Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:33:07

A due settimane dall’annuncio, si continua a discutere delle conseguenze della roadmap per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, raggiunta grazie alla mediazione della Cina.

 

«Un piccolo passo per le relazioni tra sauditi e iraniani, un grande passo per la pace e la stabilità in Medio Oriente», ha scritto uno studioso cinese paragonando implicitamente la mediazione cinese allo sbarco sulla luna. Secondo Tuvia Gering (The China Project), la citazione storica è particolarmente adeguata per descrivere l’attuale contesto di polarizzazione della politica internazionale: «la corsa allo spazio rappresentò un modo per l’America e l’Unione Sovietica di dimostrare la loro superiorità tecnologica durante la Guerra Fredda. Nell’odierna competizione per il potere, la svolta di Pechino [la mediazione, ndr] è un’opportunità per la Cina di dimostrare la propria abilità diplomatica contro il suo rivale strategico». In realtà, sostiene Gering, va considerato che è anche grazie al ruolo statunitense che la Cina ha potuto concludere positivamente la sua mediazione: senza la maximum pressure trumpiana, né Riyad né Teheran si sarebbero sedute al tavolo.

 

Un punto simile è stato sottolineato anche da Maria Fantappie e Vali Nasr su Foreign Affairs. I due studiosi hanno evidenziato il ruolo americano: è stata Washington nel 2021 a incoraggiare sauditi e iraniani a riprendere i colloqui, nel tentativo di allentare la tensione nel Golfo Persico. Al tempo stesso occorre però considerare che per Teheran l’aumento della presenza cinese nell’area rappresenta un grande vantaggio: in primis perché il tentativo di riallacciare con l’Europa e gli Stati Uniti, simboleggiato dall’accordo sul nucleare, si è rivelato un fallimento, ciò che ha portato l’Iran a guardare con sempre maggior convinzione verso Est. In secondo luogo, la presenza cinese nella regione, come scrivono Fantappie e Nasr, indebolisce l’influenza americana e pone una sfida al sistema sanzionatorio posto in essere dall’Occidente. In questa fase gli interessi strategici di Cina, Arabia Saudita e Iran coincidono e perciò il recente accordo è solo l’inizio della creazione di una nuova realtà geopolitica in Medio Oriente, all’interno della quale Washington non può chiedere ai propri alleati di allontanarsi dalla Cina e di isolare l’Iran. «Gli Stati Uniti non hanno capito che non possiamo essere alleati a scapito dei nostri interessi», che non sono in linea né con la guerra all’Iran né con una relazione conflittuale nei confronti di Pechino, ha affermato un funzionario saudita.

 

L’intenzione saudita di perseguire primariamente i propri interessi è dimostrata secondo Jon B. Alterman (Centre for Strategic and International Studies) anche dalla particolare sequenza di annunci che ha visto protagonista la monarchia: prima è filtrata la notizia di un possibile accordo con Israele, il giorno successivo c’è stata la finalizzazione dell’accordo con l’Iran, seguita dall’annuncio del lancio di una nuova compagnia aerea saudita (nota a margine: come l’avranno presa ad Abu Dhabi e Dubai?). Ultimo, ma non per importanza, ha reso pubblica l’intenzione di acquistare 78 jet dalla Boeing. Nell’analisi di Alterman, tutto questo mostra che l’Arabia Saudita «ha facoltà di decidere del proprio futuro» e il suo approccio diplomatico è mutato, dimostrandosi ora più sottile e abile. D’altro canto gli alleati del Golfo, come è noto da tempo, sono insoddisfatti della scelta americana di considerare il Medio Oriente un teatro di secondaria importanza, a vantaggio dell’Indo-Pacifico e (recentemente) dell’Europa orientale. Nonostante le rassicurazioni americane agli alleati arabi, le azioni intraprese da Washington parlano da sé: come ha riportato in questi giorni il Wall Street Journal, gli Stati Uniti hanno deciso di spostare i propri aerei militari tecnologicamente più avanzati lontano dal Medio Oriente, lasciando nell’area i più datati A-10 e F-16.

 

L’accordo tra Iran e Arabia Saudita non ha però ripercussioni solamente sugli attori direttamente coinvolti. La Turchia, ad esempio, ritiene di poter beneficiare dell’accordo: secondo Amwaj Media, che ricorda anche come Ankara stessa sia al centro di un processo di distensione con i suoi rivali, in questo contesto l’accordo potrebbe favorire un riavvicinamento della Turchia ai Paesi del Golfo. Ciò permetterebbe a Ankara e Riyad di provare a ridurre l’influenza iraniana in Siria. Dal canto suo Damasco approfitta della situazione per cercare di riallacciare i rapporti con i Paesi della Lega araba: in quest’ottica segnaliamo il secondo viaggio all’estero in pochi giorni di Bashar Assad, che si è recato negli Emirati Arabi Uniti per incontrare Mohammed bin Zayed. Questa non è però l’unica notizia che riguarda la Siria. Uno dei primi frutti dell’allentamento della tensione tra Arabia Saudita e Iran (dopo lo Yemen) potrebbe giungere proprio dal ristabilimento di relazioni diplomatiche tra la Repubblica guidata da Assad e il Regno saudita: secondo alcune fonti citate da Reuters, la riapertura delle ambasciate sarebbe imminente.

