Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:55:22

In una settimana caratterizzata dalle manifestazioni anti-Netanyahu e dalle impressionanti scene di violenza della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa proprio nel mese di Ramadan, sorprende come importanti giornali panarabi, soprattutto quelli vicini agli Emirati, preferiscano deviare l’attenzione sugli altri problemi dei palestinesi, per esempio sulla figura del leader dell’OLP Abu Mazen. Lo scrittore iracheno ‘Ali al-Sarraf ha firmato sulla prima pagina di al-‘Arab del 1° aprile un caustico intervento accompagnato da una singolare vignetta: la morte, avvolta nel suo classico mantello nero, guarda con impazienza l’orologio che indossa al polso, mentre si appoggia all’immancabile falce. Al suo fianco, Abu Mazen risponde con tutta calma e, anzi, persino infastidito: «Non posso…non vedi che sono impegnato con la questione (palestinese)?». Si apre in questo modo il finto necrologio dedicato alla figura-salma del presidente: «non sono un esperto nel dare notizie in esclusiva. Tuttavia, la morte di Mahmoud Abbas non è una velina in anteprima, bensì un dato di fatto». Ma ci tiene subito a precisare: «non è la prima volta che muore. In passato era spirato già diverse volte, anche se poi continuava a fare dichiarazioni del tipo “libereremo la nostra terra dall’occupazione, e creeremo lo Stato palestinese con Gerusalemme Est capitale, sulla base della soluzione dei due Stati e delle risoluzioni del diritto internazionale”. Non che lui ci credesse, ma serviva a dimostrare che avesse ancora il dono della vita». Quella frase, precisa al-Sarraf, «la ripeteva meticolosamente senza mai stancarsi o annoiarsi». Ora, però, che Israele è «sottosopra», Abu Mazen sembra «totalmente assente dagli eventi degli ultimi giorni» anche se, in fin dei conti, non dà segnali di vita da molto tempo. L’articolo passa in rassegna tutte le sue numerose “morti”, dall’interruzione dei negoziati con Israele nel 2014 all’uccisione della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Aqleh, colpita dai proiettili israeliani l’11 maggio 2022. Il leader di Ramallah è ormai «nelle grazie di Dio (rahmat Allah): ha lasciato il suo popolo in confusione, mentre i membri del suo Comitato Esecutivo non sanno cosa fare quando non ci sarà più lui». Quantomeno, in passato vi era l’orizzonte dei negoziati in corso con Israele; ora che è tornato Netanyahu con la destra estrema, anche questo «“orizzonte” è volato via. Chiudendo la questione».

 

Con la nuova escalation in corso in queste ore sia nei territori palestinesi che tra Israele e Libano, è istruttivo dare uno sguardo alle prime pagine dei giornali panarabi di oggi 7 aprile: il saudita al-Sharq al-Awsat mette la notizia in primo piano – ma sotto all’accordo tra Arabia Saudita e Iran – con un articolo di cronaca («messaggi missilistici palestinesi dal sud del Libano»). Anche al-Quds al-‘Arabi, che sta per “Gerusalemme araba”, legato al Qatar, mette in risalto la notizia, accompagnandola con un editoriale che ricorda come la «minaccia sionista» sia sempre presente per i palestinesi, anche quando lo Stato ebraico è alle prese con gravi questioni interne. Totalmente diversa, invece, la scelta del filo-emiratino al-‘Arab che relega la notizia in seconda pagina, preferendo aprire con le vicende politiche e militari del Sudan.          

 

 

L’iniziativa italiana per salvare la Tunisia dalla bancarotta economica (ma non da quella politica)

 

