Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:03:53

Lunedì la Knesset ha votato e approvato la prima parte della riforma della Giustizia voluta dal governo guidato da Benjamin Netanyahu. Dopo il fallimento dell’ultimo tentativo di mediazione, auspicato dal presidente Isaac Herzog, i parlamentari dell’opposizione hanno abbandonato l’aula, che ha perciò approvato la legislazione con 64 voti favorevoli e zero contrari. Il voto di lunedì abolisce la “clausola di ragionevolezza” che, come ha spiegato il Guardian, «permette[va] alla Corte suprema israeliana, non eletta, di respingere le decisioni del Governo».

 

Sulla stampa internazionale sono comparsi al riguardo articoli, analisi ed editoriali di segno opposto. Ve ne proponiamo alcuni tra i più significativi. Il primo è quello scritto sul Financial Times dallo storico israeliano Yuval Noah Harari: secondo lo studioso ci troviamo di fronte alla sistematica distruzione della democrazia israeliana, operata da «zeloti messianici» che credono nell’«ideologia del suprematismo ebraico» e il cui sogno nel cassetto è la distruzione del complesso di al-Aqsa (per capire meglio l’evoluzione e l’ideologia della destra radicale israeliana vi suggeriamo questo approfondimento che abbiamo appena pubblicato). Il ragionamento di Harari, condiviso da molti esperti, è il seguente: le democrazie solide fanno affidamento su un vasto sistema di pesi e contrappesi, ma Israele non ha «una Costituzione, una camera alta in parlamento, una struttura federale o qualsiasi altro controllo sul potere del governo tranne uno: la Corte Suprema». Togliere di mezzo la Corte significa dunque eliminare l’unico contrappeso al potere governativo. Questo cambiamento istituzionale, associato alla presenza al governo degli estremisti della destra religiosa israeliana, porta Harari a proporre un’equivalenza piuttosto sorprendente: Netanyahu sta trasformando Israele in un regime della stessa natura di quello del suo grande nemico iraniano.

 

È decisamente meno preoccupato il Wall Street Journal. Secondo l’editoriale del quotidiano americano, «lo scopo della nuova legge era di far passare qualcosa, qualsiasi cosa, per dimostrare agli elettori conservatori che il governo non è stato completamente piegato dalle proteste dell’opposizione». Inoltre, scrive il WSJ, quella approvata lunedì è una riforma giudiziaria «modesta, che probabilmente non farà una grande differenza», nonostante le grida di allarme lanciate da entrambe le parti. Il WSJ motiva la sua posizione spiegando che, oltre alla clausola di ragionevolezza, la Corte beneficia di molti altri strumenti che le consentiranno comunque di bloccare determinate legislazioni.

 

