Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:59:58

Una nuova spirale di violenza ha investito Israele e i territori palestinesi. Un circolo vizioso senza fine, nel quale le violenze di questa settimana, alimentate da un’occupazione sempre più soffocante, sono soltanto l’ultimo episodio. Limitando il discorso a quanto successo questa settimana, le violenze sono incominciate lunedì, quando un arresto da parte delle forze israeliane a Jenin, in Cisgiordania, ha incontrato una «resistenza inaspettata». Nello scontro a fuoco che ne è seguito, durato fino al tardo pomeriggio, sono stati uccisi sei palestinesi, tra i quali un quindicenne, e ferite 91 persone. Sono sette, invece, i soldati israeliani feriti. L’esercito israeliano ha dovuto far entrare in azione alcuni elicotteri d’attacco per portare a compimento la missione e, soprattutto, permettere il ritiro dei militari: come ha osservato tra gli altri il Financial Times, è la prima volta che Israele fa uso di questi mezzi in Cisgiordania dalla Seconda Intifada.

 

Commentando nell’immediato l’accaduto, Menachem Klein, visiting professor al King’s College di Londra, aveva ipotizzato che l’azione israeliana non avrebbe funzionato come un deterrente e che, nonostante i cinque morti, i palestinesi avrebbero potuto considerare la giornata come una vittoria, a causa dello squilibrio di forze a loro svantaggio. Un’opinione simile è quella espressa dall’analista palestinese Jalal Abukhater, secondo il quale il fatto che siano stati impiegati elicotteri da combattimento «è un indicatore di come l’escalation di sangue portata avanti da Israele negli scorsi 18 mesi abbia finora fallito» nel suo tentativo di porre un argine alla resistenza armata palestinese. Nonostante questo, il ministro israeliano delle Finanze, l’estremista di destra Bezalel Smotrich, ha colto l’opportunità per chiedere un approccio ancora più aggressivo e dare il via a un’«ampia operazione» per «ristabilire la deterrenza». La previsione di Klein e Abukhater si è avverata: la deterrenza non funziona, e le violenze si sono susseguite.

 

La risposta palestinese è, infatti, arrivata il giorno successivo al raid israeliano: martedì quattro israeliani sono stati uccisi, e altri quattro sono stati feriti, nel corso di un attacco all’insediamento di Eli, a nord di Ramallah. Hamas si è limitato a dire che si è trattato di una risposta ai «crimini» israeliani del giorno precedente, senza rivendicare l’attentato, anche se secondo l’esercito israeliano i due assalitori erano affiliati al gruppo terrorista che governa sulla striscia di Gaza. Martedì Itamar Ben-Gvir, ministro per la sicurezza nazionale israeliana, ha ripetuto ciò che Smotrich aveva fatto il giorno precedente, ovvero gettare benzina sul fuoco: «abbiamo bisogno – ha detto Ben-Gvir – di un ritorno alle uccisioni mirate dal cielo, all’abbattimento di edifici, alla creazione di posti di blocco, all’espulsione dei terroristi e, infine, dobbiamo approvare la legislazione sulla pena di morte per i terroristi». Tutte le opzioni, gli ha fatto eco il premier Benjamin Netanyahu, sono sul tavolo. Giovedì è arrivata intanto la notizia che Ben-Gvir sperava: per la prima volta dal 2006 un drone israeliano ha bombardato un veicolo in Cisgiordania e ucciso i tre passeggeri. Secondo l’agenzia palestinese Wafa, i tre deceduti rispondono ai nomi di Mohammed Bashar Uweis, Suhayb Adnan al-Ghoul, e Ashraf Murad Saadi, tutti provenienti da Jenin. Il primo apparteneva al braccio armato di Fatah, mentre gli altri due facevano parte del Jihad islamico palestinese.

 

L’azione israeliana, però, non è limitata agli aspetti militari. Al contrario, il governo ha annunciato mercoledì l’approvazione urgente della costruzione di altre 1000 unità abitative proprio nei pressi dell’insediamento di Eli. La decisione è il frutto dell’accordo raggiunto tra Netanyahu, Smotrich, e il ministro della Difesa Yoav Gallant: la nostra risposta al terrore, ha detto il primo ministro, è «colpire con forza e costruire la nostra nazione».

