Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:04:45

A cura di Claudio Fontana

 

Questa volta l’Iran ha vinto (2-0 contro il Galles) e i giocatori hanno cantato l’inno nazionale, dopo che in conferenza stampa il capitano aveva espresso la sua solidarietà con i manifestanti. Nonostante la sicurezza abbia impedito ai tifosi iraniani presenti in Qatar di portare sugli spalti gran parte dei simboli pro-rivolta, come le bandiere dell’Iran dello scià, tra i tifosi si è potuta osservare una ragazza con una maglietta di calcio con il nome Mahsa Amini e il numero 22 (gli anni della ragazza uccisa il 16 settembre). I calciatori del Team Melli che durante la prima partita del girone non hanno cantato l’inno si uniscono alle personalità famose iraniane come attori, musicisti, registi e giornalisti che hanno iniziato a criticare apertamente la repressione del regime. Figure il cui numero è, secondo il New York Times, in grande crescita.

 

Forse anche spinti da queste adesioni, i manifestanti continuano a occupare le strade, mentre la repressione violenta da parte del regime prosegue imperterrita. Nel Kurdistan iraniano, in particolare, le autorità della Repubblica Islamica hanno ammesso di utilizzare anche armamenti pesanti per attaccare quelli che, secondo loro, sono «terroristi». Secondo quanto riportato da Nilo Tabrizy e Ishaan Jhaveri, diverse testimonianze affermano che le forze di sicurezza iraniane avrebbero usato persino delle ambulanze come camionette della polizia, caricando sui mezzi di soccorso i manifestanti per farli poi sparire. Tutto questo non sta impedendo a chi scende in piazza di far sentire ogni giorno la propria voce. La settimana scorsa le proteste, ormai diffuse a tutto il Paese e a strati eterogenei della popolazione, hanno preso nuovo slancio. Tuttavia, nota il Financial Times, non si sono ancora verificati scioperi significativi. Alcuni bazaari hanno chiuso i propri negozi per qualche giorno ma, sebbene sia diffusa la simpatia nei confronti delle proteste, non pochi iraniani «guardano a Siria e Afghanistan e si preoccupano che l’Iran possa essere inghiottito dal caos» come avvenuto per Damasco e Kabul. In particolare «i lavoratori nei settori di petrolio, gas e petrolchimico non hanno ancora scioperato». Dato che «più di 200.000 persone lavorano soltanto nel settore petrolifero», si capisce che uno sciopero in questo ambito avrebbe effetti davvero significativi per il futuro del Paese. Per impedire che ciò avvenga lo Stato iraniano ha alzato del 20% la retribuzione dei dipendenti pubblici, dei soldati (e persino dei pensionati) per la seconda parte dell’anno persiano che termina in marzo. Le organizzazioni caritatevoli affiliate allo Stato rivoluzionario hanno invece incrementato del 30% le somme che mensilmente forniscono alle famiglie povere, mentre l’aumento fissato per i veterani della guerra Iran-Iraq è stabilito intorno al 25%.

 

Tuttavia, mentre  da un lato reprime con la violenza, dall’altro, tramite Ali Shamkhani (capo del consiglio supremo di sicurezza della nazione) il regime si sarebbe rivolto agli esponenti delle famiglie Rafsanjani e Khomeini, considerate elementi moderati del sistema, chiedendo loro di intercedere presso i manifestanti per calmare le proteste. La promessa di Shamkhani sarebbe stata quella di riforme in senso liberale una volta fermate le proteste. Gli eredi di Rafsanjani e Khomeini, entrambi “padri fondatori” della Repubblica Islamica, si sono però rifiutati di accogliere la richiesta. Hassan Khomeini, nipote di Ruhollah, ha al contrario diramato un comunicato in cui afferma che «il modo più ragionevole di governare una nazione è la democrazia maggioritaria». Come ha scritto il Wall Street Journal, il fatto di aver neutralizzato l’azione politica di moderati e riformisti si sta rivelando un boomerang per il regime: un tempo questi attori politici avrebbero potuto rappresentare una risposta alle richieste dei manifestanti, una valvola di sfogo. Ma ora non è più così: resta solo lo scontro.