Il voto sul resto della riforma è previsto per la fine di novembre e, all’indomani dell’approvazione della prima parte, Netanyahu ha auspicato il raggiungimento di un compromesso per risolvere uno scontro che, come vedremo nelle prossime righe, sta creando non pochi problemi anche alla sicurezza israeliana. Il compromesso sembra difficile da raggiungere e comunque lascerebbe il tempo che trova, dato che, qualora future elezioni modificassero gli equilibri parlamentari , con un voto a maggioranza semplice la nuova Knesset potrebbe ribaltare la riforma, ha ricordato Michael Broyde, professore di diritto alla Emory University. Ecco perché, sostiene Broyde, la reale soluzione all’attuale conflitto politico e istituzionale sarebbe soltanto una: l’approvazione di una Costituzione scritta. Il punto non è infatti stabilire «se le recenti proposte [legislative] siano sbagliate o meno, ma è [qualcosa di] molto più profondo: quando firmarono la Dichiarazione di Indipendenza i Padri e le Madri fondatori di Israele capirono che era necessaria una Costituzione per prevenire l’eccesso di potere che si verifica naturalmente in un sistema parlamentare. La regola della maggioranza necessita di essere limitata da una Costituzione scritta che conferisca diritti e che non possa essere sminuita da una maggioranza temporanea» presente nella Knesset. Del resto, a caratterizzare veramente una democrazia è il fatto che «le regole vincolano fortemente la maggioranza», ha scritto Jon B. Alterman (Center for Strategic and International Studies). Sono le regole ad assicurare che la maggioranza al potere non si attesti il diritto ad esserlo per sempre, e che incoraggiano le minoranze operare «all’interno del sistema piuttosto che cercare di minarlo e proteggono i gruppi minoritari da un’emarginazione permanente». Tuttavia, dietro alla volontà di riformare il sistema giudiziario si celano diversi conflitti: i fautori della riforma considerano la Corte «un artefatto del dominio sullo Stato nei suoi primi anni di vita da parte dell’élite secolare ashkenazita. Ritengono che i tribunali ostacolino il destino di Israele a essere uno Stato ebraico e non meramente uno Stato di ebrei. Cercano il sostegno delle istituzioni religiose per promuovere l’osservanza della legge ebraica, e per accrescere la popolazione ebraica nelle loro terre storiche. Peraltro, alcuni sperano di diminuire il potere dell’élite costiera benestante, che accusano di ingenuità nei confronti dei nemici di Israele e di indifferenza verso i propri cittadini svantaggiati».

 

Come si comprende bene dalle parole di Alterman, al fondo della riforma giudiziaria c’è lo scontro sulla natura stessa dello Stato. Si tratta di un conflitto che è dovuto anche al significativo aumento del potere degli ebrei ultraortodossi (spinto anche da una vertiginosa crescita demografica, testimoniata da un tasso di fertilità di 6,5 figli per donna), le cui prerogative si scontrano con quelle degli israeliani che il Wall Street Journal definisce «laici». Gran parte degli Haredi, infatti, non lavora e preferisce dedicarsi allo studio della Torah. Ciò significa anche, però, che non accettano di svolgere il servizio militare, obbligatorio in Israele. Già in precedenza questi gruppi ebraici avevano cercato di ottenere un’esenzione permanente dalla leva, ma proprio la Corte Suprema si era opposta a questa ipotesi. «Crediamo davvero debba esserci un nuovo contratto in Israele tra i laici e gli Haredi. Non vedo come Israele possa esistere come un Paese liberale, prospero e forte se la situazione attuale non cambia», ha dichiarato Ron Scherf, cinquantunenne riservista dell’esercito. Gli ha fatto eco l’ultraortodosso Yisrael Cohen: «ci avviciniamo a un grande scontro».

 

Intanto, all’indomani del voto, sono proseguiti gli scioperi: migliaia di medici si sono astenuti dal lavoro, mentre i sindacati minacciano uno sciopero generale, ha riportato l’Associated Press. Il problema più impellente riguarda comunque i riservisti dell’esercito, che ricoprono un ruolo non di secondo piano nell’organizzazione militare israeliana. Prima del voto di lunedì, 11.000 riservisti avevano dichiarato che si sarebbero dimessi se la riforma fosse stata approvata, ma resta da vedere quanti effettivamente faranno seguire i fatti alle dichiarazioni, si legge sul New York Times. Vi è poi, ricorda il quotidiano newyorkese, il capitolo dei riservisti nell’aviazione: circa 500 avevano minacciato dimissioni, e in questo caso il danno per la sicurezza israeliana sarebbe perfino maggiore perché molti dei piloti più esperti si trovano proprio tra i riservisti.

