Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:02:43

Ancora prima dell’inizio del vertice NATO a Vilnius, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si è preso la scena dando il benestare all’ingresso della Svezia nell’alleanza militare e favorendo il rimpatrio di alcuni militari ucraini appartenenti al battaglione Azov. In cambio, il reis ha ricevuto dall’Occidente significative garanzie: anzitutto la ripresa del processo di ammissione all’Unione Europea, la cancellazione del visto d’ingresso per i cittadini turchi, la revisione degli accordi sull’unione doganale e, infine, la fornitura statunitense di jet caccia F-16. In quella che il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha definito una “giornata storica”, sono molti gli analisti e i giornalisti che hanno interpretato l’annuncio come l’ennesima vittoria di Erdoğan, lodato in patria – e all’estero, seppur con toni meno entusiasti – per le sue abilità diplomatiche e negoziali. In effetti il giornale turco filogovernativo Daily Sabah cita una dichiarazione del reis in cui si riferisce apertamente a una soluzione “win-win” e sottolinea la soddisfazione del capo dello Stato americano Joe Biden, che ha ringraziato Erdoğan per il suo coraggio, la sua leadership e la sua diplomazia. In un altro articolo della testata a firma di Burhanettin Duran, presidente della SETA Foundation e professore dell’Università di Ankara, la decisione di Erdoğan è considerata in linea con il suo progetto geopolitico di rendere la Turchia un attore moderato ed equidistante dall’Occidente e dalla Russia: «la politica del bilanciamento attivo è ben dimostrata dall’esperienza del presidente e dalla sua eccezionale diplomazia “da leader a leader”. Direi che il capo di Stato turco continuerà a sorprendere le cancellerie estere compiendo ulteriori passi avanti».

 

Il New York Times, invece, si interroga sulle reali tempistiche dell’ammissione di Stoccolma. «Erdogan dice sì, ma senza fretta», sostenendo che una decisione del genere necessita del voto del parlamento per essere valida. L’assemblea turca – stando a quanto affermato dal reis – al momento è in vacanza e non si riunirà prima di ottobre. Eppure, nota il giornale, le attività parlamentari continueranno fino al 27 luglio. Un’ambiguità che lascia presagire come il percorso non sarà celere: a pesare, secondo il quotidiano, potrebbe essere l’atteggiamento della Svezia nei confronti dei rifugiati politici del PKK e di alcune personalità risiedenti nel Paese scandinavo che presero parte al fallito golpe del 2016 (di cui ricorre in questi giorni il sesto anniversario). Inoltre, Ankara esigerà da Stoccolma una più forte presa di posizione nel condannare le manifestazioni d’odio nei confronti dell’Islam, come avvenuto di recente con il rogo del Corano. L’analista turca Asli Aydintasbas commenta sul Washington Post, con una punta di sorpresa, il coup de théâtre del presidente turco: «di solito i Summit della Nato iniziano col dramma e si concludono con un’allegra foto di famiglia. Questa volta il dramma è finito ancora prima che iniziasse il summit». Questo perché, spiega Aydintasbas, Washington e Ankara hanno bisogno l’una dell’altra: la prima non può permettersi di restare a “distanza di sicurezza” da un Paese importante come la Turchia, nonostante le accuse di autoritarismo; la seconda ha bisogno dei caccia americani per ammodernare la sua obsoleta flotta aerea. Per Amberin Zaman, corrispondente di al-Monitor, il dramma non è finito, anzi è solo all’inizio: la “vacanza” del parlamento è un finto problema, in quanto la decisione di aprire o di chiudere le sedute parlamentari è prerogativa dello stesso presidente della repubblica, che, grazie a questo escamotage, continua a esercitare pressione sui suoi “alleati” occidentali. Anche il quotidiano francese Le Monde giudica la mossa di Erdoğan ben studiata e opportunamente connessa ad altri dossier, un tatticismo parte di un progetto politico più ampio: «con abilità, Erdogan ha deciso in questi ultimi giorni l’andamento delle grandi manovre diplomatiche in corso. Ha messo insieme gesti simbolici e messaggi politici, rispondendo così alle necessità del momento, per un Paese peraltro molto indebolito a livello economico: sostegno all’ingresso dell’Ucraina nella NATO, liberazione di cinque comandanti militari ucraini, impegno a mantenere l’accordo sull’esportazione di cereali attraverso il Mar Nero, rimessa in discussione da Mosca, e infine la manifestazione del desiderio di rilanciare i negoziati con l'UE». 