 

L’assist curdo a Kılıçdaroğlu

 

A mano a mano che le elezioni turche si avvicinano, si chiariscono altri dettagli della competizione elettorale che avrà luogo a maggio. Questa settimana i partiti dell’opposizione hanno segnato un punto a proprio favore. Il partito curdo HDP, attraverso le parole di Pervin Buldan, ha scelto di non proporre alcun candidato alle prossime elezioni presidenziali, facendo riferimento alla «responsabilità storica» di opporsi alla pratica dell’uomo solo al comando. In questo modo l’HDP, che non fa parte del gruppo di sei partiti che sostiene la candidatura di Kemal Kılıçdaroğlu, ha fornito un assist importante alle forze che sperano di sconfiggere Erdoğan. Amberin Zaman su al-Monitor ha tentato di delineare un profilo di Kılıçdaroğlu, definito una figura «molto più complessa» di quanto potrebbe sembrare. Anzitutto, la previsione di Zaman (effettivamente condivisibile) è che Erdoğan tenterà di usare a suo favore il fatto che lo sfidante è un alevita, cercando così di galvanizzare gli elettori sunniti conservatori. Il paradosso colto da Zaman è che Erdoğan, nel tentativo di screditare il partito CHP di cui Kılıçdaroğlu è leader, fu il primo leader turco a riconoscere il massacro dei curdi aleviti che ebbe luogo nel 1938 a Tunceli, città di origine di Kılıçdaroğlu. Oggi Erdoğan ha vestito i panni dell’oppressore, mentre il CHP ha scelto proprio un alevita di Tunceli come suo leader.

 

Secondo Zaman, inoltre, la distanza tra la coalizione che sostiene il presidente uscente e quella che sostiene lo sfidante si sta allargando, a vantaggio della seconda. Come abbiamo scritto anche in precedenza, è probabile che la crisi economica che sta soffrendo la Turchia (in parte indotta proprio dalle Erdonomics, come talvolta vengono chiamate le politiche economiche eterodosse promosse da Erdoğan) favorisca la coalizione di Kılıçdaroğlu. Ne ha parlato anche Berk Esen, assistant professor di scienza politica alla Sabancı University, nel corso di un evento organizzato da Turkey Recap. La posizione di Kılıçdaroğlu è inoltre rafforzata dalla scelta di concorrere in ticket con i due carismatici sindaci di Ankara e Istanbul, Mansur Yavaş ed Ekrem İmamoğlu. Il loro ruolo nella campagna elettorale aumenterà qualora i sondaggi dovessero indicare che la gara è in bilico, ha affermato Esen.

 

Erdoğan stesso e i vertici dell’AKP sembrano consapevoli del fatto che l’economia è uno dei talloni di Achille del governo turco. È per questo che, secondo quanto riferito da Reuters, il presidente in carica avrebbe offerto a Mehmet Simsek, «l’ex zar dell’economia russa» nonché vice primo ministro fino al 2018, figura rispettata nei circoli economici interni e internazionali, di ritornare ad avere un ruolo di spicco all’interno del partito AK. Simsek ha però rifiutato l’offerta: «non il primo e non l’ultimo segnale della diminuzione del sostegno al governo di Erdoğan», ha affermato Ertan Aksoy, della società di indagini statistiche Aksoy Research. Una tendenza che è colta anche da due recenti sondaggi condotti da MAK e da Turkiye Raporu, secondo i quali la coalizione di Kılıçdaroğlu avrebbe un vantaggio compreso tra i 4 e i 9 punti su quella di Erdoğan.