 

I piani di Erdoğan per l’industria della Difesa

 

L’industria della Difesa turca è sempre più florida: il drone Bayraktar, prodotto dall’azienda Baykar Technologies, i cui proprietari sono grandi sostenitori del presidente Erdoğan (il presidente della compagnia è genero del reis), è salito agli onori della cronaca per l’efficacia dimostrata in conflitti come Libia, Azerbaijan e, infine, Ucraina. Più recentemente sui media si era parlato di un importante accordo per la vendita di droni all’Arabia Saudita, segno anche di un clima rinnovato e più disteso tra i due Paesi. Ora, come ha riportato al-Monitor, sono emersi alcuni dettagli di quell’accordo finora rimasti celati. Per l’acquisto dei droni Akinci (una versione più performante e costosa del famoso Bayraktar) l’Arabia Saudita ha impegnato una cifra superiore ai 3,1 miliardi di dollari, ha affermato, senza fornire ulteriori dettagli, il nuovo capo dell’agenzia dell’industria della difesa turca (Savunma Sanayii Başkanlığı). Non a caso l’azienda produttrice ha descritto l’accordo come il più grande mai siglato da una compagnia turca, che avvicinerebbe significativamente il Paese al raggiungimento dell’obiettivo fissato dal suo presidente: raggiungere i 6 miliardi di dollari di vendite di armamenti nel 2023, un incremento superiore al 35% rispetto all’anno precedente.

 

Al di là delle cifre, comunque imponenti, l’accordo è frutto del repentino riavvicinamento della Turchia con Paesi che fino a poco fa erano rivali, se non nemici. È il caso dell’Arabia Saudita, ma ancor più degli Emirati Arabi Uniti. È proprio nel Golfo, ha ricordato Betul Dogan Akkas sul sito del Middle East Council of Global Affairs, che Erdoğan si è recato soltanto poche settimane dopo aver vinto le elezioni. Se da un lato il riavvicinamento tra Ankara e le capitali del Golfo è stato favorito dalla crisi economica turca, dall’altro, osserva Akkas, la Turchia è diventata un potenziale alleato che «offre opportunità di investimento, trasferimenti tecnologici e cooperazione su questioni regionali». Leggendo il commento di Akkas si comprende come il rapporto tra Turchia e Arabia Saudita sia bidirezionale: non è solo la Turchia ad avere bisogno dei capitali sauditi, ma anche Riyad a volersi avvalere delle industrie turche. Ecco perché Khalid Bin Abdulaziz Al-Falih, ministro degli Investimenti del Regno, ha recentemente invitato le aziende turche a partecipare alle iniziative imprenditoriali promosse nell’ambito di Saudi Vision 2030.

 

Il cambio di politica regionale non ha però riguardato solo gli Stati del Golfo. Un altro grande protagonista di questa fase di disgelo è l’Egitto di al-Sisi, che dieci anni fa Erdoğan aveva definito un «brutale killer». Dopo lo scambio di ambasciatori tra il Cairo e Ankara, è in preparazione, scrive Amberin Zaman su al-Monitor una visita di Stato da parte del presidente egiziano. Come è possibile che questi clamorosi cambi di opinione non suscitino l’indignazione dei supporters di Erdoğan? Ciò si deve al fatto che il presidente ha costruito una «relazione unica con il suo popolo», ha detto Osman Sert, direttore di un think tank di Ankara. Una relazione «di fiducia» nella quale i sostenitori hanno consegnato al leader dell’AKP un «assegno in bianco».

 

Intanto la presenza sulla scena diplomatica internazionale di Erdoğan si arricchisce di un altro successo: in vista del summit previsto al Cairo per domenica, il presidente turco ha accolto i leader palestinesi rivali Mahmoud Abbas, a capo dell’autorità palestinese, e Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas. L’incontro tra i due è un fatto raro ed Erdoğan ha insistito sulla necessità di ritrovare l’unità tra le diverse anime dei palestinesi.

 

Sul piano economico la Turchia, come promesso dalla nuova formazione di governo, ha ulteriormente alzato i tassi di interesse (secondo aumento in altrettanti mesi), portandoli al 17,5%. Tuttavia, sebbene secondo un importante imprenditore come Erman Ilıcak il peggio sia ormai alle spalle, i rialzi sono meno pronunciati di quanto ci si sarebbe aspettati, ciò che secondo il Financial Times evidenza che i politici turchi continuano a dare priorità alla crescita rispetto alla lotta all’inflazione.

