Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 12/04/2024 16:48:11

Dopo l’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco del 1° aprile scorso, la guerra sotterranea tra Iran e Israele continua soprattutto a parole, anche se la situazione, come emerge dalle analisi della stampa internazionale e dagli aggiornamenti dell’ultim’ora, potrebbe mutare rapidamente, con scenari che vanno dallo stallo alla guerra totale in Medio Oriente. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi lo ha detto chiaramente: «si tratta di un crimine che non rimarrà senza risposta». L’Ayatollah Ali Khamenei, nel discorso pronunciato in occasione dell’Eid al-Fitr, lo ha ribadito: «il regime sionista verrà punito». Per tutta risposta, il ministro degli affari esteri israeliano Israel Katz ha pubblicato, con fare provocatorio, un tweet in persiano “taggando” il profilo X dello stesso Ayatollah: «se l’Iran attacca Israele, Israele reagirà e attaccherà l’Iran».

 

Per Atlantic Council l’Iran ha a disposizione quattro strategie di ritorsione. La prima consiste nel colpire in maniera asimmetrica, compiendo attentati contro personale israeliano in qualsiasi parte del mondo. La seconda prevede un’aggressione diretta allo Stato ebraico, ma condotta per procura attraverso Hezbollah. La terza, simile alla precedente, prevede il ricorso agli altri partner dell’Asse della Resistenza, ossia le milizie sciite presenti in Iraq e Siria. Infine, la quarta contempla un’operazione militare nel cuore del territorio israeliano oppure una risposta simmetrica, come l’eliminazione di un esponente di spicco dello Stato ebraico. Ma ciò provocherebbe l’immediata reazione di Tel Aviv, che potrebbe degenerare in una guerra regionale. «Teheran prenderà in considerazione tutte e quattro le opzioni­» aggiunge su The Spectator il direttore delle ricerche del Middle East Forum Jonathan Spyer, anche se l’Iran in passato non è riuscito a rispondere all’assassinio di importanti personalità iraniane e  dell’Asse della Resistenza come Soleimani, Fakhrizadeh e Mughniyeh. «L’incapacità di rispondere, o una risposta troppo limitata, rischia di lasciar passare il messaggio di debolezza». Tra la non risposta e l’aggressione armata è probabile che gli iraniani optino per una terza soluzione, chiedendo ai loro alleati regionali un intervento “per procura”. Spyer, utilizzando un’espressione molto diffusa in Israele, ritiene infatti che Teheran sia pronta a combattere «fino all’ultimo arabo». Dello stesso parere anche Middle East Eye, che ipotizza che l’Iran risponderà «a cascata» attuando una rappresaglia col sostegno del resto dell’Asse della Resistenza. Una “cascata” che, ammonisce Foreign Affairs, «se lasciata incontrollata porterà a una drammatica espansione dell’influenza iraniana, con esiti catastrofici per Israele, la regione e l’economia globale». La dinamica è molto chiara: fin dalla rivoluzione del 1979 l’Iran genera caos in Medio Oriente per rafforzare la sua postura internazionale e costruire una propria sfera egemonica; l’instabilità generatasi dopo il 7 ottobre non fa altro che confermare questo «copione collaudato». Per Gregg Carlstrom, corrispondente dell’Economist dal Medio Oriente, un attacco diretto contro Israele provocherebbe l’immediata ritorsione israeliana: «naturalmente la logica non è sempre deterministica, ma lo scenario più sensato è che l’Iran opti per una reazione indiretta o limitata, un qualcosa di simbolico che soddisfi l’opinione pubblica interna» evitando allo stesso tempo attacchi militari sul suo suolo nazionale. 

 

