Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:59:08
La produzione di petrolio più elevata del previsto da parte di soggetti sotto sanzioni come la Russia e l’Iran, la recessione dell’Eurozona, il rallentamento della ripresa economica cinese e il possibilismo della Federal Reserve nei confronti di nuovi rialzi dei tassi di interesse sono tra i motivi che secondo il Wall Street Journal hanno portato al fallimento del piano saudita di alzare i prezzi del petrolio tramite tagli alla produzione. Il mercato «ha altre idee», ha sintetizzato il quotidiano finanziario americano. Il Regno saudita, comunque, è più attivo che mai, tanto sulla scena politica internazionale che su quella economica, e in altri contesti è tutt’altro che perdente.
Dal punto di vista politico va sottolineato come il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) sia riuscito a sfilarsi dal rango di paria al quale avrebbe voluto relegarlo Joe Biden all’inizio del suo mandato. Il fallimento del tentativo di emarginazione è testimoniato definitivamente dal viaggio di Antony Blinken avvenuto la settimana scorsa. Uno degli obiettivi su cui gli americani premono maggiormente è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Blinken ha addirittura detto che in gioco c’è l’interesse della sicurezza nazionale statunitense. Tuttavia, i passi indietro a cui l’amministrazione Biden è stata costretta pongono l’Arabia Saudita in una posizione negoziale di forza. O almeno è così che, con ogni probabilità, si sente MbS, ha scritto Paul R. Pillar su Responsible Statecraft. La Casa Bianca, infatti, non ha solo dovuto abbandonare il riferimento allo statuto di paria, ma ha iniziato a parlare di quali benefici concedere all’Arabia Saudita in cambio della normalizzazione. E Riyad, dal canto suo, ha reiterato che non ci sarà nessuna normalizzazione senza che prima non si raggiunga un accordo definitivo sulla questione palestinese.
I fatti hanno smentito tutte le ricostruzioni secondo cui la presa sul potere di MbS era in pericolo: il principe ha fatto «leva sulla ricchezza del Regno, la sua influenza sui mercati petroliferi e la sua importanza nel mondo arabo e islamico per schivare le ripetute minacce di punirlo con l’isolamento internazionale», ha commentato Ben Hubbard sul New York Times. Isolamento che comunque non c’è mai veramente stato, sia perché Paesi come la Cina continuano a rafforzare i legami con Riyad (ne parleremo a breve) sia perché altri Paesi sono stati costretti a scendere a patti con l’Arabia Saudita (vedi Turchia). Anche l’Iran, tradizionale nemico nella regione, ha recentemente riallacciato le relazioni con il Paese. Spinto dall’ingombrante vicino, è probabile che il Bahrein si appresti a seguire l’Arabia Saudita, o almeno questo è ciò che ha lasciato trapelare Barbara Leaf, responsabile per gli affari del Vicino Oriente per il Dipartimento di Stato. Tuttavia, a tre mesi di distanza dall’annuncio, la distensione che si auspicava facesse seguito all’accordo non sembra essersi materializzata. Al contrario, ha scritto Steven A. Cook su Foreign Policy, «pare che gli iraniani stiano facendo leva sulla normalizzazione per aumentare i propri vantaggi nella regione, piuttosto che diminuire le tensioni».
Ma torniamo all’Arabia Saudita. A pochi giorni di distanza dalla già citata visita di Blinken, l’Arabia Saudita ha ospitato il business forum arabo-cinese, al quale hanno preso parte anche alcune aziende cinesi inserite nella blacklist americana perché contribuirebbero alla sorveglianza delle minoranze etniche cinesi. Un ulteriore segnale del fatto che Riyad gioca su più tavoli. Le dichiarazioni dell’uomo d’affari Mohammed Abunayyan rendono bene l’idea del cambio di paradigma rispetto a qualche anno fa: «se vuoi avere un partner affidabile nel mondo – uno dei migliori partner del mondo – quello è la Repubblica popolare cinese. La Cina è un partner su cui puoi fare affidamento». Niente di esclusivo, però. L’ha chiarito il principe Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia e fratello di MbS: «stiamo avendo dialoghi con tutti, e chiunque voglia venire a investire con noi è più che benvenuto […] Non c’è nulla di simile a un cosiddetto grande disegno tra noi e la Cina. Tuttavia, devo dirlo chiaramente e senza mezzi termini: stiamo lavorando con loro su molte cose».
