Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:38:19

Alla fine, Benjamin Netanyahu ha dovuto fare un passo indietro. Nonostante le pressioni contrarie del primo ministro, lo scorso fine settimana il ministro della Difesa Yoav Gallant si è espresso chiedendo che la discussa riforma della giustizia proposta dal governo israeliano venisse congelata. Per giustificare la propria posizione Gallant ha menzionato i rischi derivanti dalla scelta di numerosi riservisti ed esponenti delle forze di sicurezza di scioperare per manifestare la propria opposizione al provvedimento, e la preoccupazione per la crescente polarizzazione della società israeliana. Poco dopo, altri due membri del Likud, Yuli Edelstein (capo della commissione sicurezza e politica estera della Knesset) e David Bitan, si sono uniti alla posizione di Gallant.

 

Netanyahu ha reagito seguendo i suggerimenti di Itamar Ben-Gvir e ha licenziato Gallant, mentre Shlomo Karhi, responsabile della comunicazione del Likud, si è scusato con gli elettori per il fatto che il ministro della Difesa avesse «ceduto alle pressioni della sinistra». Ma dopo il licenziamento di Gallant le proteste sono aumentate. Lunedì, come ha riportato il Washington Post, università, sindacati, centri commerciali, la compagnia di bandiera israeliana El Al e persino alcuni diplomatici hanno interrotto il loro servizio, mentre l’aeroporto internazionale Ben Gurion ha cancellato i voli in uscita. In questo contesto alcuni manifestanti si sono radunati davanti alla casa di Netanyahu a Gerusalemme e, quando hanno visto comparire il capo dello Shin Bet (l’agenzia per la sicurezza interna d’Israele), gli hanno gridato «salva la nostra democrazia!». A Netanyahu non è restato che fare un passo indietro: a fronte della necessità di «evitare che la Nazione venga distrutta» – ha detto il primo ministro – «chiedo che venga sospeso» l’iter legislativo di riforma della giustizia. Uno stop non indolore per Netanyahu, ma, come ha affermato lui stesso, necessario per «prevenire una guerra civile».

 

Il rinvio della riforma, tuttavia, non significa la fine della crisi. Per convincere lo scomodo alleato Ben Gvir, Netanyahu ha dovuto fare delle concessioni, e non di poco conto. Il ministro per la Sicurezza nazionale aveva infatti minacciato di abbandonare la coalizione di governo nel caso in cui la riforma fosse stata bloccata. Il tributo che Netanyahu (e con lui tutti gli israeliani) ha dovuto pagare è la creazione di una sorta di guardia nazionale alle dipendenze di Ben Gvir. Quest’ultimo ha reso pubblico il testo dell’accordo per l’istituzione di quella che i critici descrivono come una sua milizia privata: un segno che nemmeno il leader di Otzma Yehudit si fida della parola data da Netanyahu, ha scritto il Times of Israel. Non è tutto: Ben Gvir ha anche tenuto a specificare che la riforma della giustizia verrà comunque approvata e che lui otterrà tutti i finanziamenti richiesti per il nuovo corpo di sicurezza. La creazione di quest’ultimo, che dovrebbe essere composto da 2000 uomini, passerà al vaglio del governo domenica. Intanto si cerca di comprendere quali sarebbero le sue aree di competenza: “crimini nazionalistici”, “terrorismo” e il “ripristino dell’ordine” «dove necessario». Per quanto riguarda l’ultimo punto, Ben Gvir ha fatto riferimento a lungo alle aree del Negev dove sono presenti comunità beduine, mentre alcune fonti a lui vicine hanno affermato che «la guardia nazionale cercherà anche di riportare l’ordine nelle città miste ebreo-arabe come Lod e Ramla». Come facilmente intuibile, la creazione di una forza di questo tipo solleva numerosi problemi e interrogativi. Il più importante riguarda proprio il comando delle azioni svolte: oggi il problema può essere la figura specifica di Ben Gvir, ma in generale, come hanno fatto notare molti critici, porre una forza di questo tipo «sotto il controllo diretto di un ministro del governo […] potrebbe politicizzare le attività di polizia e indebolire il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge». È per questo che l’associazione per i diritti civili israeliana ha sottolineato in una comunicazione inviata al procuratore generale Gali Baharav-Miara che tutte le forze di sicurezza di questo genere devono essere poste sotto il controllo della polizia.