 

Golfo: vecchie e nuove tensioni dietro alla ritrovata concordia [a cura di Michele Brignone]

 

Nell’ultimo biennio si sono moltiplicati i gesti di riconciliazione tra i Paesi del Golfo, dopo anni segnati da tensioni e ostilità. Un report dell’International Crisis Group, tuttavia, avverte che dietro la ritrovata concordia, puntualmente esibita durante gli incontri pubblici, rimane una certa ruggine e si profilano nuove rivalità. La disputa tra il quartetto composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto da una parte e Qatar dall’altra non è del tutto superata. Se sono nettamente migliorate le relazioni tra Riyad e Doha e tra il Cairo e Doha, lo stesso non si può dire per i rapporti tra Qatar da un lato ed Emirati e Bahrein dall’altro.

 

Inoltre, in seguito agli accordi di Al-Ula che nel 2021 hanno formalmente messo fino all’isolamento del Qatar, le posizioni di Arabia Saudita ed Emirati hanno iniziato a divergere su diversi dossier. I due Paesi «hanno esplicitato le proprie differenze circa la guerra in Yemen», mentre è aumentata la loro competizione economica. I sauditi puntano infatti «a scalzare gli Emirati come destinazione privilegiata di turismo e investimenti esteri nel Golfo». Anche la politica energetica contribuisce alla rivalità. Negli ultimi due anni, Abu Dhabi ha più volte espresso il suo desiderio di accrescere la produzione di petrolio, ma ha dovuto accettare la decisione dell’OPEC+ a guida saudita di procedere a ulteriori tagli. Sia Emirati e Arabia Saudita puntano inoltre a consolidare la propria influenza nel bacino del Mar Rosso. La conclusione dell’autrice del report, Anna Jacobs, è che l’isolamento del Qatar «può essere finito, e gli Stati arabi del Golfo possono aver fatto progressi nel superare, o almeno insabbiare, le differenze che l’hanno innescato. Ma rimangono vecchie crepe, mentre ne stanno emergendo di nuove. Se non saranno affrontate […], le rivalità potrebbero manifestarsi presto nella forma di nuove fratture e conflitti nel Golfo e al di fuori di esso».

 

Anche Foreign Policy evidenzia le crescenti tensioni tra Riyad e Abu Dhabi, concentrandosi sulla loro rivalità in Sudan. Il conflitto scoppiato in questo Paese tra l’esercito nazionale guidato dal generale Burhan e le Forze di Supporto Rapido (RSF secondo l’acronimo inglese) di Hemeti «non è una controversia solamente interna». Il Sudan è infatti «un ponte che collega il Medio Oriente e l’Africa e le sue abbondanti risorse naturali significano che la battaglia per Khartoum ha assunto una dimensione regionale. I pesi massimi del Golfo, Arabia Saudita e Emirati arabi Uniti vedono nella guerra un’opportunità per cementare la loro egemonia in Medio Oriente». E mentre «l’Arabia Saudita ha cooperato con l’Egitto per sostenere Burhan, gli Emirati Arabi Uniti hanno cooperato con la Russia per appoggiare le RSF attraverso il gruppo paramilitare Wagner». Abu Dhabi, continua l’articolo «ha mantenuto il silenzio sulla sua alleanza con le RSF. Ma alcuni report suggeriscono che Hemeti abbia agito come custode degli interessi emiratini in Sudan, sorvegliando le miniere controllate dal gruppo Wagner; l’oro di queste miniere è poi spedito negli Emirati, dove prosegue verso la Russia. La relazione triangolare tra gli Emirati, le RSF e la Russia attraverso il gruppo Wagner è stata rafforzata dall’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022, quando Mosca è diventata maggiormente dipendente dall’oro e da altre risorse finanziarie per mitigare l’impatto delle sanzioni occidentali».

