Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:57:13

È dal 2005 che il Re del Marocco non partecipa alle riunioni della Lega Araba, che ritiene un vuoto esercizio di retorica. All’ultimo vertice tenutosi a Gedda in Arabia Saudita e che ha visto il ritorno della Siria, la sua assenza non è stata tuttavia l’unica degna di nota. Nonostante l’invito ricevuto, infatti, anche Mohammed bin Zayed ha deciso di non prendere parte al summit, ufficialmente a causa di impegni precedenti. Tuttavia, come ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz, è del tutto probabile che dietro all’assenza di MbZ si nascondano le divergenze tra Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Tra queste Zvi Bar’el annovera lo scontro sulle quote petrolifere riservate agli Emirati (che Abu Dhabi vorrebbe vedere innalzate) e le differenti idee su come porre fine alla guerra in Yemen. Inoltre, sottolinea sempre Haaretz, in ambito economico Emirati Arabi ed Arabia Saudita competono sempre più frequentemente per attrarre finanziamenti esteri, turisti, sedi di grandi multinazionali e per l’influenza sui Paesi in via di sviluppo, anche per via dei vasti progetti di riforma che prevedono di diversificare le entrate statali. Progetti necessari anche per far fronte all’emergenza climatica che, come emerge da un nuovo studio di Nature, mette in serio pericolo le popolazioni del Golfo e in particolare quelle di Emirati, Bahrein e Qatar. «Una volta considerato un distaccamento disagevole nel deserto, che attirava talenti provenienti principalmente dalla regione circostante, il Golfo ricco di petrolio sta diventando un magnete per la ricchezza globale, e attrae banchieri europei, manager di hedge-fund americani e fondatori di aziende tecnologiche israeliane, in Paesi con zero imposte sul reddito e una scena gastronomica, sportiva e artistica di tutto rispetto», ha scritto il Wall Street Journal. Seppur questa dinamica coinvolga diversi Paesi dell’area, sono gli Emirati (soprattutto con Dubai) e l’Arabia Saudita ad attrarre il maggior numero di persone e fondi.

 

L’afflusso di uomini è capitali è ulteriormente cresciuto a partire dallo scoppio della guerra in Ucraina. Molti russi hanno lasciato la madrepatria per evitare le sanzioni (o la coscrizione, nel caso di giovani maschi), e hanno scelto proprio Dubai come nuova “casa”. Ciò ha provocato un rialzo degli affitti di più del 25% nel 2022 e il record delle vendite immobiliari, sospinte dall’«influsso di investimenti russi, facilitati dalla presenza di voli commerciali da Mosca e dall’applicazione limitata delle sanzioni». I flussi dalla Russia agli Emirati non coinvolgono soltanto persone e capitali liquidi. Un capitolo a parte riguarda l’oro. Come ha riportato un’indagine esclusiva di Reuters, dal momento dello scoppio della guerra in Ucraina e la conseguente applicazione delle sanzioni alla Russia, Londra, principale destinazione fino a quel momento dell’oro russo, ha smesso di importarlo. Problema risolto in breve tempo: il flusso di oro si è riorientato in gran parte verso gli Emirati, seguiti da Turchia e Cina. Se guardiamo ai dati osserviamo che la quota di importazioni attribuita ad Abu Dhabi è di gran lunga superiore a quella degli altri Paesi: la Federazione emiratina è passata da 1,3 tonnellate di oro importate nel 2021 a 75,7 tonnellate nel 2022, per un valore di 4,3 miliardi di dollari. Cina e Turchia hanno importato circa 20 tonnellate a testa e, insieme agli Emirati, coprono il 99,8% delle esportazioni russe. Come hanno sottolineato gli stessi autori dell’inchiesta, i dati esaminati da Reuters «non suggeriscono la presenza di alcuna violazione delle sanzioni americane».

 

Tornando al vertice della Lega araba con cui abbiamo aperto questa puntata del Focus attualità, Assad è stato ricevuto all’aeroporto di Gedda dal Primo ministro e principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. «Anziché ritenere Assad responsabile per i suoi odiosi crimini, è benvenuto e persino ricompensato», ha denunciato un esule siriano. L’incontro di Gedda ha permesso ad Assad anche di ripresentarsi come una garanzia per la stabilità della regione. Il mantra è più o meno sempre lo stesso: è importante, ha detto il presidente siriano, lasciare la gestione degli affari interni ai singoli Stati, che sono più «abili nel gestirli». Forse intende che sono più efficaci nel reprimere violentemente le proteste…

 

Durante il vertice Assad ha anche attaccato la Turchia e dichiarato che è necessario prestare attenzione «al pericolo del pensiero espansionista ottomano». Assad è stato con ogni probabilità il destinatario dell’accusa lanciata dal presidente ucraino Zelensky, il quale ha partecipato al summit facendo scalo nella città costiera saudita nel corso del suo viaggio verso la riunione dei Paesi del G7. Zelensky ha infatti ricordato che «purtroppo ci sono alcuni nel mondo, e anche tra di voi, che chiudono un occhio […] davanti alle annessioni illegali». Un riferimento nemmeno implicito ai tanti alleati di Putin presenti in sala, primo fra tutti proprio il presidente siriano. E mentre MbS ha auspicato che il ritorno della Siria nella Lega araba porti anche alla soluzione definitiva della crisi siriana, Emile Hokayem (International Institute for Strategic Studies) ha scritto su Foreign Affairs che la sua riabilitazione non farà altro che incoraggiare nuove brutalità, in Siria e altrove.

