Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:58:28

Gli eventi occorsi negli ultimi due anni spingono sempre più nella direzione di una significativa trasformazione del Medio Oriente, anche se non sono ancora del tutto chiari gli assetti geopolitici che si affermeranno nella regione. In modo un po’ disparato e da punti di vista diversi, numerosi articoli apparsi questa settimana sulla stampa internazionale trattano questo tema.

 

Una riflessione di Alon Pinkas su Haaretz ha il pregio di far ordine tra i pezzi del nuovo puzzle  geopolitico mediorientale. Il diplomatico israeliano esordisce affermando che «in Medio Oriente non sta accadendo nulla di drammatico, ma seguendo la geopolitica si ha l’impressione che la regione si trovi a un punto di svolta». Tale svolta è il risultato di sviluppi diversi, ma convergenti: gli Stati Uniti sembrano pronti a rinnovare gli sforzi per un parziale accordo nucleare con l’Iran dopo gli allarmi sui livelli di arricchimento dell’uranio raggiunti da Teheran; il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran mediato dalla Cina procede e intanto l’Iran ha migliorato le proprie relazioni anche con gli Emirati, la Turchia e l’Egitto; è riemerso il «tema sempreverde del passaggio di livello dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele, o addirittura di una normalizzazione», sganciati però dalla questione palestinese e collegati invece a «una lista della spesa saudita»; gli Emirati si stanno visibilmente allontanando dagli Stati Uniti, mentre il comandante della marina iraniana ha addirittura annunciato che il suo Paese sta formando un’alleanza militare che include l’Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar, il Bahrein e nientepopodimeno che India e Pakistan. Se la dichiarazione è stravagante, non lo è la sua tempistica, nota Pinkas. Essa coincide infatti con l’annuncio da parte degli Abu Dhabi che gli Emirati non parteciperanno più alla Combined Maritime Force, il progetto anti-terrorismo e anti-pirateria con sede in Bahrein. La tentazione, prosegue il diplomatico, è quella di «collegare tutti questi puntini e questa raffica di affermazioni» per constatare che siamo di fronte alla «nascente ristrutturazione dell’architettura diplomatica e di sicurezza della regione», e che questa «annuncia un Medio Oriente post-americano». L’osservazione, tuttavia, è «probabilmente prematura» visto che gli Stati Uniti stanno cercando di ricucire in qualche modo con i loro partner di un tempo. Conclusione: «L’enfasi dell’amministrazione Biden sulle alleanze e sulle coalizioni potrebbe richiedere che gli Stati Uniti cerchino di ristabilire una presenza nella regione. La Cina potrebbe sostituire l’America, ma gli americani non vogliono vedere una regione tumultuosa che guarda verso Pechino».

 

A proposito di ricuciture, questa settimana il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha incontrato in Arabia Saudita il principe ereditario Muhammad Bin Salman. La sua visita si aggiunge alla lista d’incontri ad alto livello avvenuti negli ultimi mesi tra americani e sauditi. Pochi giorni prima del viaggio, MBS ha annunciato che il suo Paese avrebbe ulteriormente ridotto la produzione di petrolio, una decisione non esattamente gradita agli americani. Il giorno successivo all’incontro tra il Segretario di Stato e il principe, invece, è filtrata l’indiscrezione secondo la quale nell’autunno scorso Biden avrebbe prefigurato «conseguenze» nel caso in cui i sauditi avessero proceduto con tagli alla produzione di petrolio. Come scrive il Washington Post, «in pubblico, il governo saudita difese le sue azioni educatamente attraverso dichiarazioni diplomatiche. Ma in privato, l’erede al trono Muhammad Bin Salman ha sostanzialmente minacciato di alterare la decennale relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita e d’imporre significativi costi economici agli Stati Uniti se questi avessero messo in atto ritorsioni contro i tagli al petrolio». Nei mesi successivi non è poi successo nulla, ma queste parole testimoniano della tensione che ormai caratterizza i rapporti tra i supposti alleati.