 

Intanto rimangono freddi anche i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita. The Cradle, testata digitale dedicata alla geopolitica del Medio Oriente, riporta attraverso fonti diplomatiche il contenuto dell’incontro tenutosi il mese scorso tra il principe ereditario saudita Muhammad Bin Salman e il Segretario di Stato americano Antony Blinken. MBS avrebbe ribadito il proprio rifiuto di normalizzare le relazioni con Israele, un passo fortemente auspicato dall’amministrazione Biden, sulla base di tre ragioni: primo, il re Salman è contrario a questo tipo di accordo; secondo, nessuna normalizzazione sarà possibile finché non si troverà una soluzione per i palestinesi; terzo, al momento non è chiaro quali sarebbero le contropartite per i sauditi. Nel corso dell’incontro sarebbero emerse anche forti divergenze sulla Siria. I sauditi sono intenzionati a perseguire i propri interessi sostenendo al-Assad nella ricostruzione. Gli Stati Uniti ritengono invece che la riabilitazione del presidente siriano contribuirà solo a rafforzare la posizione russa e iraniana nell’area.

 

A confermare la distanza tra Riyad e Washington è arrivata la notizia relativa al record di esportazioni di petrolio russo in Arabia Saudita, decuplicate nell’ultimo anno, come riferisce Reuters. Ma i sauditi sono molto attivi anche in altri ambiti. Il New York Times ha pubblicato ieri un’approfondita inchiesta sul boom degli investimenti sportivi sauditi, soprattutto nel calcio, in seguito all’annuncio che il fondo sovrano dell’Arabia Saudita avrebbe assunto il controllo diretto delle quattro squadre più importanti del Paese, mettendo a loro disposizione centinaia di milioni di dollari per acquistare grandi stelle internazionali.

 

In breve

 

Mercoledì il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione proposta dal Pakistan e finalizzata a proteggere i testi sacri (il Corano, la Bibbia e la Torah) in seguito al rogo del Corano avvenuto in Svezia il 28 giugno scorso. Il testo è stato approvato con 28 voti favorevoli, 12 contrari e 7 astensioni. La Francia, la Germania, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno votato contro la risoluzione, vedendovi un attacco alla libertà di espressione (La Croix).

 

Dall’inizio di luglio, le autorità tunisine sono impegnate in una feroce campagna contro gli immigrati subsahariani, arrivando addirittura a deportarli nel deserto al confine con la Libia. OrientXXI dedica un approfondimento a questa politica repressiva, che mira soprattutto a nascondere la sempre più cospicua migrazione maghrebina verso le coste europee. A livello numerico, infatti, la migrazione irregolare dalla Tunisia, dal Marocco e dall’Algeria verso l’Europa supera di gran lunga quella proveniente dall’Africa subsahariana, i cui numeri vengono volutamente sovrastimati dai regimi dei Paesi del Maghreb per nascondere quella dei loro cittadini e ciò che questo fenomeno dice del fallimento della loro politica, incapace di risolvere la crisi economica.

 

Continuano le tensioni lungo il confine tra Israele e Libano. Nei giorni scorsi tre membri di Hezbollah sono morti in un’esplosione nella zona. Come riporta Al-Monitor, il leader del movimento sciita libanese ha affermato che la sua organizzazione è «pronta a difendersi dagli attacchi israeliani».

 

Tags