Le vicende della Tunisia, che ora confida anche nell’aiuto italiano per alleviare la sua disastrosa situazione economica, sono state seguite con molto interesse dai principali quotidiani panarabi. Al-Mahdi Mabrouk, ministro tunisino della cultura nel biennio 2012-2013, scrive su al-‘Arabi al-Jadid un articolo al vetriolo contro l’Italia e la sua politica estera: «non è la prima volta che sostiene un regime autoritario in Tunisia», riferendosi al ruolo dell’intelligence italiano nel cosiddetto “golpe medico” che portò alla destituzione del presidente Burghiba il 7 novembre del 1987. E infatti, essa ancora oggi «non mostra interesse nella transizione democratica» del Paese arabo, forse a causa – insinua l’autore – «dell’arretratezza della politica e della debolezza della società civile italiana […] in ritardo su tutti i livelli rispetto a quella dei Paesi vicini» e in particolar modo del Nord Europa. Roma, infatti, «solo di rado ha espresso interesse per quello che avviene all’estero», limitandosi di fatto a seguire passivamente gli eventi del Mediterraneo. La cosa più grave, però, è che ha avuto una «posizione ambigua sulla rivoluzione tunisina», al punto da rimanere quasi «dispiaciuta per aver perso un alleato», ossia l’ex presidente Ben ‘Ali, dimessosi a seguito delle manifestazioni di piazza del 2011. Per Mabrouk, infatti, l’Italia nei dieci anni successivi ha guardato la Tunisia solo «come un Paese di transito dei migranti». Il paradosso è che ora essa accoglie con favore l’ascesa del presidente Saied, considerato come un argine all’avanzata degli “estremismi”, dimenticandosi del fatto che lo stesso ra’īs ha abbandonato da tempo il processo di democratizzazione. La paura è un’altra: «l’Italia teme che Tunisi cada di nuovo, per dirla con le sue parole, nelle mani della Fratellanza Musulmana», del tutto «indifferente all’esperienza di una transizione democratica che viene crudelmente seppellita, e la ragione di tutto ciò sta nel fatto che l’immigrazione è il pericolo più urgente, non l’autoritarismo».

 

Dello stesso avviso Al-Quds al-‘Arabi, che commenta la vicenda con un “titolo parlante”: «l’Italia parla di progressi nella giusta direzione…mentre la Francia conferma la necessità delle “riforme” del Fondo Monetario». Il quotidiano tunisino Al-Sabah, di orientamento filogovernativo, guarda con favore alle manovre di Roma, seppur con alcune e importanti riserve.  «L’iniziativa italiana per Tunisi e per i suoi affari nazionali è notevole e senza precedenti», afferma un articolo del 2 aprile; tuttavia, questo impegno «è parso strano e insolito», con il sospetto che sia motivato dalla necessità di porre freno ai fenomeni migratori. A differenza dei quotidiani citati sopra, però, la critica di al-Sabah si concentra sulla “cessione” della sovranità nazionale dello Stato tunisino che, a causa della crisi in cui versa, è costretto a fare concessioni in ambito regionale e internazionale: «oggi i Paesi dell’unione Europea, e soprattutto l’Italia, stanno facendo pressioni sulla Tunisia, approfittando della sua pessima situazione economica per imporre misure e condizioni in relazione ai migranti».  Anche la testata al-‘Arab vede con favore l’iniziativa italiana, tanto da metterla come notizia di prima pagina nell’edizione del 1° aprile, dove si sottolinea il ruolo della presidente del consiglio Giorgia Meloni e del ministro degli esteri Antonio Tajani nel coordinarsi con l’Algeria per quanto riguarda la questione degli aiuti. Tuttavia, aggiunge il giornale, «i tunisini, e in particolar modo i sostenitori di Saied, si interrogano sul ritardo del sostegno promesso loro dal presidente algerino Tebboune più di una volta, soprattutto dopo che Tunisi si è messa in una posizione critica verso il Marocco ricevendo lo scorso agosto il capo del Fronte Polisario Ibrahim Ghali». Mentre si confronta con Algeri, «l’Italia si rivolge agli Stati Uniti invitandoli a facilitare l’ottenimento dei prestiti del Fondo Monetario». Lo stesso quotidiano ha poi sostenuto con decisione l’operato del presidente tunisino più volte in questa settimana: nell’edizione del 5 aprile ha ridicolizzato le richieste dell’opposizione, che denunciava la “scomparsa” di Saied dalla scena pubblica («a quanto pare Saied non ha diritto di ammalarsi o di recarsi in ospedale per fare delle analisi, oppure di concedersi una breve licenza per alleggerire le pressioni che riceve quotidianamente sia dentro che fuori dal Paese»); in quella del 7 aprile ha sostanzialmente appoggiato la scelta del ra’īs di rifiutare le condizioni del Fondo Monetario Internazionale citando fonti e personalità politiche che concordano con la sua scelta, anzi con «la sua posizione di principio a favore delle fasce più povere» della popolazione tunisina.        