Secondo Henry Zhang, managing partner di Hermitage Capital, recarsi in Arabia Saudita è diventato un “must” per la comunità economica cinese: «se negli ultimi sei o dodici mesi non sei stato in Arabia Saudita, sei fuori moda sia dal punto di vista politico che da quello economico». A Riyad, ha proseguito Zhang, «ho visto persone che in Cina non vedevo da 7 o 8 anni. È pazzesco. Trovi tutti qui». Mentre i sauditi dichiarano che non c’è nulla di politico nelle loro relazioni con la Cina, anche se dicono chiaramente che l’obiettivo è favorire una partnership «strategica» che ruoti attorno alla Belt and Road Initiative, i media americani la pensano diversamente. Il Wall Street Journal per esempio sottolinea che il tentativo di attrarre investimenti cinesi «fa parte di un più ampio pivot geopolitico. Gli stati del Golfo stanno cercando di avvicinare la Cina e, nel processo, mitigare la loro dipendenza dagli Stati Uniti e aumentare la propria influenza».
Il forum appena svoltosi è stato il decimo appuntamento saudita-cinese di questo tipo. Non è dunque una novità, ma è la prima volta che l’incontro si svolge nella penisola arabica e, per distacco, è il più grande mai organizzato in termini di partecipazioni e di accordi siglati (non vincolanti), stimati intorno ai 10 miliardi di dollari. Di questi, più della metà (5,6 miliardi) sono costituiti dall’accordo siglato con la Human Horizons che prevede lo sviluppo, la costruzione e la vendita di veicoli elettrici in Arabia Saudita. La scelta saudita di investire nei veicoli elettrici (di alta gamma nel caso del marchio HiPhi sotto cui opera Human Horizons) rientra nei piani di diversificazione dell’economia che vanno sotto il cappello di Saudi Vision 2030, ha ricordato al-Jazeera. Altri accordi significativi riguardano la costruzione di un impianto per la produzione di acciaio in Arabia Saudita e la cooperazione nell’estrazione di rame nei territori sauditi.
Riyad non è attiva solo nel tentativo di attrarre investimenti stranieri nel Paese. Al contrario, MbS sta utilizzando i proventi raccolti negli anni grazie alle rendite petrolifere per acquisire attività anche in Occidente, in ambiti che permettano all’Arabia Saudita di migliorare la sua immagine. Dopo l’acquisto di star del calcio come Karim Benzema da parte di una squadra saudita (che proprio poco prima di procedere all’acquisto è entrata a far parte della galassia delle realtà controllate dal PIF), ha fatto notizia la fusione tra il circuito golfistico con sede negli Stati Uniti, il PGA Tour, e il nuovo circuito promosso dal Public Investment Fund saudita, LIV Golf. Come ha ricordato il Financial Times, la fusione arriva dopo due anni di battaglia tra i due circuiti, con molti giocatori professionistici (ma non i top players come Rory McIlroy o Tiger Woods) che hanno abbandonato il PGA Tour in favore dell’iniziativa saudita. L’opposizione americana alla nuova lega promossa da Riyad è stata strenua ma, ancora una volta, alla fine i soldi sauditi hanno avuto la meglio. Washington ha dovuto fare un passo indietro davanti a un accordo che vede il PIF immettere circa 3 miliardi di dollari nella nuova entità creatasi. «Se si considera uno dei più grandi fondi sovrani del mondo, è meglio averlo come partner o come nemico?», ha domandato in maniera retorica McIlroy ai giornalisti? Secondo Kristian Ulrichsen, la fusione tra PGA Tour e LIV garantirà ai sauditi l’accesso a una vasta platea benestante americana, che potrebbe cambiare le proprie opinioni riguardo all’Arabia Saudita.