 

Il punto principale che ha portato i sauditi a spingere per il reintegro della Siria è, come abbiamo già accennato, la necessità di un clima più disteso a livello regionale, che Riyad reputa necessario per i suoi piani di sviluppo domestici. Fa tutto parte di un preciso calcolo di opportunità, ha scritto il ricercatore del RUSI Hisham A. Hellyer. In quest’ottica procedono anche i contatti con Israele per ottenere la normalizzazione tra Tel Aviv e Riyad, incoraggiati dagli americani. Riguardo a questo obiettivo, i segnali sono contrastanti. Tra quelli che fanno pensare che la normalizzazione sia nell’aria c’è proprio il fatto che, nonostante tutto, i colloqui proseguano. Va nella direzione opposta il fatto che Israele «dovrà pagare un prezzo significativo in termini di concessioni ai Palestinesi» se vorrà davvero raggiungere questa svolta diplomatica. È questa l’opinione di un funzionario israeliano anonimo citato da Ben Caspit su al-Monitor. Secondo la ricostruzione di Caspit, Netanyahu e MbS hanno avuto due colloqui telefonici facilitati dal ministro degli Esteri del Bahrein, ma i contatti sono ancora alle fasi iniziali e non ci sarebbero riscontri riguardo un’improvvisa accelerata come poteva sembrare da alcune ricostruzioni.

 

Intanto, dopo cinque anni, i sauditi hanno riallacciato i rapporti diplomatici con il Canada, che erano stati interrotti dopo che il ministro degli esteri canadese aveva espresso via Twitter il proprio sostegno alle attiviste per i diritti delle donne arrestate in Arabia Saudita.

 

Elezioni sulla pelle dei siriani

 

Dopo aver effettuato trattative con entrambi i candidati presidenti, Sinan Oğan ha annunciato il suo sostegno a Erdoğan. Oğan stesso ha messo in chiaro cosa ha guidato la sua decisione: l’aspetto decisivo è stato capire quale candidato avrebbe garantito l’adozione delle cause nazionaliste, tra cui il piano per deportare milioni di rifugiati siriani e il rifiuto di ogni collaborazione con gruppi filo-curdi o islamisti radicali che Oğan considera connessi con il terrorismo. Erdoğan evidentemente risponde meglio a queste necessità. Tuttavia, a differenza di quanto si potrebbe immaginare è improbabile che tutto il suo elettorato (pari al 5,28% al primo turno) possa sostenere l’attuale presidente. Ciò si deve non soltanto alla mancanza di un apparato in grado di mobilitare la base, ma anche al fatto che Ümit Özdağ, leader del Partito della Vittoria (2,2% alle elezioni parlamentari) ha deciso di separarsi dall’alleanza guidata da Oğan e sostenere il candidato Kemal Kılıçdaroğlu. Su che base è stato trovato l’accordo? Manco a dirlo, sul rimpatrio dei siriani che secondo quanto dichiarato da Özdağ dovrebbe avvenire entro un anno. Siamo chiaramente di fronte a un’elezione che si gioca sulla pelle dei siriani.

 

Il tono della campagna di Kılıçdaroğlu è cambiato radicalmente rispetto alla fase conciliante e moderata che ha preceduto il primo turno. Per sperare di vincere, secondo al-Jazeera Kılıçdaroğlu ha dovuto puntare su cinque aspetti. Il primo è l’inasprimento della posizione contro i rifugiati siriani, di cui torneremo a parlare tra poco. Il secondo è rappresentato da un drastico cambio d’immagine rispetto a quella conciliante della prima fase, che lo ritraeva spesso nella sua cucina di casa. Inoltre, il rivale di Erdoğan fa sempre più affidamento sulla figura carismatica del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoğlu per contrastare il carisma di Erdoğan e, quarto punto, per ravvivare lo spirito della base elettorale dell’opposizione. Ultimo, ma non per importanza, secondo l’emittente qatarina l’opposizione dovrà essere più attenta nell’individuare e denunciare rapidamente eventuali brogli.