 

Anche il reporter di lungo corso Thomas Friedman riflette sull’evoluzione del Medio Oriente. Lo fa traendo spunto da un suo recente viaggio nella regione. Una volta sarebbe stato inimmaginabile, esordisce il giornalista americano in un reportage pubblicato sul New York Times e corredato di un ricco apparato iconografico, compiere un viaggio aereo da Doha e Tel Aviv passando per Dubai. La misura del cambiamento è data secondo Friedman dalla trasformazione in corso in Israele e Arabia Saudita, i due più importanti alleati americani in Medio Oriente, entrambi impegnati in «fondamentali battaglie interne intorno alla loro identità». Sulla base di quello che ha visto nei due Paesi, Friedman raccomanda – un po’ paternalisticamente – quanto segue: «Biden dovrebbe invitare il primo ministro Benjamin Netanyahu nella Stanza Ovale, come si è fatto con tutti i precedenti primi ministri, ma a patto che risponda a due domande: primo, stai occupando la Cisgiordania e t’impegni a risolvere il suo statuto permanente attraverso negoziati con i palestinesi o ritieni che l’attuale controllo israeliano dei palestinesi sia una condizione permanente destinata a non cambiare? Dobbiamo saperlo una volta per tutte. Secondo, t’impegni a garantire che qualsiasi grande cambiamento del sistema giudiziario israeliano sarà attuato con un vasto consenso pubblico, in modo da assicurare la stabilità politica? Gli Stati Uniti hanno infatti un enorme interesse a che il suo più importante alleato militare nella regione non precipiti nella guerra civile a causa di cambiamenti al sistema giudiziario. Per 75 anni Israele è stato un partner strategico vitale e fidato degli Stati Uniti, ma sempre sulla base d’interessi e valori condivisi. Se questi valori non sono più condivisi dobbiamo saperlo. Dobbiamo sostenere gli israeliani che vogliono preservare Israele come democrazia e chiudere le porte della Casa Bianca a chiunque voglia il contrario. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, in un tempo in cui la compagnia petrolifera Aramco concorre con Apple e Microsoft come società di maggior valore al mondo, in cui il gran numero di giovani del Paese sta arrivando all’età adulta e Riyad ha sostituito il Cairo come la principale potenza del Mondo Arabo, dobbiamo relazionarci regolarmente con i leader sauditi per garantire che Riyad eserciti il potere responsabilmente e incoraggiare le persone e i dirigenti che stanno cercando di rendere l’Arabia Saudita più religiosamente moderata, più rispettosa verso le donne, più tollerante verso tutte le fedi, più economicamente diversificata e più conciliante verso le opinioni diverse. L’Arabia Saudita è anche la sede delle città più sacre dell’Islam, la Mecca e Medina, e il modo in cui si modernizzerà e diventerà più plurale influenzerà le moschee e le comunità musulmane di tutto il mondo».

 

Su The Atlantic è andato invece in scena l’ennesimo requiem per la Primavera Araba, a firma di Kim Ghattas, con tanto di recriminazioni sul modo in cui l’Occidente (non) ha gestito la transizione post-rivoluzionaria, ma anche con un auspicio finale: «le domande della Primavera Araba non sono un fatto di passaggio. Milioni di giovani in tutto il Medio Oriente hanno ancora un desiderio di giustizia, dignità, Stato di diritto, buon governo e lavoro. […] Nessuno vuole un ritorno all’altisonante agenda per la libertà dell’amministrazione George W. Bush, ma l’amministrazione Biden dovrebbe ripensare al modo in cui il Medio Oriente rientra nella più ampia lotta per contrastare l’autoritarismo. Al momento, il nuovo ordine autocratico mediorientale può sembrare conveniente per gli Stati Uniti, ma il silenzio delle persone è solo temporaneo».

 

 

Segnali di cambiamento in Turchia. Forse [a cura di Michele Brignone]

 