 

Inoltre, il caos seguito alla proposta di riforma della giustizia può avere delle conseguenze per gli equilibri politici interni alla maggioranza. C’è chi ritiene che la volontà di riformare il ruolo e i poteri della Corte suprema sia il collante della coalizione di governo, che resta impegnata a portare a termine quanto iniziato. Ma vi è anche chi è dell’opinione contraria. Siamo sicuri, si è chiesto Anshel Pfeffer su Haaretz, che, dopo aver perso il “primo round”, tutti i membri della coalizione guidata dal leader del Likud abbiano «lo stomaco» per un’altra battaglia? In particolare, suggerisce Pfeffer, mentre il ministro della Giustizia Yariv Levin, alcuni membri di secondo piano del Likud e i partiti del Sionismo Religioso e di Otzma Yehudit non hanno alcuna intenzione di fermarsi (come abbiamo visto dalle dichiarazioni di Ben Gvir), alcuni importanti ministri e i leader dei partiti ultra-ortodossi Shas ed Ebraismo della Torah Unito si sono dimostrati «pubblicamente molto meno determinati». Netanyahu sembra intenzionato ad andare avanti per la sua strada, come evidenziato dalle sue affermazioni: «in un modo o nell’altro promulgheremo la riforma».

 

Il caos sorto intorno a queste proposte di legge ha ripercussioni anche a livello internazionale. È proprio questo uno degli argomenti utilizzati dai detrattori di Netanyahu, che lo accusano di mettere in pericolo le relazioni con gli Stati Uniti e minare così la sicurezza israeliana. A fronte delle pressioni americane, prima diplomatiche e poi esercitate pubblicamente dal presidente Joe Biden affinché la riforma venisse ritirata, il primo ministro israeliano ha diramato (a notte fonda, fatto inusuale) una breve nota nella quale ha affermato: «conosco il presidente Biden da oltre 40 anni e apprezzo il suo impegno di lunga data a favore di Israele [ma] Israele è una nazione sovrana che prende le proprie decisioni secondo la volontà del suo popolo e non basandosi sulle pressioni che giungono dall’estero, incluse quelle dei migliori tra gli amici». Segno evidente, ha chiosato il Washington Post, del deterioramento della relazioni tra Stati Uniti e Israele.

 

L’altra partnership messa (forse) in discussione dalle mosse della coalizione della destra israeliana è quella con gli Emirati Arabi Uniti. Se infatti è vero che gli interessi su cui si basa la relazione tra Tel Aviv e Abu Dhabi rimangono forti, è altrettanto vero che è sempre più difficile per gli Emirati mantenere un’immagine accettabile nei confronti del resto del mondo musulmano. In questo contesto di tensione è diventato più difficile tracciare una demarcazione netta tra le questioni economiche e tecniche da un lato e quelle prettamente politiche dall’altro, ha sottolineato Kristian Coates Ulrichsen (Baker Institute for Public Policy), secondo il quale «la traiettoria del governo Netanyahu suggerisce che, a un certo punto, gli Emirati dovranno prendere una decisione riguardo a se e come proseguire nel coinvolgimento con Israele e gli Accordi di Abramo». Tuttavia, i rapporti tra Israele ed Emirati si basano su molti livelli di cooperazione, e non si limitano alla dimensione politica o diplomatica: l’opinione di Andreas Krieg (King’s College) è che i persistenti interessi securitari ed economici mettono gli Accordi di Abramo al sicuro dalle turbolenze generate dal governo israeliano e da figure come Ben Gvir o Smotrich.