 

Al centro del dibattito vi è dunque proprio la promessa di rispedire in patria i siriani, fondamentale per garantire a Kılıçdaroğlu il sostegno del Partito della Vittoria. Tuttavia, la posizione assunta dal leader del CHP altro non fa che indicare, una volta di più, le tante differenze presenti all’interno della coalizione. Come ha scritto Middle East Eye, alcuni esponenti dei partiti guidati da Ahmet Davutoğlu e da Ali Babacan, membri del Tavolo dei Sei, hanno reso nota la loro contrarietà alle proposte di estrema destra avanzate in questa fase e si sono dimessi dal partito. Non ci identifichiamo con «un linguaggio che insulta i rifugiati che hanno trovato riparo nel nostro Paese e non hanno altro scopo se non vivere e sopravvivere in sicurezza e pace», hanno affermato alcuni membri del partito Gelecek. Anche nel partito di Babacan non mancano le voci critiche: «l’inviolabilità della dignità umana è sopra tutte le questioni politiche. Non può essere sacrificata in nessuna circostanza», ha detto Mustafa Yeneroğlu, un neoparlamentare eletto nelle fila del partito Deva.

 

Tuttavia, non solo nell’opposizione iniziano a emergere le prime crepe. Secondo un’indagine pubblicata da Ebru Tuncay, Orhan Coskun e Nevzat Devranoğlu su Reuters, all’interno dell’AKP si sono sviluppate posizioni differenti riguardo alla politica economica attuata dal governo finora. In particolare, sembrerebbe che un «gruppo informale composto da membri del partito di governo si sia riunito nelle ultime settimane per discutere come adottare una nuova politica di rialzi graduali dei tassi di interesse», nonostante in campagna elettorale il presidente uscente abbia dichiarato che, finché sarà al potere, i tassi non verranno alzati. Secondo Ben Hubbard, corrispondente del New York Times da Istanbul, la situazione economica turca è ulteriormente peggiorata. Ora, infatti, il problema non è soltanto l’inflazione, che erode il potere d’acquisto dei cittadini. La crescita è infatti messa in pericolo dalle politiche pre-elettorali del governo, caratterizzate da un grande incremento della spesa pubblica sia per stabilizzare il corso della valuta locale che per erogare somme ai propri elettori. La performance «dell’economia relativamente buona dei precedenti mesi è stata il prodotto di politiche insostenibili, quindi con ogni probabilità ci aspetta una contrazione o una recessione», ha affermato Brad W. Setser, esperto in finanza e commercio globale del Council on Foreign Relations.

 

Pakistan: Imran Khan sempre più nei guai

 

In Pakistan i guai per il partito di Imran Khan non sono finiti con il rilascio su cauzione dell’ex campione di cricket. Le autorità di Islamabad stanno infatti valutando se sciogliere il partito Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) dopo che le manifestazioni innescate proprio da Khan sono state caratterizzate da attacchi ad alcuni centri del potere statale pakistano, come caserme ed edifici governativi. Secondo il ministro della Difesa pakistano il PTI ha attaccato «le fondamenta» dello Stato e questo non può essere tollerato. Come ha scritto al-Jazeera, quella in corso è l’ultima fase di uno scontro lungo decenni tra il potere civile e quello militare dello Stato. Tuttavia, mentre la piazza sembra sostenere incondizionatamente Khan, alcuni importanti membri del PTI hanno iniziato a prendere le distanze dall’ex primo ministro. È il caso di una dozzina di funzionari di primo piano, tra cui l’ex ministro e vicepresidente del PTI, Fawad Chaudhry, e l’ex ministro Shireen Mazari.

 

Nell’attesa di capire se veramente le autorità giudiziarie scioglieranno il PTI, ciò che con ogni probabilità causerebbe una nuova ondata di proteste e violenze, Imran Khan è stato aggiunto a una “no-fly list” e non può lasciare il Paese, anche se la notizia non è stata ufficialmente confermata.

 

Intanto, la situazione economica è sempre più grave: tra la fine di maggio e giugno Islamabad dovrà ripagare debiti esteri per un valore di circa 3,7 miliardi di dollari, a fronte di riserve di valuta straniera che secondo il Financial Times ammonterebbero solamente a 4,3 miliardi. Per il quotidiano finanziario la crisi economica sta spingendo il Pakistan sempre più vicino alla Cina che, sperano a Islamabad, potrebbe evitare che il Paese dichiari default.

 

Iran: rimosso Shamkhani

 

Ricordate il caso di Alireza Akbari? Ex viceministro iraniano, è stato giustiziato dalle autorità della Repubblica Islamica con l’accusa di essere in realtà una spia del Regno Unito. I problemi posti dalla presenza di una spia (sempre che realmente lo fosse) a un livello così alto della gerarchia iraniana ha posto problemi che non si risolvono semplicemente con la sua eliminazione. Così, questa settimana a pagare è stato il potente Ali Shamkhani che è stato rimosso dall’incarico di capo del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale dell’Iran. Come ha riportato il New York Times, Shamkhani era vicino ad Akbari e si pensa possa essere proprio lui la fonte delle informazioni che Akbari avrebbe passato all’intelligence di Sua Maestà.

 

Mentre aumentano le tensioni sul programma nucleare iraniano, dopo che un’indagine dell’Associated Press ha rivelato l’esistenza di tunnel a oltre 80 metri di profondità nell’impianto di Natanz, la Repubblica Islamica ha svelato l’ultima versione del suo missile balistico Khorramshahr, che ha una gittata di 2.000 km.

 

 

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