 

Le violenze sono continuate martedì. Inferociti dall’attacco nell’insediamento di Eli, circa 400 coloni sono partiti da quello di Shilo per raggiungere il villaggio palestinese di Turmus Ayya, dove hanno dato fuoco a case, macchine, alberi e aperto il fuoco sui residenti. Un ventisettenne palestinese è stato ucciso quando le forze dell’ordine israeliane sono arrivate sul posto. Le Forze di Difesa Israeliana (IDF) hanno condannato l’assalto, come ha fatto Netanyahu. Ma a dimostrazione di come operi il circolo vizioso, portando tutti verso posizioni più estremiste, vi sono le dichiarazioni di Danny Danon, un deputato che Haaretz definisce «relativamente moderato»: «chiediamo un’operazione militare in Giudea e Samaria, adesso. Adesso è il momento di colpire duramente e rapidamente».

 

Secondo Aaron David Miller, ex coordinatore per i negoziati arabo-israeliani per conto del Dipartimento di Stato americano, «si sta scatenando una tempesta perfetta: un’occupazione israeliana vecchia di 56 anni; il più estremista dei governi israeliani; [la presenza di] cellule sostenute da Hamas e dalla Jihad islamica e gruppi palestinesi indipendenti nella West Bank che pianificano attentati terroristici. Un sanguinoso cul-de-sac senza via d’uscita».

 

Le politiche dell’attuale governo israeliano stanno creando problemi anche con le comunità druse sulle alture del Golan. Questa settimana, infatti, si sono verificati scontri con i drusi che vivono sulle alture del Golan occupato (circa 25.000 persone con passaporto siriano, secondo i dati citati da al-Monitor). Al centro della contesa un progetto israeliano per la costruzione di 41 turbine eoliche nei frutteti situati nei pressi dei villaggi di Majdal Shams e Masada. Per la realizzazione delle turbine le autorità israeliane pianificano la confisca di 1.000 acri di area agricola utilizzata dalle famiglie druse, come ha riportato Middle East Eye. A rischio, ha scritto Rina Bassist, il sostentamento dei drusi che vivono in quest’area, che si basa quasi esclusivamente su agricoltura e turismo. 27 persone, tra cui 17 poliziotti israeliani, sono risultati feriti negli scontri. Una situazione simile si verifica nel villaggio di Battir in Cisgiordania, le cui terrazze agricole rientrano nei siti patrimonio dell’UNESCO: secondo l’Associated Press la pianificata estensione dell’insediamento di Har Gilo, favorita dal governo Netanyahu, potrebbe portare alla fine del particolare sistema di irrigazione che permette ai residenti di Battir di vivere dei prodotti dei loro campi.

 

L’espansione degli insediamenti ha conseguenze anche a livello internazionale: il Marocco ha deciso di ritirare la sua disponibilità a ospitare il secondo appuntamento del Negev Forum, previsto in luglio, proprio a causa della scelta israeliana di espandere gli insediamenti in Cisgiordania. Pesa, inoltre, la decisione di modificare l’autorità responsabile di queste politiche: non più il ministro della Difesa Gallant, ma il suo vice, nonché ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich. Ancora lui.

 

Nuovi negoziati per un (mini?) accordo nucleare

 

Nonostante le smentite delle ultime settimane, il raggiungimento di un accordo a interim sul nucleare iraniano, che rimuova una parte delle sanzioni imposte al regime di Teheran in cambio del suo arretramento sulle più avanzate attività nucleari senza dover obbligatoriamente passare al vaglio del Congresso, sembra essere la speranza più fondata per fermare la corsa della Repubblica Islamica verso la capacità di produrre un’arma atomica. O almeno questa è l’opinione di alcuni diplomatici anonimi interpellati dal Financial Times. Paradossalmente, ha dichiarato Henri Rome, la scoperta dell’uranio arricchito a livelli superiori all’80% avvenuta nel complesso di Fordow, ha ridato slancio alla diplomazia, perché ha fornito una «drammatica dimostrazione di come le cose andrebbero a finire senza uno sforzo per abbassare la temperatura». Gli Stati Uniti, infatti, hanno fatto sapere alla controparte iraniana che considerano ogni arricchimento superiore al 60% una «marcia verso la weaponization» dell’uranio. Marc Milley, capo dello Stato maggiore congiunto americano, ha dichiarato lo scorso marzo che «l’Iran può produrre materiale fissile sufficiente per un’arma nucleare in approssimativamente 10-15 giorni» mentre gli basterebbero solo alcuni mesi per produrre una vera e propria bomba.