 

A questa generale situazione di incertezza si aggiunge poi la difficoltà di provare a comprendere quali potrebbero essere gli effetti politici del terremoto che ha devastato la Turchia (qui il New York Times offre una ricostruzione visiva, grazie alle riprese di un drone, della distruzione della città di Antakya). Inoltre, le province di Sanliurfa e Adiyaman, già colpite dalle scosse, sono state ora oggetto di piogge torrenziali che hanno provocato inondazioni istantanee. Almeno 14 persone sono morte e tra di esse vi sono cinque immigrati siriani. È proprio verso gli immigrati siriani che si rivolge la rabbia di molti turchi in cerca di un capro espiatorio, in modo persino più marcato dopo il terremoto. Secondo l’indagine condotta da Sude Akgundogdu per il Washington Institute for Near East Studies, la mancanza di organi di informazione affidabili ha favorito la diffusione dell’odio nei confronti dei siriani sui canali social turchi. Akgundogdu ha analizzato in particolare il caso delle cosiddette “street interviews”, realizzate da reporter non professionisti i quali, attraverso domande capziose, orientano l’opinione pubblica, spesso contro il governo e contro i rifugiati. Un esempio è fornito da un’intervista a un rifugiato siriano che ha ottenuto oltre un milione di visualizzazioni (per avere un paragone: il quotidiano più venduto, il Sabah, vende meno di 200.000 copie al giorno): in questa occasione la rabbia è indirizzata contro i siriani perché l’intervistato ha comunicato la sua intenzione di stabilirsi definitivamente in Turchia anche per poter votare a favore di Erdoğan.

 

Netanyahu e l’estrema destra israeliana fanno all in

 

Prosegue lo smantellamento della democrazia israeliana. Mentre Netanyahu è sotto processo per corruzione, la Knesset ha approvato una legge che limita fortemente le possibilità di impeachment del primo ministro. Gli oppositori di Netanyahu, va da sé, hanno criticato aspramente la nuova legislazione. Prima dell’entrata in vigore di questa norma, la legge israeliana mancava di indicazioni specifiche riguardo a quando un primo ministro può essere rimosso. Ora, invece, viene specificato che ciò può avvenire soltanto in presenza di comprovati problemi di salute fisica o mentale e che soltanto il governo stesso e il Parlamento hanno il diritto di rimuovere il primo ministro in carica. Anche in questo caso si può dunque osservare come la legislazione precedente avesse, in effetti, dei punti oscuri che garantivano una discrezionalità probabilmente eccessiva al potere giudiziario, ma la soluzione proposta rischia di essere esagerata in senso opposto, ponendo un grande limite – come asseriscono le opposizioni – alle prerogative della magistratura, e con esse ai pesi e contrappesi fondamentali per la vita di una democrazia.

 

Ciò è ancora più preoccupante se consideriamo quali figure compongono l’attuale governo israeliano. Tanto si è detto e scritto di Itamar Ben-Gvir, ma negli ultimi tempi è il ministro delle finanze Bezalel Smotrich che non perde occasione per far parlare di sé. L’ultima occasione è stata quella in cui ha dichiarato  che «non esistono i palestinesi, perché non esiste alcun popolo palestinese» e quest’ultimo sarebbe soltanto «un’invenzione» del XX secolo. A riprova della sua affermazione Smotrich sostiene che «non c’è nessuna storia o cultura palestinese». Naturalmente le dichiarazioni del ministro hanno suscitato la condanna da parte di molti sia all’interno che all’esterno di Israele, con Giordania ed Emirati Arabi Uniti che secondo il Jerusalem Post stanno valutando se e come ricalibrare le loro relazioni con Israele. Intanto, in un’altra mossa altamente simbolica favorevole al movimento dei coloni, la Knesset ha deciso di dare nuovamente la possibilità di entrare in quattro insediamenti abbandonati dopo il ritiro israeliano del 2005 da Gaza e dalla Cisgiordania  

 

In questa situazione non si placano le proteste, che coinvolgono diversi riservisti e veterani delle forze armate, tanto che il ministro della Difesa Yoav Gallant sembrava intenzionato a valutare l’ipotesi di dimissioni nel caso in cui non si fosse raggiunto un compromesso con l’opposizione sulla riforma della Giustizia. Tuttavia, Netanyahu per ora non sembra avere alcun interesse a raggiungere un punto d’incontro, e la riforma resta calendarizzata per settimana prossima.

 

In breve

 

In Tunisia è diventato pericoloso intrattenere relazioni con i Paesi occidentali? Secondo Le Monde sembrerebbe proprio così, in considerazione delle accuse di complottare contro la sicurezza dello Stato rivolte ad alcuni attivisti che hanno avuto contatti con ambasciatori stranieri.

 

La Russia ha superato l’Arabia Saudita ed è diventata il più importante fornitore di petrolio della Cina (Al-Monitor). Mosca è anche al primo posto per gli investimenti in Iran (Financial Times).

 

Gli investitori del Golfo Persico e il Fondo Monetario Internazionale stanno esercitando pressioni sul presidente al-Sisi per limitare il ruolo dell’esercito nell’economia egiziana (Wall Street Journal).

 

È iniziato il mese di Ramadan e, come ha scritto al-Monitor, in molti Paesi dell’area MENA erode il potere d’acquisto dei nuclei familiari e complica l’acquisto dei cibi tradizionali di questo periodo.

 

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