Molto più sbilanciato il Jerusalem Post, secondo il quale la postura aggressiva di Teheran è soltanto un bluff e i suoi moniti «vuote minacce». I toni della testata ebraica sono sfrontati: «la patina di aggressività mostrata dal governo di Teheran, e soprattutto la sua sete di vendetta contro Israele e Stati Uniti, sembra essere sempre più una facciata che il riflesso di una forza reale. Quest’illusione è stata del tutto smascherata a seguito di una calcolata operazione di intelligence a Damasco attribuita a Israele». Infatti – prosegue l’articolo – il silenzio di Teheran a seguito dell’attacco all’ambasciata «la dice lunga sulla reale capacità di rappresaglia della Repubblica Islamica. A livello interno, il regime dei mullah criminali deve fare i conti con una popolazione disillusa e prostrata da anni di cattiva gestione economica, corruzione e repressione del dissenso». Senza considerare che la «guerra ideologica» ha isolato il regime nello scenario internazionale: «la sua ambiziosa ricerca di “profondità strategica” che avrebbe dovuto estendersi dalla Tailandia al Venezuela è il testamento della sua fallimentare auto-percezione come potenza dominante». Lungi dal simboleggiare la forza del Paese, le «smargiassate» dell’Iran servono piuttosto a coprire le sue enormi debolezze economiche e militari: un fatto, continua il Jerusalem Post, di cui la comunità internazionale deve rendersi conto, in modo da ricalibrare il suo approccio nei confronti della Repubblica Islamica: non basta «contenere» la proiezione egemonica iraniana, occorre anche promuovere una serie di azioni e iniziative che inneschino un cambiamento socioeconomico all’interno del Paese.

 

La tensione rimane comunque alta, come dimostra la visita del comandante dello United States Central Command (CENTCOM) Michael Erik Kurilla, che è arrivato nel Paese per coordinarsi con le IDF in caso di un’eventuale aggressione. Le autorità dello Stato ebraico hanno inoltre adottato alcune misure preventive richiamando i riservisti e interrompendo il segnale GPS a Tel Aviv per proteggere la città da missili e droni. Proprio quest’ultimi stanno giocando un ruolo sempre più cruciale nello scacchiere regionale (e oltre). Come riporta Bloomberg, la produzione iraniana negli ultimi due anni è aumentata in maniera considerevole diffondendosi «in almeno cinque Paesi, dall’America del Sud all’Asia centrale», anche se dopo la guerra russo-ucraina il numero potrebbe essere raddoppiato. «La maestria dell’Iran nel fabbricare droni da guerra poco tecnologici pone nuovi rischi alla stabilità del Medio Oriente […] la diplomazia iraniana dei droni riceve capitali esteri con cui finanziare l’industria bellica, rafforzare le alleanze strategiche e rendere il Paese un formidabile fornitore di armi dotato di un potenziale sufficiente per cambiare la natura dei conflitti nel mondo». L’assemblaggio dei droni è estremamente rudimentale: Teheran, per aggirare le sanzioni, si serve di semplici modellini di aeroplano a cui collega i motori di tagliaerba; gran parte di questi pezzi sono di derivazione americana e vengono acquistati su internet oppure da alcuni rivenditori specializzati. Per quanto rozzi, questi velivoli stanno producendo conseguenze geopolitiche di enorme portata: nel Mar Rosso gli Houthi sono riusciti a dimezzare il traffico commerciale; in Ucraina l’incredibile successo dello Shahed-136 utilizzato dai russi ha spinto gli iraniani a migliorare le caratteristiche del modello; in Siria e in Iraq i dispositivi hanno colpito basi militari americane; infine, in Sudan l’esercito governativo è riuscito ad arrestare l’avanzata delle Forze di Supporto Rapido di Dagalo, invertendo il corso della guerra civile. La produzione in serie degli aeromobili a pilotaggio remoto, prosegue Bloomberg, è iniziata nel 2018, a seguito del ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo sul nucleare (JCPOA) per opera del presidente Trump, che ha di fatto eliminato ogni vincolo allo sviluppo del riarmo iraniano.    

 