 

Ecco, dunque, l’“incentivo” che favorisce la prosecuzione di negoziati indiretti tra iraniani e americani. Secondo il Washington Post, le trattive servirebbero a fermare l’arricchimento dell’uranio appena sotto la soglia necessaria per la realizzazione di una bomba, a interrompere gli attacchi delle milizie pro-iraniane nei confronti di personale americano di stanza in Medio Oriente (principalmente in Iraq e in Siria) e portare a uno scambio di prigionieri. Stando a quanto dichiarato da un diplomatico straniero, infatti, «per gli americani è importante che succeda contemporaneamente qualcosa in merito ai prigionieri e al nucleare. Uno scambio di prigionieri può aiutare a sbloccare i negoziati».

 

I colloqui proseguono anche grazie all’attività dell’Unione europea. Ali Bagheri Kani, capo negoziatore iraniano, ha incontrato a Doha l’inviato europeo Enrique Mora, con il quale ha avuto un incontro «serio e costruttivo» su argomenti come «i negoziati e la rimozione delle sanzioni». Un incontro che fa seguito a quelli avvenuti negli Emirati arabi la settimana scorsa con gli inviati britannico, francese e tedesco. La posizione di Teheran sembra essere quella di voler raggiungere un accordo. Il Financial Times ha infatti citato un “insider” del regime, secondo il quale le recenti dichiarazioni di Khamenei (non ci sarebbe nulla di male in un accordo con l’Occidente, aveva detto), stanno «definendo il quadro per un accordo nucleare». Secondo questa figura, l’Iran vuole approfittare del momento di distensione con i vicini arabi – testimoniato dal recente viaggio del ministro degli Esteri iraniano in Oman, Qatar, Emirati e Kuwait e dalla visita di Faisal bin Farhan Al-Saud a Teheran – per alleviare la sofferenza imposta dalle sanzioni alla sua economia: la Repubblica Islamica «sta cercando la de-escalation nella sua politica estera. Quando i riformisti erano al potere, c’era sempre la paura che […] essi avrebbero spinto per la normalizzazione con gli Stati Uniti. Ora questo timore non c’è, perché il sistema politico è nelle mani degli integralisti». È diversa l’opinione di Vali Nasr: con l’approssimarsi della successione a Khamenei, ormai ottantaquattrenne, «nessuno, inclusa la Guida Suprema, si vuole assumere il costo politico di un altro cattivo accordo con gli Stati Uniti».

 

All’interno del Paese, intanto, gli abitanti fanno i conti con la siccità e i cambiamenti climatici. Tra le zone più colpite le province di Sistan e Baluchistan. Oltre a influenzare in negativo la vita delle persone, la siccità aumenta le tensioni con i Paesi vicini, come nel caso dell’Afghanistan per la gestione dei flussi del fiume Helmand.

 

Turchia: inversione a U sui tassi

 

Un’inversione a U. Così la BBC ha definito la decisione della Banca Centrale diretta da Hafize Gaye Erkan di alzare i tassi di interesse di 6,5 punti percentuali. E in effetti, dopo anni di politiche economiche di Erdoğan che andavano nella direzione opposta, è difficile immaginare una definizione differente, nonostante l’entità del rialzo sia inferiore a quanto si aspettassero molti istituti finanziari e analisti. Tuttavia, nel comunicato con cui ha reso nota la nuova politica monetaria, la Banca Centrale turca ha specificato che si tratta solamente del primo di una serie di innalzamenti dei tassi che hanno l’obiettivo di portare l’inflazione al 5%.

 

Il cambio di rotta, tuttavia, è più difficile a farsi che a dirsi, e potrebbe avere conseguenze indesiderate per Erdoğan. Secondo Ozge Zihnioglu (Università di Liverpool), il presidente «deve fare qualcosa per l’economia, ma un chiaro ritorno a politiche economiche ortodosse colpirebbe un’ampia sezione della società, ed Erdoğan non vuole che questo impatti sulle elezioni locali» previste per l’anno prossimo. Le cautele a cui Erdoğan è costretto dimostrano come sia «molto più difficile per un governante dominare la Turchia piuttosto che, per esempio, la Russia o l’Arabia Saudita», ha scritto Simon Kuper. Il mondo della cultura e la società turca non sono ancora del tutto nelle mani del presidente, che ha iniziato a «capire le sue debolezze».

 

 

 

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