Incassato il suo terzo mandato presidenziale, Recep Tayyep Erdoğan ha varato un nuovo governo. La composizione della squadra di ministri annuncia un parziale cambio di rotta rispetto al passato. Le novità più significative riguardano il ministero dell’Economia e quello degli Interni. Nel primo si è insediato Mehmet Şimşek, che aveva già ricoperto quest’incarico tra il 2009 e il 2015. Come ha scritto Reuters, la scelta segnala un’inversione a U rispetto alle ricette economiche eterodosse degli ultimi anni. A Şimşek è affidato il compito di rimettere in sesto l’economia turca, azzoppata dall’inflazione e dalla forte svalutazione della valuta nazionale indotte dalle erdoganomics. La CNN rileva tuttavia che la strada del nuovo ministro è in salita: resta infatti da capire fino a che punto il presidente rinuncerà alla sua predilezione per i bassi tassi d’interesse. Şimşek ha già annunciato il ritorno a politiche più «razionali» e promesso trasparenza, responsabilità, rispetto delle norme internazionali e prevedibilità, tutte parole che puntano a rassicurare gli investitori. Per il momento, però, i mercati rimangono prudenti e aspettano i fatti. Il 7 giugno, la lira ha toccato un nuovo minimo rispetto al dollaro, stabilizzandosi nella giornata successiva. Al ritorno di Şimşek si è aggiunto l’ennesimo avvicendamento alla Banca Centrale, che sarà guidata per la prima volta da una donna, Hafize Gaye Erkan. Anche lei sembra avere il compito di gestire il nuovo corso, o almeno di proiettare un’immagine diversa della politica economica turca. Esperta di gestione del rischio e titolare di un dottorato in Ingegneria finanziaria ottenuto a Princeton, la quarantaquattrenne turco-americana ha occupato posizioni di vertice alla Goldman Sachs prima di trascorrere otto anni a capo della First Republic, una banca di San Francisco acquisita il mese scorso da JP Morgan dopo essere stata coinvolta nella crisi delle banche regionali degli Stati Uniti.

 

Al ministero degli Interni è arrivato invece il funzionario di lungo corso ed ex-governatore di Istanbul Ali Yerlikaya. È ancora la CNN a prevedere che quest’ultimo difficilmente replicherà il linguaggio sguaiato del suo predecessore Suleyman Soylu, noto per le sue esternazioni antioccidentali. Soylu, come altri ex-ministri, continuerà tuttavia a far sentire la sua voce da parlamentare.

 

Continuità invece in politica estera, ma con un nuovo interprete, e di peso. La scelta è caduta su Hakan Fidan che come abile e rispettato capo dell’Intelligence ha contribuito in prima persona a rilanciare il protagonismo turco sulla scena internazionale. Gli succede alla guida dei servizi Ibrahim Kalın, in precedenza consigliere e portavoce di Erdoğan, ma non solo. Il nuovo capo dell’intelligence di Ankara è infatti uno studioso di filosofia islamica, nel 2007 è stato uno dei 138 firmatari del documento “A Common Word Between Us and You”, l’iniziativa di dialogo nata in seguito alla controversa lezione di Ratisbona di Papa Benedetto XVI, ed è membro del Prince Alwaleed bin Talal Center for Muslim-Christian Understanding della Georgetown University.

 

In generale la sensazione è quella di un abbandono dei toni esasperati e delle politiche non convenzionali da parte di Erdoğan, con un possibile ritorno al riformismo dei primi anni 2000, senza tuttavia rinunciare sogni di grandezza. Il presidente ha subito dichiarato che l’obiettivo è «costruire il nuovo secolo turco».

 

Dopo l’insediamento del nuovo governo un tribunale ha inaspettatamente rovesciato la sentenza di condanna di quattro attivisti per i diritti umani accusati di cospirazione ai danni dello Stato. Amberin Zaman nota su Al-Monitor che «la mossa è stata vista come una potenziale inversione a U rispetto all’ostinato rifiuto da parte del governo di attenersi alle sentenze della Corte Europei dei Diritti dell’Uomo». È presto però per capire se siamo effettivamente sulla soglia di una nuova stagione o ci troviamo alla fiera delle apparenze. Zaman indica alcuni criteri per capire quanto reale sarà la rottura con il passato: «il test più immediato per vedere se Erdoğan ha davvero cambiato le sue posizioni è l’eventuale liberazione di Kavala, Demirtaş e tanti altri prigionieri di coscienza, e la caduta delle accuse contro Ekrem Imamoğlu, il sindaco di Istanbul e membro dell’opposizione che potrebbe aver battuto Erdoğan se gli fosse stato concesso di gareggiare». Proprio Imamoğlu intanto ha sollevato la questione del cambiamento che s’impone anche all’interno del principale partito di opposizione, il CHP. Ne scrive Middle East Eye, che tuttavia segnala come «Kilicdaroğlu non abbia dato segni di voler fare un passo indietro».

 

Un altro tema incombe sul terzo mandato di Erdoğan: la sua successione. Il brillante studioso di cultura politica e analista di questioni turche Selim Koru scrive per il Foreign Policy Reaserch Institute di Philadelphia che, «avendo 69 anni e apparendo ogni anno più letargico», difficilmente il reis potrà governare oltre il 2028. Koru prefigura due scenari: nel primo l’uscita di scena di Erdoğan coincide con il ritorno della Turchia all’alternanza tra due blocchi politici; nel secondo, tutt’altro che inverosimile, la “Nuova Turchia” costruita negli ultimi vent’anni sopravvive al suo fondatore, soprattutto se questi riuscirà a trovare un candidato forte alla successione.