La decisione di Trump, come ricorda il Washington Post, ha ovviamente avuto ripercussioni ancora più nefaste per quanto riguarda l’evoluzione del programma nucleare. Il JCPOA è ormai «a pezzi», dato che Teheran sta accumulando rapidamente scorte di uranio arricchito. Gli ispettori internazionali hanno infatti lanciato l’allarme affermando che nel complesso di Fordow – centro di produzione nucleare situato nel grande deserto salato (Dasht-e Kavir) chiuso in base al Piano d’azione congiunto globale (JCPOA) del 2015 – le attività sono riprese in maniera frenetica. Non c’è solo l’arricchimento di uranio, ma anche la produzione di un «carburante nucleare nocivo, una sorta di uranio super-arricchito, appena sotto la soglia» necessaria per poterlo utilizzare per scopi militari, anzi per “deterrenza”, come ripetono i funzionari iraniani. Le finalità del progetto sono evidenti: «Teheran ha ormai tutto ciò che gli serve per costruire una bomba, se lo desidera». Per il giornale statunitense, la riqualificazione di Fordow è il «simbolo del collasso dell’Accordo sul nucleare», diretta conseguenza della controversa decisione di Trump di fuoriuscire dal JCPOA: «i vincoli dell’Accordo sono decaduti, uno ad uno, lasciando che l’Iran arrivasse vicino alla costruzione di ordigni nucleari come mai prima d’ora». Inoltre, la dissoluzione dell’Accordo ha ridotto significativamente l’abilità dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) di monitorare le attività nella Repubblica Islamica. Il JCPOA è formalmente ancora in vigore e riconosciuto dagli altri Stati firmatari (l’Iran, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania e l’Unione Europea), anche se ormai è ridotto a un «guscio vuoto» e la stessa Teheran, dopo il ritiro di Trump, «ha ribadito il suo diritto a cancellare qualsiasi parte dei termini che desidera ignorare». Di certo, più l’Iran si avvicina all’ottenimento della deterrenza nucleare più sarà difficile per i suoi avversari ridurre l’influenza che Teheran esercita nella regione.

 

Decifrare il ritiro da Khan Younis [a cura di Claudio Fontana]

 

Questa settimana si è aperta con la notizia del ritiro della maggior parte delle forze israeliane da Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Sebbene, come ha scritto il Financial Times, il ritiro delle truppe da Khan Younis significhi l’ingresso in una nuova fase della guerra, e pur considerando alcuni piccoli passi avanti dal punto di vista umanitario, non è detto che la situazione sia destinata a migliorare. Il ritiro, confermano fonti israeliane, è puramente tattico e non lascia presagire la fine della guerra. Come vedremo, i negoziati non si sbloccano, le violenze proseguono e l’intenzione israeliana resta quella di procedere su Rafah. Anzi, come ha dichiarato lo stesso ministro della Difesa Yoav Gallant, il ritiro da Khan Younis sarebbe propedeutico proprio all’offensiva sull’ultima roccaforte di Hamas, dove però si trovano anche più di un milione di civili palestinesi. «La guerra a Gaza continua, e siamo lontani dal fermarci. Non lasceremo nessuna brigata di Hamas attiva, in nessuna parte della Striscia di Gaza», ha detto Herzi Halevi, capo di Stato maggiore delle IDF. Ciononostante, il quotidiano israeliano (di destra) Israel Hayom ha scritto che la scelta di ritirarsi da Khan Younis è conseguenza diretta della pressione internazionale subita dallo Stato ebraico, e ha lo scopo di segnalare ad Hamas la disponibilità israeliana in vista di nuovi negoziati. È stato però lo stesso primo ministro Benjamin Netanyahu a indicare cosa aspettarsi in futuro: spinto dagli alleati di destra, che hanno ricordato al leader del Likud che senza offensiva su Rafah la maggioranza di governo non può sopravvivere, Netanyahu ha ribadito che «l’offensiva si farà», ma soprattutto ha fatto sapere che è anche già stata definita una data per l’inizio dell’operazione. A dimostrazione di quanto lo scenario politico interno alla coalizione sia complicato e fluido sono giunte subito dopo le parole di Gallant, che parlando con l’omologo statunitense ha smentito: non è stata decisa alcuna data per l’assalto a Rafah.

 

Oltre a badare ai suoi alleati di governo, Netanyahu deve prestare attenzione alla crescente pressione internazionale. La Turchia, probabilmente anche a causa della sconfitta elettorale dell’AKP di domenica scorsa, ha deciso di ridurre le esportazioni verso Israele. Ma soprattutto è la pressione americana a incrementare: dopo l’uccisione dei cooperanti di World Central Kitchen, Biden ha espresso una posizione più dura, dicendo chiaramente che quello che sta facendo Netanyahu «è un errore. Non condivido il suo approccio». Così, Israele ha fatto sapere che aprirà un numero maggiore di punti di accesso per gli aiuti umanitari, a cominciare da Erez, e consentirà l’uso del porto di Ashdod. Secondo Jan Egeland del Norwegian Refugee Council, si tratta di un punto di svolta, che permetterà agli aiuti di fluire con maggiore facilità all’interno della Striscia. Se da un lato, dunque, c’è un minimo miglioramento della situazione, dall’altro il ritiro degli israeliani da Khan Younis ha permesso ai palestinesi che tornano nella città di accorgersi del livello di devastazione provocato dalla guerra: è come se un meteorite avesse colpito la città, ha detto uno degli sfollati al suo ritorno. Come descritto dal Wall Street Journal, tornare a vivere a Khan Younis è impossibile: a differenza di Rafah, dove ci sono ancora alcuni servizi basilari come acqua ed elettricità (fornita dai pannelli solari), nella città natale di Yahya Sinwar non è rimasto nulla.