 

 

La riconciliazione del regime siriano con l’Arabia Saudita nel nome di un “ordine nuovo”

 

Il processo di normalizzazione del regime siriano, fino a pochi anni fa isolato e screditato da gran parte delle cancellerie arabe e occidentali, prosegue a passo spedito: ad esempio la Tunisia di Saied, come visto nel paragrafo precedente, si sta allontanando dalle esperienze governative post-2011 e si appresta a nominare un nuovo ambasciatore a Damasco dopo dodici anni di sede diplomatica vacante. La Giordania, invece, sta promuovendo una iniziativa diplomatica per ripristinare le relazioni con la Siria e trovare una soluzione pacifica al conflitto; come osserva il quotidiano filo-qatariota e anti-Assad al-‘Arabi al-Jadid, questa proposta rappresenta un «barlume di speranza», anzi «una via d’uscita che sembra un sogno» per il regime siriano. Il giornale rimarca la sua visione con alcune vignette a effetto, come quella di Assad che abbraccia la Lega Araba, sporcandola di sangue. La recente notizia di un’apertura dei sauditi, che a quanto pare inviteranno il presidente siriano al prossimo vertice della Lega previsto a Riyad il 19 maggio, ha indispettito non poco la testata panaraba: «in questi giorni non finiscono mai le notizie sul salvataggio dell’autorità siriana: non appena ci si imbatte in una iniziativa, ne sentiamo subito un’altra: turca, omanita, giordana, saudita, emiratina». Tuttavia, al-‘Arabi osserva – ma, sarebbe più corretto dire, spera – che esistono pur sempre dei limiti a questo processo di normalizzazione, come la mancata intesa tra gli Stati Uniti e la Russia, la guerra in Ucraina e le difficoltà del vertice quadrilaterale tra Russia, Siria, Turchia e Iran. Inoltre, la recente intesa tra Riyad e Teheran non porterà automaticamente alla fine del conflitto, ma dovrà prima confrontarsi su altri temi di frizione, dalla questione dello Yemen alla crisi libica e irachena. Di altro avviso il filo-saudita al-Sharq al-Awsat, che nell’edizione del 6 aprile pubblica un articolo pieno di speranza e fiducia: «le manovre di normalizzazione tra Damasco e Ankara ricevono una forte spinta», tanto che a stretto giro si potrebbe tenere a Mosca un incontro bilaterale siro-turco. Anche la testata emiratina al-‘Ayn al-Ikhbariyya preme per una rapida riconciliazione. Le manovre saudite «devono necessariamente condurre al passo richiesto da tempo: il reintegro della Siria nella Lega Araba» che sarà di grande beneficio per tutto il Medio Oriente e per il Paese levantino, che potrà così iniziare il processo di ricostruzione e di produzione di energia elettrica e gas. Soprattutto, il rientro di Damasco costituirà il «soffio vitale della stessa Lega» all’interno di un «nuovo ordine mondiale».

 

Quest’ultima espressione compare da mesi nei giornali legati a Riyad per denominare il processo di formazione del sistema multipolare e la redistribuzione del potere nello scacchiere mediorientale, di cui l’Arabia Saudita è uno dei principali artefici. Ciò implica anche profondi cambiamenti di tipo sociale, culturale e religioso, e la stampa ha il ruolo di diffonderli in maniera ampia ed efficace. A titolo di esempio riportiamo un articolo pubblicato da al-Sharq al-Awsat il 4 aprile dal titolo «Vision 2030 e la fondazione di un discorso religioso moderato». L’autore, Yusuf al-Dini, nota con soddisfazione di essere testimone di «grandi cambiamenti nell’istituzionalizzazione del campo religioso e della rinascita identitaria. Il progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman è quello di «guidare un regno moderato e liberale, scevro da idee estremiste e […] distruttive» che sono risultato delle «lotte sorte a seguito della rivoluzione iraniana del 1979 e della nascita dell’Islam politico estremista». La ripresa dei valori nazionali e religiosi dei sauditi rappresenterà la base culturale su cui si fonderà l’ambizioso progetto di Vision 2030, i cui effetti sono già visibili tanto negli affari interni quanto in quelli esteri.

 

Per contro, il sito dell’emittente qatariota Al Jazeera si mostra scettico su queste politiche di istituzionalizzazione che sarebbero nient’alto che opere di «ingegneria religiosa», frutto dell’autoritarismo: «molti Paesi arabo-musulmani applicano con successo politiche nei confronti della religione per limitare la competizione politica, scoraggiando la transizione democratica […] l’obiettivo principale dell’istituzionalizzazione e della sistematizzazione della religione da parte di questi regimi autoritari è dare un’immagine dell’Islam che non rappresenti una minaccia per loro».  

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