L’accordo, ha commentato il Financial Times, è una delle più evidenti illustrazioni del crescente potere e dell’influenza che il PIF ha ottenuto sotto la guida di Mohammed bin Salman. Secondo Simon Chadwick, professore di sport ed economia geopolitica alla Skema Business School in Francia, «l’Arabia Saudita si vede al centro di un nuovo ordine mondiale e gli investimenti nello sport contribuiscono al posizionamento nazionale». La nuova frontiera, però, ha a che fare con i giochi virtuali: negli ultimi 18 mesi Riyad ha investito 8 miliardi di dollari nell’industria del gaming, principalmente attraverso Savvy Games Group, entità controllata al 100% dal fondo sovrano saudita. Secondo MbS, che è alla testa del PIF, lo scopo è trasformare l’Arabia Saudita «nell’hub globale per eccellenza per i giochi e il settore degli e-sports». Le stime sono di impiegare 39.000 persone nel settore e di fare in modo che questo segmento contribuisca all’1% del PIL saudita. Un obiettivo che risponde anche alle necessità imposte dall’età della popolazione saudita: il 70% dei sauditi ha meno di 35 anni e una percentuale simile di sauditi (tra cui secondo il Financial Times anche il principe ereditario) si identifica come un gamer.
Intanto MbS è in visita in Francia dove, tra le altre cose, supporterà la candidatura di Riyad a ospitare EXPO 2030.
La rischiosa strategia americana nei confronti dell’Iran
Funzionari americani hanno smentito che Washington e Teheran starebbero lavorando per il raggiungimento di un accordo a interim sul nucleare iraniano. Le fonti citate da Reuters non hanno tuttavia smentito i contatti tra le parti: «abbiamo chiarito [agli iraniani] quali sono i passi che devono evitare per prevenire una crisi, e quali sono quelli che devono intraprendere per creare un contesto più positivo».
Subito dopo le smentite si è espressa anche la Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, la quale ha affermato che «non c’è nulla di sbagliato in un accordo con l’Occidente, ma l’infrastruttura della nostra industria nucleare non deve essere toccata». Non una chiara apertura, ma nemmeno una chiusura alle trattative. Ma trattative per cosa? Secondo Henri Rome ed Eric Brewer (Foreign Affairs) gli avanzamenti del programma nucleare iraniano rendono assolutamente non replicabile l’accordo siglato nel 2015. Davanti a questa considerazione, l’amministrazione Biden ha optato per una strategia rischiosa: «il tentativo di prevenire le conseguenze peggiori dello stallo nucleare con l’Iran conservando la possibilità di risolvere il problema in futuro». Secondo Rome e Brewer, tuttavia, i rischi insiti in questa strategia sono molti: anzitutto, essa permette all’Iran di sviluppare costantemente il suo programma nucleare mentre si scrolla di dosso l’isolamento economico e politico in cui era confinato. Inoltre, anziché porre le basi per un accordo che riporti indietro il programma atomico iraniano, questa strategia rischia di cementare lo status di Paese sulla soglia nucleare, si legge su Foreign Affairs.