 

In questo contesto vanno avanti, con fatica, i colloqui al Cairo. Le informazioni che trapelano sono anche questa volta contraddittorie: i funzionari egiziani hanno fatto sapere che i punti fondamentali per una tregua e lo scambio di ostaggi sono stati definiti, il ministro degli Esteri israeliano ha detto lunedì che i colloqui hanno raggiunto un «punto critico», mentre Hamas ha fatto sapere che non c’è nulla di nuovo, ma al tempo stesso «esaminerà le proposte» ricevute. Un segnale che la pressione internazionale su Israele sta iniziando a dare qualche piccolo frutto è anche il fatto che la squadra di negoziatori israeliani, capeggiata da David Barnea (Mossad), ha ottenuto il più ampio mandato dall’inizio dei colloqui. Contemporaneamente, secondo Michael Horowitz (Le Beck International) gli Stati Uniti stanno esercitando maggiori pressioni anche sui Paesi mediatori affinché questi ultimi la riversino su Hamas. In quest’ottica il ritiro da Khan Younis potrebbe servire proprio per forzare Hamas a fare delle concessioni. È su questo aspetto che si è focalizzata la critica del Jerusalem Post: «tutte le pressioni degli Stati Uniti e della comunità internazionale sembrano essere rivolte a Israele. Perché? Dov’è la pressione internazionale su Hamas, che ha portato questa guerra sul proprio popolo dopo il 7 ottobre?». Il quotidiano ha criticato duramente anche la mossa di Emmanuel Macron, Abdel Fattah al-Sisi e Re Abdullah di Giordania, i quali in settimana hanno pubblicato un editoriale in cui chiedono il cessate il fuoco e il ritorno a una soluzione a due Stati. Perché, anziché scrivere editoriali, Egitto e Giordania non esercitano pressioni su Hamas per accettare un accordo, domanda polemicamente il Jerusalem Post? Oltre alle difficoltà politiche interne a Israele di cui abbiamo già parlato, ci sono diversi fattori che complicano il raggiungimento di un accordo. Tra questi, il fatto che la leadership di Hamas non è ben definita: chi, in ultima analisi, deciderà se accettare o meno i termini di un accordo? La guida politica o quella militare? I negoziati si svolgono con l’ala politica del movimento, guidata da Ismael Haniyeh e proprio il giorno di Eid al-Fitr Israele ha ucciso tre suoi figli. La reazione del capo politico di Hamas non è parsa troppo turbata: «ringrazio Dio per questo onore che ci ha concesso con il martirio dei miei tre figli e di alcuni nipoti». Secondo Jack Khoury (Haaretz) l’uccisione dei figli di Haniyeh non fa altro che innalzare lo status della leadership politica palestinese agli occhi della popolazione. Tuttavia, «nonostante il colpo diretto alla famiglia di Haniyeh, l’operazione non avrà necessariamente un impatto dirompente sui negoziati per un accordo sugli ostaggi tra Hamas e Israele. Se si faranno progressi reali sulle questioni in discussione e Israele mostrerà maggiore flessibilità, o se si raggiungerà un compromesso accettabile per entrambe le parti, Haniyeh e i suoi alleati nella leadership di Hamas non potranno porre il veto a un accordo solo a causa dell’attacco ai suoi figli», ha scritto Khoury. Ciò che però l’uccisione dei figli e dei nipoti di Haniyeh può provocare è un ulteriore rallentamento dei colloqui: serviranno ore, giorni e forse settimane affinché nei dettagli di un accordo vengano inserite anche garanzie per le famiglie della leadership di Hamas. L’ex negoziatore israeliano Gershon Baskin ha insistito proprio sull’aspetto delle tempistiche: anche nel caso di Gilad Shalit gli elementi basilari dell’accordo erano stati fissati in poco tempo, ma poi sono serviti cinque anni per definire i dettagli. «Ciò che prende tempo è la logistica. In questi negoziati non siamo nemmeno arrivati a discuterne», ha affermato Baskin. Potrebbe quindi avere ragione Benny Gantz: «la guerra con Hamas richiederà tempo. Un giorno i giovani [che oggi sono] alle scuole medie combatteranno nella Striscia di Gaza, in Giudea e Samaria, e contro il Libano», ha affermato l’ex ministro della Difesa israeliano.