 

 

Qatar ancora sotto accusa, Arabia Saudita in estasi

A cura di Michele Brignone

 

Non è bastato l’inizio dei mondiali di calcio a silenziare le polemiche sul Paese ospitante della manifestazione, il Qatar, accusato di violazioni dei diritti umani. Vivian Nereim, corrispondente del New York Times dal Golfo, registra allo stesso tempo i problemi che effettivamente caratterizzano l’Emirato e la frustrazione di quest’ultimo per l’accanimento mediatico nei suoi confronti: «I qatarioti denunciano i due pesi e le due misure. Perché, chiedono, gli europei comprano il gas naturale dal Qatar se il Paese è talmente ripugnante da impedire loro di guardare il calcio che vi si gioca? Perché qualcuna delle figure internazionali che hanno denunciato il Qatar non fanno lo stesso con gli Emirati arabi?»

 

Anche una lettera di Lorenzo Kamel al Financial Times invita a mettere le cose in prospettiva e insiste sull’ipocrisia dell’atteggiamento riservato al piccolo Stato arabo. Per esempio, scrive Kamel, «varrebbe la pena sottolineare che il sistema di sponsorizzazione noto come kafala – che in Qatar e in altri Paesi arabi permette lo sfruttamento di lavoratori migranti vincolandoli ai propri datori di lavoro – è stato originariamente introdotto nel Golfo durante l’epoca coloniale britannica per sorvegliare il lavoro dei migranti nell’industria delle perle e del petrolio. Il testo continua rilevando che pochi «tra quanti mostrano un’improvvisa preoccupazione per i diritti umani in Qatar sembrano interessati a impiegare la stessa energia nel denunciare le industrie della difesa dei Paesi europei che ogni anno esportano grandi quantità di armi al Qatar e agli altri regimi locali». Inoltre, afferma Kamel, nessun si è indignato quando i mondiali sono stati assegnati alla Russia o ad altri Paesi in cui i diritti umani non erano certamente più tutelati.

 

A spostare i riflettori sui campi da gioco hanno contribuito alcuni risultati clamorosi, tra i quali la vittoria dell’Arabia Saudita sull’Argentina, che ha mandato in visibilio il Paese. Emblematica la prima pagina del 23 novembre di Arab News, il principale quotidiano saudita di lingua inglese, sulla quale campeggiava il titolo “Don’t cry for me Argentina” e l’immagine di un giocatore in maglia verde intento a esultare con una capriola. Per quanto sorprendente, l’exploit non è del tutto casuale. È vero, ha evidenziato il New York Times, che nelle ultime sette edizioni del mondiale la nazionale saudita aveva vinto una sola partita, ma a partire dal 2016 lo Stato del Golfo ha iniziato a investire massicciamente nello sport.

 

L’euforia generata dalla vittoria non si è fermata ai confini sauditi. Come ha scritto il Washington Post, è stato tutto il mondo arabo «a sperimentare un raro momento di estasi condivisa», al punto che a celebrare la vittoria sono stati anche Paesi e forze politiche normalmente ostili nei confronti di Riyad, tra cui gli houthi yemeniti.

 

Non sono naturalmente mancate le letture politiche dell’evento. In un’analisi per il Washington Institute, Faris Almaari ha messo in luce l’esibizione di ritrovata armonia tra i Paesi del Golfo dopo il conflitto che nel 2017 aveva spaccato la penisola araba: a Doha il principe saudita Muhammad Bin Salman ha indossato una sciarpa del Qatar; il padrone di casa, l’emiro Tamim Bin Hamad Al Thani ha ricambiato celebrando con una sciarpa verde il successo dei sauditi. Benché questi gesti siano più «simbolici che sostanziali», essi «contribuiscono a dare visibilità alla ricucitura delle relazioni durante un evento pubblico».

