche questo servizio se consideriamo, come ha scritto l’agenzia di stampa, che con la stessa somma l’anno scorso si potevano prendere pacchetti che includevano il viaggio in aereo anziché in macchina. Naturalmente, il turismo religioso è anche un’importante fonte di introiti per il governo saudita, che incassa ogni anno 12 miliardi di dollari dai pellegrini che visitano Mecca e Medina durante l’hajj o l’umra, il pellegrinaggio minore. «Anche se avessi dovuto vendere tutto per venire in pellegrinaggio, l’avrei fatto. È già da tre anni che provo» a raggiungere Mecca, ha detto Alameer Eid Al-Omar, cinquantaduenne pellegrino egiziano.

 

Ma cosa prevede l’hajj? Anzitutto come hanno sottolineato molti media in quest’occasione, tutti i musulmani sono tenuti a compiere il pellegrinaggio, della durata di cinque giorni, almeno una volta nella vita, laddove le proprie condizioni fisiche ed economiche lo permettano. Per i pellegrini, ricorda l’emittente qatarina al-Jazeera, l’hajj è un’«esperienza spirituale commovente che assolve dai peccati, avvicina a Dio e unisce i più di 1,8 miliardi di musulmani presenti nel mondo. Alcuni trascorrono anni risparmiando denaro e aspettando un permesso per poter intraprendere il viaggio». All’arrivo, ed entro la prima giornata, vengono compiute le circumambulazioni attorno alla Kaaba, al termine delle quali i pellegrini si spostano a Mina; il giorno successivo i fedeli si recano al monte Arafat, dove Muhammad ha tenuto il suo ultimo sermone, e al sito di Muzdalifah, dove raccolgono le pietre da scagliare simbolicamente contro Satana. I tre giorni finali coincidono con la festa di Eid al-Adha, la festa del sacrificio, che spesso ha ricadute importanti anche sul piano politico. Ne offre un esempio la situazione attuale in Sudan: è in occasione di questa festività che ciascuna delle parti in lotta ha annunciato una tregua unilaterale.

 

Mentre milioni di musulmani si recano in Arabia Saudita, il Regno continua il suo percorso verso la diversificazione sia della sua economia che delle sue reti politiche internazionali. Così, dopo lo svolgimento del forum economico sino-arabo a Riyad, il ministro dell’Economia e della programmazione Faisal Alibrahim e quello delle comunicazioni e della tecnologia Abdullah Alswaha hanno guidato la delegazione saudita composta da 24 persone che si è recata a Tianjin per partecipare alla cosiddetta Davos estiva. Secondo al-Monitor, la partecipazione saudita e il ruolo svolto nell’evento da Alibrahim evidenziano i crescenti legami tra Riyad e Pechino. Oltre a diversificare le fonti di ricchezza, l’Arabia Saudita punta ad attrarre investimenti esteri e a favorire l’impiego nel settore privato dei cittadini sauditi. Per questo durante l’estate entrerà in vigore la nuova normativa che pone fine alla necessità, per una società straniera, di avere un partner locale per poter aprire una sede nel Regno. Per gli studi legali internazionali sarà sufficiente nominare due partner che trascorrano almeno sei mesi in Arabia Saudita ed è stato posto un limite del 30% alle consulenze che possono essere affidate a legali che lavorano fuori dai confini sauditi. Dato che «l’avvocatura è una professione che segue il denaro, e in Arabia Saudita c’è molto denaro», ha detto Kent Zimmermann dello studio Zeughauser Group, molte società di avvocati stanno iniziando a stabilire propri distaccamenti nel Regno.

 

Erdoğan blocca ancora l’ingresso nella NATO della Svezia

 

Le prime mosse del nuovo governo turco hanno iniziato a dare qualche risultato. La prima tappa è stata il rialzo dei tassi di interesse decretati dalla nuova governatrice della Banca Centrale. Quest’ultima ha anche posto fine agli interventi sul mercato dei cambi con i quali cercava di stabilizzare il valore della lira turca. La fine di questa politica ha portato all’aumento delle riserve di valuta straniera, che erano scese a livelli preoccupanti e che ora ammontano a circa 107,5 miliardi di dollari, secondo i dati citati dalla Reuters. L’altra faccia della medaglia è, naturalmente, proprio la svalutazione della lira, che ha toccato un nuovo minimo: 26,10 contro il dollaro americano. Una perdita di valore del 28% solo considerando questi primi sei mesi del 2023.

 

Dal punto di vista politico, le attenzioni sono rivolte al processo di ingresso della Svezia nella NATO, finora bloccato da Ankara. Infatti, nonostante le nuove norme anti-terrorismo approvate dal Paese scandinavo, la Turchia continua a richiedere che la Svezia blocchi le proteste anti-turche che hanno luogo sul suo territorio. Il presidente Erdoğan ha detto che le nuove leggi varate da Stoccolma sono prive di significato fintanto che i sostenitori del PKK potranno manifestare nelle strade della capitale. Una critica alla quale ha risposto il ministro degli Esteri Tobias Billstrom ricordando che, mentre la libertà di manifestazione è garantita dalla Costituzione svedese, «non sempre ciò che è legale è anche corretto». Una replica che con ogni probabilità non ha soddisfatto Erdoğan. Inoltre, è probabile che la notizia di un’indagine per tangenti portata avanti dalle autorità svedesi e che coinvolge il figlio del reis, Bilal, non faccia che peggiorare le relazioni tra la Turchia e il Paese scandinavo.  Così come non aiuta il nuovo sconsiderato rogo del Corano andato in scena a Stoccolma, condannato da Erdoğan e dai musulmani di tutto il mondo (incluso in Iraq dove, spinti dal chierico sciita Moqtada al-Sadr, manifestanti hanno assaltato l’ambasciata svedese).

 

Ma non è tutto: mentre si avvicina l’attesissimo vertice NATO di Vilnius, previsto per metà luglio, la Turchia ha alzato il tiro delle richieste inviate all’Alleanza Atlantica. Secondo l’esclusiva pubblicata da Amberin Zaman su Al-Monitor, Ankara non sta soltanto bloccando l’ingresso della Svezia, ma ha anche richiesto che nel documento strategico della NATO si faccia riferimento agli stretti che collegano il Mar Nero all’Egeo come agli “Stretti turchi”. Come ha scritto Zaman, quella che potrebbe sembrare semplice pedanteria «potrebbe avere implicazioni legali che darebbero alla Turchia un maggiore controllo sugli specchi d’acqua rispetto a quanto ne detiene ora sotto la convenzione di Montreux, e in modalità che potrebbero danneggiare gli interessi occidentali».

 

In breve

 

Come noto, l’Arabia Saudita ha aperto al turismo internazionale. Ma come ha riportato il New York Times le autorità saudite con ogni probabilità si sarebbero aspettate tutto meno che vedere entrare in Arabia Saudita predicatori cristiani (Battisti e Mennoniti) secondo i quali il vero Monte Sinai sarebbe nei pressi di NEOM, e non in Egitto.

 

Un’indagine condotta dalla BBC mostra i legami tra i trafficanti di Captagon, la potente droga diffusa in Medio Oriente, e i vertici delle forze armate siriane e della famiglia di Bashar Assad.

 

L’amministrazione Biden ha informato il Congresso americano della sua decisione di rimuovere l’Etiopia dalla lista dei Paesi in cui si verificano evidenti e gravi violazioni dei diritti umani. Una scelta che apre la strada agli aiuti economici americani (Foreign Policy).

 

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