 

L’affaire Sleiman: il Libano schiacciato tra guerra regionale e conflitti confessionali  [a cura di Mauro Primavera]

 

Un omicidio politico rischia di accrescere l’instabilità in Libano, già minacciato da una possibile operazione militare israeliana nel contesto della guerra di Gaza. Pascal Sleiman – coordinatore nella provincia di Jbeil delle Forze Libanesi (FL), il più importante partito cristiano maronita del Paese – è stato rapito e assassinato a Beirut, prima di essere traportato in Siria. Inizialmente presentato come un crimine comune, l’omicidio – la cui dinamica ricorda quella di Elias Hasrouni, morto in circostanze misteriose lo scorso agosto – ha scatenato l’indignazione e la protesta di una parte della società libanese contro il presunto mandante dell’attentato, cioè il movimento sciita Hezbollah sostenuto da bande siriane. Come ricorda Middle East Eye, durante la guerra civile del 1975-1990, le Forze Libanesi, «alleatesi con Israele quando quest’ultimo invase la zona meridionale del Paese nel 1982»   erano «parte di un più ampio fronte cristiano e di destra che combatteva contro un blocco formato da palestinesi, musulmani e forze laiche di sinistra». Hezbollah, profondamente ostile a Israele, è quindi «ostinatamente opposto alle FL, anche se le due formazioni «si sono scontrate di rado» preferendo condurre «battaglie separate». L’affaire Sleiman rischia quindi di riaprire da una parte lo scontro settario tra musulmani e cristiani e dall’altra quello tra libanesi e migranti siriani, accusati di «sfruttare le poche risorse economiche del Paese». Per scongiurare l’escalation è dovuto intervenire addirittura il patriarca maronita Bechara al-Rai, che celebrerà le esequie di Sleiman. Eppure, nota il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, l’intervento di al-Rai sembra in qualche modo «conferire al caso una dimensione politica che va al di là delle abiette motivazioni addotte dalle autorità».    

 

Nel frattempo, incombe la minaccia di una offensiva dell’esercito israeliano nel Paese. Al Jazeera, intervistando analisti e militari libanesi, sostiene che il temporaneo ritiro delle IDF da Gaza potrebbe far presagire che Israele stia preparando un’operazione militare nel sud del Libano contro Hezbollah. Stando alle fonti, è assai probabile che l’offensiva sarà di tipo aereo: colpire gli obiettivi tramite caccia F-16 e droni è infatti molto meno rischioso che avviare un’invasione terrestre in un territorio che Hezbollah conosce benissimo. Non è tuttavia da escludere qualche limitata incursione dell’esercito fino al fiume Litani (ossia la vecchia “zona cuscinetto” del 1978), ma ad ogni modo non ci sarà nessuna operazione su larga scala.

 

L’ombra di Gaza sull’Eid al-Fitr [a cura di Claudio Fontana]

 