 

Libano, l’ora più assurda (a cura di Michele Brignone)

 

Come se non bastassero i problemi causati da una gravissima crisi economica, domenica 26 marzo i libanesi si sono svegliati con due fusi orari diversi. Un paio di giorni prima di quella data, infatti, il primo ministro ad interim, il sunnita Najib Mikati, d’accordo con il presidente del Parlamento, lo sciita Nabih Berri, ha deciso di rinviare di alcune settimane il passaggio all’ora legale in modo da alleviare il digiuno del mese di Ramadan. Il patriarca maronita Bechara Rai ha però respinto il provvedimento, definendolo “sorprendente”. Come riferisce Le Monde, anche i leader dei due principali partiti cristiani, Samir Geagea e Gebran Bassil, che pure si «detestano cordialmente», hanno invitato «alla resistenza contro l’ora Berri-Mikati». Così le differenze religiose e confessionali, che già segnano in profondità la vita del Paese, si sono tradotte nell’adozione di due orari diversi. Ne è seguito un fiume di commenti sarcastici: «maestri dell’umorismo nero – è ancora la corrispondente di Le Monde da Beirut a scriverlo – i libanesi hanno ironizzato sulla capacità dei loro leader di comprare tempo mentre il Paese affonda, e di sottrarsi a qualsiasi vincolo internazionale».

 

Come si può immaginare, tuttavia, gli effetti della schizofrenia temporale sono stati tutt’altro che divertenti. Per limitarsi a un esempio ampiamente riportato dalla stampa internazionale, la compagnia aerea libanese ha optato per un compromesso, mantenendo l’ora solare, ma adattando gli orari dei voli in modo da farli coincidere con l’ora legale.

 

Un paio di giorni di caos hanno convinto Mikati a tornare sui propri passi, e nella notte tra mercoledì e giovedì il Paese è ufficialmente passato all’orario estivo. Il lieto fine non basta tuttavia a cancellare la triste assurdità  dell’accaduto, come si capisce dall’articolo che alla questione ha dedicato il giornalista de l’Orient le Jour Anthony Samrani, e che merita di essere citato per esteso.  

 

«Possiamo ricavare almeno tre lezioni da questa vicenda. La prima, e non c’è niente di nuovo, è che siamo governati da irresponsabili. Voler conservare lo stesso fuso orario per tutto l’anno è sicuramente comprensibile. La maggior parte dei Paesi della regione lo fa già. Ma ciò presuppone, a monte, di ridurre al minimo le conseguenze tecniche di questo tipo di decisioni in un mondo iperconnesso.  Najib Miqati e Nabih Berri non se ne sono preoccupati. Hanno trattato la questione allo stesso modo in cui trattano i negoziati con l’FMI, la doppia esplosione al porto o l’esodo dei libanesi più qualificati: con una noncuranza offensiva, con una crassa mediocrità e senza un pizzico di dignità e di rispetto per la loro funzione e per coloro che rappresentano. Si dice che abbiamo la classe dirigente che meritiamo. La reazione di una parte del Paese «all’ora Miqati-Berri» sembra confermarlo. È la seconda lezione di questo grottesco spettacolo: invece di unirci, esso ha avuto l’effetto di mettere il dito nelle nostre piaghe. In qualche ora, la polemica si è trasformata in conflitto identitario. L’ora è diventata cristiana o musulmana. Ed è riemerso il peggio del Libano, quello che talvolta si fa finta di nascondere sotto una patina di “convivenza” e di “Paese-messaggio”. I cristiani hanno gridato al lupo. Allora i musulmani hanno alzato la posta. I primi ne hanno fatto una questione esistenziale. I secondi una questione d’onore. Su queste braci incandescenti si sono messi a soffiare populisti e “identitari”, che sognano di dividere il Paese in mini-cantoni su base religiosa. Sono loro, e soltanto loro, i grandi vincitori dell’ennesima tragi-commedia alla libanese.

 

E veniamo alla terza lezione, probabilmente la più importante. Questa sequenza ha confermato a che punto il Libano sia diventato un multiverso, questo termine scientifico, ripreso nell’universo Marvel, che designa un insieme di dimensioni e di realtà parallele. Stiamo accettando di vivere in realtà parallele che quasi nulla ormai sembra in grado di tenere insieme. Come convincere infatti una persona che riceve ancora il suo stipendio in lire, e che ogni giorno si chiede come farà a sopravvivere, che vive nello stesso Paese di uno che viene pagato in dollari e spende per un pasto quello che l’altro guadagna in un mese? Come può un Paese così piccolo avere tanti poveri, tanti rifugiati e così tante persone nei ristoranti e sulle piste da sci?