 

Inoltre, ha aggiunto Almaari «l’importanza dello sport e il suo intreccio con l’identità nazionale è sottolineata anche dal forte contrasto tra i giocatori dell’Iran, che si sono rifiutati di cantare il loro inno nazionale e hanno giocato male contro l’Inghilterra, e la stupefacente prestazione dei sauditi, […] in quello che sembra un vivido riflesso dell’enorme differenza nella situazione interna dei due Paesi».

 

La coppa del mondo ha consentito anche di riscaldare, almeno per il tempo di una fotografia, rapporti congelati da tempo: a Doha il presidente turco Erdoğan e quello egiziano al-Sisi si sono scambiati una cordiale stretta di mano. Tuttavia, scrive al-Monitor riportando un’opinione diffusa tra gli esperti, è «improbabile che l’immagine gioviale preannunci un riavvicinamento rapido tra i due pesi massimi mediorientali».

 

 

Nuovi timori di un’operazione militare turca nel nord della Siria

A cura di Mauro Primavera

 

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è tornato a parlare di una possibile azione militare di terra nel nord della Siria. Questa dichiarazione giunge a pochi giorni dall’attentato di Istanbul che, secondo le indagini della polizia, sarebbe stato compiuto da una donna siriana di etnia curda. In passato l’esercito turco aveva occupato il cantone di Afrin, poi le zone settentrionali delle province di Idlib e Aleppo e infine, nel 2019, aveva creato una zona cuscinetto nella striscia di territorio frontaliero tra Tell Abyad e Ras al-‘Ayn. La data di inizio dell’operazione rimane ancora sconosciuta – «qualora fosse conveniente» le parole di Erdoğan citate da Al Jazeera – mentre gli obiettivi della campagna, riferisce il Washington Post, sono Kobane e Manbij, due città rimaste per molti anni sotto il controllo dello Stato Islamico e poi riconquistate, a caro prezzo, dalle unità curde. Secondo Al Monitor, un possibile elemento di novità dell’annunciato intervento, il quarto in ordine di tempo, è dato dal fatto che questa volta la Turchia potrebbe invadere i territori controllati dalle sigle curde con il tacito assenso di Assad. Negli ultimi mesi si sono tenuti incontri non ufficiali tra Ankara e Damasco, probabilmente con la mediazione della Russia, nel tentativo di evitare l’escalation di violenza dopo anni di relativa stabilità dei fronti. Oltre a indebolire le formazioni curde, l’offensiva potrebbe essere utilizzata anche come arma di propaganda in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno e come zona cuscinetto in cui ricollocare i migranti siriani residenti in Turchia.

 

 

In breve

 

Sono in corso trattative tra Arabia Saudita e Turchia al fine di finalizzare il deposito di 5 miliardi di dollari di proprietà saudita presso la Banca Centrale turca. Il deposito, che rafforzerebbe le riserve di valuta straniera dello Stato turco, sarebbe un ulteriore step nel riavvicinamento tra Ankara e Riyad (Financial Times).

 

L’Arabia Saudita ha eseguito altre due condanne a morte per reati connessi all’uso di droga. Come riporta il Guardian, il numero di persone giustiziate quest’anno da Riyad sale a 130.

 

Il 22 novembre è stato inaugurato a Parigi l’Istituto francese d’Islamologia. La notizia è approfondita da SaphirNews.

 

In Israele è stato raggiunto l’accordo per la nomina di Itamar Ben-Gvir a Ministro per la Sicurezza nazionale.