Quello appena trascorso è stato «il più triste» degli Eid al-Fitr, per gli abitanti di Gaza ma non solo. Nonostante gli israeliani abbiano permesso, il giorno prima della festa che segna la fine del mese di Ramadan, l’accesso alla Striscia di Gaza di 468 convogli di aiuti umanitari, per la popolazione locale c’è «poco da celebrare e poco da mangiare». Le affermazioni di Ahmed Qishta, trentatreenne padre di quattro bambini, riassumono la condizione nella quale si trovano le persone nell’enclave: «abbiamo preparato dolci e biscotti con gli aiuti ricevuti dall’ONU e ora li stiamo dando ai bambini. Cerchiamo di essere felici, ma è difficile». Non c’è mai stato «un Eid così: tristezza, paura, distruzione e una guerra logorante», ha detto Ahmed all’AFPI bombardamenti israeliani, infatti, non si sono fermati nemmeno durante questa festività. Secondo le informazioni riportate dal ministero della Salute di Hamas, anche alcuni bambini sono stati uccisi da un raid israeliano che ha provocato 14 morti nel campo profughi di Nuseirat. Moaz Abu Moussa, un abitante di Rafah, ha cercato comunque di esprimere una certa positività: «nonostante la sofferenza e i massacri, mostreremo la nostra felicità in queste circostanze difficili». Secondo al-Jazeera gli abitanti della Striscia di Gaza hanno fatto il possibile per vivere la festa nel modo tradizionale, ma «la realtà di una guerra che ha ucciso più di 33.300 palestinesi, principalmente donne e bambini, non lascia molto spazio per festeggiare». Non è la prima volta che i palestinesi si trovano a celebrare l’Eid al-Fitr in condizioni di guerra, ma come ha osservato Jack Khoury sul quotidiano israeliano Haaretz, «le difficoltà che stanno affrontando questa settimana sono senza precedenti». Tanto che Maryam, una donna rifugiata a Rafah, ha probabilmente espresso il sentimento di molti quando ha detto che per lei «rimanere in vita è il regalo per questo Eid». In queste condizioni, i musulmani palestinesi hanno svolto le preghiere rituali, «di fianco alle rovine dei luoghi dove avevano pregato l’anno scorso», con «i droni militari israeliani che ronzavano sopra le loro teste per incutere un senso di insicurezza». Anche dove pregare è infatti un tema: secondo i dati del Waqf palestinese, citati da Haaretz, circa l’80% delle moschee della Striscia di Gaza non è utilizzabile per la preghiera.

 

Tutti i musulmani sparsi nel mondo, da Berlino a Istanbul, da Giacarta a Nairobi, hanno vissuto l’Eid al-Fitr nel segno di quanto avviene a Gaza, ha scritto l’Associated Press. Negli Stati Uniti, alcuni fedeli hanno rotto il digiuno davanti alla Casa Bianca mentre chiedevano la fine dell’assedio a Gaza: un frutto della decisione dei musulmani americani di utilizzare il mese di Ramadan per puntare i riflettori sulla situazione di Gaza. Secondo l’attivista palestinese-americana Jinan Deena, anche negli Stati Uniti «la gente sente che [questo periodo] è molto più pesante del solito. Sanno che non è il tipico Ramadan». Così, anche le celebrazioni in Paesi dove non c’è la guerra e i beni di prima necessità non mancano, i pasti sono stati più sobri, e «le comunità musulmane hanno attenuato le loro celebrazioni».

 

Dal punto di vista economico, la situazione in Siria non è molto migliore di quella in Palestina. Come descritto su NewLines Magazine dalla giornalista di Damasco Zeina Shahla, «l’analisi economica, unita alle nostre esperienze dirette, indica che quest’anno è davvero il più difficile. Dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per trovare la gioia in questo mese e per sostenerci l’un l’altro, quando e come possiamo». Nove siriani su dieci vivono sotto la soglia di povertà e secondo i dati del quotidiano locale Qasioun citati da Shahla, all’inizio del 2024 il costo medio mensile per il sostentamento per una famiglia siriana di 5 persone si aggira attorno agli 850 dollari, a fronte di un salario medio mensile di 50 (!) dollari. Di conseguenza, l’acquisto di dolci e doni tipici di questo mese è particolarmente difficile.

 

All’esterno della Striscia di Gaza, la solidarietà nei confronti dei palestinesi non è stato l’unico elemento a caratterizzare la festa di fine Ramadan: in Iran, la Guida Suprema Ali Khamenei ha utilizzato il sermone (che ha svolto tenendo una mano su un fucile) per attaccare Israele e gli Stati Uniti per i «crimini» commessi nella Striscia e durante l’attacco israeliano al Consolato iraniano di Damasco. Il discorso di Khamenei è stato interrotto dalla folla che cantava «morte all’America», ha scritto al-Jazeera. Eppure, anche all’interno dell’Iran ci sono dei musulmani che non possono vivere come vorrebbero l’importante festività islamica. A 45 anni dalla fondazione della Repubblica Islamica, infatti, i musulmani sunniti iraniani ancora non dispongono di una moschea a Teheran, ha scritto DW. Secondo l’emittente tedesca la situazione dei sunniti iraniani è ulteriormente peggiorata dopo le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini, perché le autorità iraniane hanno inasprito la repressione nei confronti delle minoranze.

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