 

 

Terrore ad Annecy [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Ieri in un parco sulle rive del lago di Annecy, in Francia, un uomo di origini siriane ha ferito gravemente con un coltello quattro bambini e due adulti. L’autore dell’attacco – al momento di questo si tratta dal punto di vista giuridico secondo Le Parisien, e non di un attentato – è un rifugiato siriano cristiano, giunto in Svezia dieci anni fa fuggendo dalla guerra in Siria, e arrivato lo scorso ottobre in Francia, dove ha fatto richiesta di asilo (che si è vista rifiutata il 4 giugno). Al momento non sono chiare le motivazioni del brutale gesto. Le Monde parla di un momento di follia, del dramma dell’esilio, di crisi familiare, o di una deriva personale, pur lasciando aperta anche la pista terroristica. Mentre colpiva le vittime l’assalitore ha urlato due volte in inglese «in nome di Gesù Cristo». 

 

Nelle ultime ore la vicenda ha assunto una connotazione anche politica, con la destra e l’estrema destra francese a chiedere l’inasprimento delle condizioni di accoglienza in Francia. Le Monde fa notare l’estrema rapidità della risposta politica, a differenza di quanto accadde 11 anni fa, in piena campagna presidenziale, in seguito agli attentati islamisti commessi da Mohammed Merah a Tolosa e Moutauban. All’epoca i candidati alla presidenza rispettarono un silenzio politico di 48 ore, mentre ieri «l’occasione era troppo ghiotta» per far attendere oltre le reazioni. E infatti questa mattina, invitata a radio Europe1, Marine Le Pen ha esortato la Francia a riappropriarsi della propria sovranità in materia di immigrazione per non doversi più sottomettere alle regole «inadeguate» dell’Unione Europea.

 

 

Israele vuole dividere la moschea di al-Aqsa [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Nello Stato di Israele la situazione si fa di giorno in giorno più tesa. L’ultimo atto di un’escalation ormai costante è la dichiarazione resa pochi giorni fa al quotidiano Zeman Israel da Amit Halevi, membro del partito Likud e della Knesset israeliana, che ha parlato del piano per suddividere la moschea di al-Aqsa in due parti. Come ha riportato Middle East Eye, il 30% della sezione meridionale del complesso andrebbe ai musulmani, mentre la restante parte agli ebrei, compresa l’area in cui si trova la Cupola della Roccia. Nella sua intervista Halevi ha inoltre lasciato intendere che la Giordania potrebbe vedersi revocata l’amministrazione della moschea. Da diverso tempo inoltre è in atto il tentativo di modificare le procedure di accesso alla spianata per gli ebrei, per consentire loro di entrare attraverso tutte le porte, anziché soltanto da quella a loro riservata. Una richiesta alla quale i palestinesi si sono sempre opposti, vedendovi l’ennesimo segnale del tentativo israeliano di assumere il pieno controllo della moschea.

 

Negli ultimi mesi inoltre è diventato sempre più evidente il tentativo di Israele di annettere la Cisgiordania. Si tratta di una tendenza che va avanti avanti dal 1967, hanno scritto Dahlia Scheindlin e Yael Berda su Foreign Affairs, ma negli ultimi mesi il processo ha subito un’accelerazione. Lo scorso novembre il governo ultranazionalista di Netanyahu ha emendato la Legge Fondamentale per permettere la nomina di un nuovo ministro speciale nell’ambito del Ministero della Difesa. Nel febbraio 2023 sono state definite le prerogative di questa nuova figura, che assumerà il controllo civile della Cisgiordania, fino a questo momento di competenza esclusiva delle Forze di difesa israeliane. Il ministro civile controllerà l’assegnazione dei terreni, l’energia e le frequenze di comunicazione, deciderà chi può costruire case, scuole e strutture pubbliche: una formula che consente di espandere gli insediamenti ebraici a scapito della presenza palestinese. Un cambiamento amministrativo che equivale all’annessione de jure della Cisgiordania. Intanto alcuni giorni fa un bambino palestinese di due anni è morto dopo che soldati israeliani gli hanno sparato alla testa.

 

 

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