 

 

Il Qatar in diretta Mondiale (parte 2): i sauditi “sulle nuvole più alte”

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

I giornali arabi continuano a celebrare all’unisono la Coppa del Mondo, soprattutto a seguito della vittoria dell’Arabia Saudita contro l’Argentina per due a uno, un successo clamoroso e «senza precedenti», come titola il qatariota al-Watan, e che porta «i verdi “sopra le nuvole più alte”», citazione di una nota canzone patriottica del compositore saudita Mohammed Abdu. I giornalisti si sono affrettati ad attribuire al risultato significati simbolici e allegorie politiche e culturali. Prendiamo ad esempio l’incipit del commento “Arabia, cosa hai fatto al mondo?” apparso su al-Sharq al-Awsat a firma di Salman al-Dusri, ex direttore del quotidiano: «lo scorso martedì,  il 22 novembre 2022, non sarà più una data come un’altra; in questo giorno i sauditi hanno intessuto una storia che rimarrà impressa nella memoria di tutti, in Occidente ancor prima che in Oriente, nel lungo periodo ancor prima che in quello breve. La vittoria sull’Argentina nella più importante competizione calcistica del mondo porta con sé un messaggio che travalica il gioco del pallone e dello sport. Si tratta infatti di uno spirito che anela al successo. Uno spirito che ha trovato una personalità straordinaria ed è stata capace di infondere fiducia e determinazione. E il suo successo è stata un’apoteosi». Segue un parallelismo tra l’epica della partita e il nuovo corso politico inaugurato del principe ereditario Mohammed bin Salman, comparso sulla scena regionale quando a dominare era il modello iraniano. «Il fatto sorprendente – prosegue al-Dusri – è che i progetti di sviluppo richiedono decenni per mostrare i loro effetti, mentre in Arabia Saudita gli anni impiegati si contano sulle dita di una mano».

 

Prosegue anche la campagna di difesa dalle critiche della stampa internazionale dopo che i giocatori della nazionale tedesca hanno protestato, coprendosi la bocca con la mano durante la foto di gruppo, contro il divieto di indossare la fascia arcobaleno come gesto di solidarietà con le persone LGBTQ+. A tal proposito il giornalista giordano Halmi al-Asmar ha scritto su al-‘Arabi al-Jadid come sia «naturale che il Qatar venga attaccato dalla freccia avvelenata della critica proveniente dall’Occidente ipocrita» e aggiunto: «siamo abituati al suo doppiopesismo e al suo allineamento razzista contro i non occidentali e i Paesi del Sud in generale […] Non è naturale, invece, che il Qatar diventi il bersaglio di penne, politici e commentatori arabi soltanto per una questione di rabbia, invidia e miopia, forse per via di certi punti di vista divergenti, soprattutto per quanto riguarda la posizione del Paese in quello che viene chiamato “Islam politico”». Ancora più duro il giudizio di al-Sharq al-Awsat: «forse questa volta gli occidentali hanno sperimentato di non trovarsi più al centro dell’universo né di essere la fonte della verità, né la sorgente della certezza, né la fabbrica dei valori, né la guida dell’umanità; ci sono, invece, altri valori e società differenti che sono incompatibili con questa frivolezza occidentale globalista».        

 

 

Il summit di Jerba, pardon “Djerbà”: lingua francese, non (più) lingua franca

 

Tra il 19 e il 20 novembre si è tenuto sull’isola tunisina di Jerba il diciottesimo summit dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF), che celebra il suo cinquantesimo anno di attività. I membri della OIF sono principalmente le ex colonie africane, asiatiche e caraibiche della Francia (con un grande assente come vedremo più avanti) a cui si aggiungono i territori d’oltremare del Pacifico, i Paesi legati a Parigi per storia, lingua e cultura – il Canada è l’esempio par excellence – oppure per fini politici e diplomatici, come nel caso di Grecia, Romania ed Emirati Arabi Uniti.