Tutto avviene mentre l’atteggiamento iraniano non sembra essere affatto più moderato, sia a livello interno che internazionale. Lo testimonia il fatto che soltanto a maggio le autorità hanno eseguito almeno 142 condanne a morte, il numero più alto dal 2015. Circa la metà delle esecuzioni condotte nel Paese sono dovute a reati per l’uso di droghe, e si svolgono però principalmente nelle aree remote dell’Iran, popolate da minoranze. Secondo il portavoce della missione iraniana alle Nazioni Unite, tra i condannati non vi è nessuno che ha partecipato alle recenti proteste contro il governo. Tuttavia, come ha osservato Alex Vatanka (Middle East Institute), «l’unica maniera di spiegare razionalmente l’aumento delle esecuzioni è che il regime sta rispondendo a una situazione potenzialmente esplosiva e sta facendo tutto ciò che può per scoraggiare la popolazione» nei confronti di eventuali velleità antigovernative. Dopo le proteste scoppiate in seguito alla morte di Mahsa Amini, il New York Times ha pubblicato gli stralci dei diari di tre giovani donne che permettono «di capire meglio come sia cambiata la quotidianità » in Iran. Anche economicamente la situazione è grave: ora anche il settore automobilistico, la più ampia industria non energetica del Paese, è in crisi. Mancano i componenti e l’inflazione spinge verso l’alto i prezzi, si legge sul Financial Times.
Sul piano internazionale, il presidente della Repubblica Ebrahim Raisi si è recato in visita ufficiale in Venezuela, dove ha incontrato Nicolas Maduro. L’obiettivo della visita è aumentare il commercio bilaterale fino a 20 miliardi di dollari l’anno, partendo dagli attuali 3 miliardi. Oltre alla firma di un accordo in ambito petrolchimico, i due presidenti, entrambi sotto sanzioni americane, non hanno fornito dettagli. Ma come ha riportato al-Monitor, il viaggio di Raisi si inserisce nel contesto del tentativo iraniano di espandere le proprie relazioni con altri antagonisti degli Stati Uniti, in quello che il presidente della Repubblica stesso ha definito un «nuovo ordine mondiale».
Turchia: Erkan e Şimşek verso il rialzo dei tassi
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha chiuso la porta davanti all’eventualità che la Svezia potesse accedere alla NATO durante il summit di Vilnius che si terrà a luglio. La versione del presidente turco è che, proprio mentre il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg cercava di convincerlo a dare il via libera a Stoccolma, i sostenitori del PKK manifestavano liberamente nelle strade della capitale scandinava. Una situazione inaccettabile per Ankara, secondo quanto riportato da Ragip Soylu su Middle East Eye.
Intanto prende forma la nuova Turchia post-elezioni. Le nomine che hanno attratto più attenzione sono quelle del ministero delle Finanze e del capo della Banca Centrale. Al vertice di quest’ultima Erdoğan ha nominato la giovane Hafize Gaye Erkan, economista formatasi a Princeton, ex-Goldman Sachs e First Republic Bank. Le competenze di Erkan, si legge sul Financial Times, affondano le radici nelle teorie matematiche classiche, che contrastano drasticamente con le posizioni economiche eterodosse di Erdoğan, a cominciare dalla convinzione che «i tassi di interesse sono la madre e il padre di tutti i mali». Le previsioni di JP Morgan sono che la Banca centrale turca porti i tassi, attualmente all’8,5%, fino al 25% già in seguito all’incontro di giugno del board. Secondo Wolfango Piccoli, Erkan deve «ricostruire la Banca centrale dopo anni di cattiva gestione, purghe e declassamenti. Come la maggior parte delle altre istituzioni chiave, la Banca ha perso la sua indipendenza ed è stata svuotata dalla spinta di Erdoğan a centralizzare il potere».
Erkan dovrà lavorare a stretto contatto con il ministro dell’Economia Mehmet Şimşek, ritenuto da molti una sorta di salvatore della patria. Come si legge su Middle East Eye, prima di accettare l’incarico Şimşek ha dovuto convincere Erdoğan, mostrando una lunga serie di dati, della necessità di alzare i tassi di interesse. Davanti alla posizione di Erdoğan, il quale ritiene che i tassi di interesse siano contro le norme coraniche, Şimşek ha spiegato che non c’è modo di ignorare il mondo nel quale viviamo. Secondo le fonti di MEE, anche i fratelli Selcuk e Haluk Bayraktar, titolari dell’azienda produttrice degli omonimi droni, hanno fatto pressione sul presidente turco affinché facesse un passo indietro sulle sue convinzioni economiche.