 

Abbiamo tassi di cambio diversi, diverse monete, più fusi orari, rapporti diversi con la nostra libanesità, con l’Occidente, con il mondo arabo, con l’Iran. È già molto. Troppo. E se non costruiamo al più presto un progetto comune, questi universi paralleli, invece di coesistere, finiranno infrangersi gli uni sugli altri. E il Libano si frammenterà o sparirà. L’ora è grave».

 

Tunisia sull’orlo del baratro (a cura di Mauro Primavera)

 

Le avvisaglie c’erano già da tempo, ma l’allarme in Europa scatta solo ora: la Tunisia è in gravi difficoltà finanziarie e rischia seriamente il default, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero. Le politiche del presidente della repubblica Kais Saied non solo non hanno migliorato le prestazioni economiche dello Stato, ma le hanno addirittura peggiorate, tanto più che non è ancora stato raggiunto l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale per un prestito che darebbe un minimo di respiro al Paese. «A quanto pare, dare la possibilità a una personalità truculenta con nessuna esperienza nella pubblica amministrazione di diventare un autocrate non è stata una scelta saggia per le riforme e la stabilità» constata ironicamente Tarek Megerisi su The Parliament. Saied, incalzato dalle critiche internazionali per via delle sue affermazioni xenofobe e razziste, risponde bollando i suoi detrattori come neocolonialisti e ammiccando a Russia e a Cina. Nel frattempo, però, l’inflazione cresce vertiginosamente e, come mostrano i grafici del Guardian, i flussi migratori verso l’Italia sono in costante aumento dal 2019. «La Tunisia era l’unica storia di successo – osserva Shadi Hamid su Foreign Affairs – l’unico Paese in cui le proteste del 2010-11 hanno instaurato la democrazia per più di un momento». Per l’analista americano, però, non è troppo tardi per gli Stati Uniti e i suoi alleati di invertire la rotta scongiurando gli effetti a catena che deriverebbero dal collasso del sistema tunisino. Il riferimento (nemmeno troppo implicito) è al raggiungimento dell’accordo con il Fondo Monetario Internazionale e alla concessione del prestito, a patto però che Tunisi promuova riforme a tutela della democrazia e del rispetto di diritti politici e civili.  

 

 

In breve

 

Dopo la mediazione cinese per il raggiungimento dell’accordo tra Arabia Saudita e Iran, i rapporti tra Pechino e Riyad s’intensificano ulteriormente: il Regno saudita entra infatti a far parte della Shanghai Cooperation Organization (SCO). Mohammed bin Salman e Xi Jinping hanno avuto un colloquio telefonico nel quale hanno riaffermato la loro «relazione strategica». Interpellato dal Wall Street Journal, Jonathan Fulton, ha affermato che ci apprestiamo a vedere un Medio Oriente non più basato sulla presenza statunitense. Commentando la notizia, l’analista saudita Ali Shihabi ha dichiarato alla CNN che «la tradizionale relazione monogama tra l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti è finita».

 

Il presidente degli Emirati Arabi Uniti ed Emiro di Abu Dhabi Muhammad Bin Zayed ha proceduto a una serie di nomine che rafforzano il peso della famiglia Al Nahyan negli equilibri politici del Paese e ne indirizzano la traiettoria futura: il figlio Khalid Bin Muhammad è il nuovo erede al trono di Abu Dhabi; il fratello di MBZ Mansur Bin Zayed è nuovo vice-presidente della Federazione, un incarico che condividerà con l’emiro di Dubai Muhammad Bin Rashid Al Maktum; altri due fratelli, Tahnun Bin Zayed e Hazza Bin Zayed diventano vice-governanti di Abu Dhabi.

 

Ezgi Yakin si chiede su Al-Monitor se lo sfidante di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali turche abbiamo delle possibilità di imporsi.

 

 

 

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