 

Per Kais Saied, il presidente del Paese organizzatore, l’evento ha rappresentato un’ottima occasione per mostrare ai suoi colleghi, 31 fra capi di Stato e premier, i progressi compiuti da Tunisi nell’ultimo anno. In origine, infatti, il summit era stato programmato per l’ottobre 2021, ma lo scioglimento del parlamento da parte di Saied aveva provocato un tale clima di tensione e instabilità da spingere l’OIF a rinviare la conferenza di un anno. Per questo, come riporta al-‘Arabi al-Jadid, l’obiettivo del ra‘īs, accusato di aver violato i diritti politici e civili, è quello di «rompere in parte l’isolamento» creatosi attorno a lui. Perché la OIF non è solo una associazione di carattere cultural-linguistico, bensì un vasto network, anzi réseau, atttraverso il quale costruire partenariati economici e alleanze internazionali: l’esclusione da questi circuiti potrebbe danneggiare un Paese come la Tunisia, la cui economia è in costante affanno per via del rincaro dei beni di prima necessità e degli idrocarburi.

 

Tuttavia, il dibattito culturale sull’eredità del passato coloniale e del presente francofono – il cui prestigio è però percepito come «declinante» – continua a permanere, anche se in sottofondo: «il summit pone domande sulla solidità dello spazio francofono, ma anche sull’adesione a questa rete: è questa davvero conveniente per tutti i membri, oppure è una costrizione imposta dal colonizzatore per rendere la maggior parte dei suoi membri degli ostaggi economici e sociali?». Al-‘Arabi aggiunge, in un altro articolo, che l’idea di rilanciare la Tunisia attraverso questi eventi sia una pia illusione: «il successo genuino di qualsiasi Paese va oltre il mero ambito organizzativo di convegni e incontri, per quanto importanti siano; il successo si misura, piuttosto, nella risoluzione delle crisi sociopolitiche che si sono accumulate nel tempo e nell’apertura del dibattito pubblico attraverso dialoghi nazionali». Cosa che, si legge fra le righe, Saied non ha fatto.                

 

Il quotidiano tunisino al-Sabah ha pubblicato nell’edizione del 20 novembre un ampio resoconto delle due giornate. Compaiono le dichiarazioni soddisfatte dei ministri intervistati: quello della Difesa conferma che il summit è stato «un successo sotto diversi punti di vista», mentre quello della Tecnologia e delle Telecomunicazioni ha annunciato di aver sottoscritto degli accordi che permetteranno di installare la rete 5G nel Paese. Vi sono, però, commenti più tranchant: «nel suo discorso al vertice, il presidente Saied non ha menzionato affatto Habib Bourguiba, fondatore dell’OIF, né ha accennato al ruolo da lui avuto nel creare questo spazio culturale; a ricordarlo ci ha pensato la segretaria generale dell’Organizzazione, Louise Mushikiwabo».   

 

Come detto, al vertice mancava un importante Paese francofono: si tratta dell’Algeria, la colonia che divenne territorio metropolitano francese e ottenne l’indipendenza nel 1962 dopo quasi otto anni di guerriglia. Il Paese nordafricano non fa parte dell’OIF a causa dei forti sentimenti antifrancesi radicati all’interno della popolazione e dei partiti, anche se l’ex presidente Bouteflika si era dimostrato favorevole a far parte dello “spazio francofono”. L’attuale capo dello Stato, Abdelmajid Tebboune, «ha deciso di disertare il primo vertice del suo mandato» e, come abbiamo già segnalato qualche settimana fa, nell’ultimo vertice della Lega Araba ha rispolverato la retorica novecentesca sul (pan)nazionalismo arabo, sfociata nel processo di de-francesizzazione della società e delle istituzioni. La tematica è stata ripresa il 23 novembre dal sito algerino Al-Chouruq, in un commento intitolato “Il declino del francese”: dopo aver constatato la regressione nel Maghreb della lingua dei colonizzatori, si rende merito alla nuova politica linguistica di Tebboune: «in Algeria il treno dell’arabizzazione, partito dopo l’indipendenza, ha preso velocità a partire dagli anni Settanta attraverso l’arabizzazione del sistema scolastico e di alcune università specialistiche, avvicinandosi quindi alla sua fermata finale. Nonostante la resistenza mostrata da molti entusiasti per il mantenimento del predominio francofono, la marcia continua e la lingua araba dovrebbe prendere il suo posto naturale nelle piattaforme politiche».            

 

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