 

L’ennesimo colpo di Stato in Africa

 

Questa volta tocca al Niger: mercoledì i militari del Paese africano sono apparsi sulla televisione pubblica e hanno annunciato l’ennesimo colpo di Stato con il quale hanno rimosso dal potere il presidente Mohamed Bazoum. La giustificazione ufficiale è la solita: porre fine a un regime che è ritenuto responsabile del «deterioramento della situazione securitaria e del malgoverno», come ha dichiarato il colonnello Amadou Abdramane durante il suo discorso. I militari hanno serrato i confini del Paese e sospeso tutte le istituzioni repubblicane, oltre a dichiarare il coprifuoco e a mettere in guardia contro ogni intervento straniero. Il colpo di Stato è stato messo in atto dalle forze della guardia presidenziale. Il Niger, Paese per due terzi desertico  situato nel cuore del Sahel, è tra gli Stati con il più basso indice di sviluppo umano e deve fare i conti con due differenti insorgenze jihadiste, quella che proviene da sud-ovest e ha origine in Mali, e quella che invece sconfina dalla Nigeria da sud-est, riporta il Guardian.

 

Il Niger ricopre un ruolo fondamentale nella lotta al jihadismo e ai traffici illegali nella regione, reso ancora più importante dopo i colpi di Stato in Burkina Faso e Mali che hanno portato allo spostamento delle forze occidentali (soprattutto francesi, ma anche italiane) proprio in Niger. Anche in questo caso il sospetto è che dietro al colpo di Stato ci sia anche l’azione della Russia, presente in Africa attraverso la Wagner. Già nello scorso maggio il presidente Bazoum aveva lamentato il fatto che il suo governo fosse oggetto di una campagna di disinformazione ad opera dei russi. Non è dunque troppo sorprendente osservare la comparsa di bandiere russe a Niamey nel corso di manifestazioni pro-golpisti. Catherine Colonna, ministro degli Esteri francese, ha dichiarato che si tratta di un «tentativo di golpe» e che «c’è ancora una via d’uscita». Tuttavia, il capo di stato maggiore dell’esercito ha dichiarato che, al fine di «prevenire una carneficina» le forze armate nigerine non si opporranno alla presa di potere da parte dei golpisti. Se la dinamica seguita dal Niger post-golpe sarà la stessa di Mali e Burkina Faso, che hanno obbligato i militari francesi a lasciare il Paese, per Parigi (e per l’Europa in generale) sarebbe un grosso problema, sia da un punto di vista geopolitico, perché verrebbe meno la base dalla quale proiettare influenza e organizzare le missioni anti-jihadiste nella regione, sia dal punto di vista dell’approvvigionamento di risorse chiave. Come ha osservato l’analista Daniel Foubert, un terzo dell’uranio utilizzato nelle centrali nucleari francesi arriva da questo Paese.

 

In breve

 

Gravi incendi stanno colpendo molti Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Oltre a Spagna, Italia e Grecia, anche Tunisia, Turchia e Algeria sono messe a dura prova. La situazione più grave al momento si è registrata in Algeria, dove gli incendi hanno provocato 34 morti (Financial Times).

 

L’ONU ha fatto sapere che sono finalmente iniziate le operazioni per rimuovere il greggio dalla petroliera FSO Safer abbandonata al largo delle coste dello Yemen (Associated Press).

 

Il presidente egiziano al-Sisi ha invitato Vladimir Putin a rientrare nell’accordo sull’esportazione del grano dall’Ucraina. La Russia però si è detta disponibile a rifornire gratuitamente sei nazioni africane: Burkina Faso, Zimbawe, Mali, Repubblica centrafricana, Somalia ed Eritrea (BBC).

 


 

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