Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:39:00

Le azioni del presidente tunisino Kais Saied, che nelle ultime settimane ha autorizzato una campagna di arresti contro alcuni esponenti politici e della società civile a lui ostili, hanno destato preoccupazione e provocato lo sdegno di parte della stampa panaraba. Al-‘Arabi al-Jadid considera Saied un “pericolo” e nella classica vignetta di apertura lo ritrae mentre gioca con un mazzo di chiavi che aprono e chiudono le carceri che ospitano i suoi oppositori. «Kais Saied vuole soffocare qualsiasi voce che lo contesti» scrive senza mezzi termini la libanese Jumana Farhat, che aggiunge: «gran parte dei tunisini si è accorta che quello che sta facendo è un attacco e una punizione sistematica contro chiunque si opponga al golpe del 25 luglio 2021, come se volesse vendicarsi dei suoi ripetuti insuccessi del referendum costituzionale e delle elezioni legislative, specialmente dopo che l’opposizione ha approfittato del momento per passare dalla richiesta di dialogo a quella di dimissioni». Ciò avrebbe provocato la dura reazione del capo di Stato, il quale considera le opposizioni come «cellule tumorali da eliminare con la radioterapia o con la chemioterapia». Tuttavia, la testata se la prende anche con  la scarsa partecipazione alle proteste antigovernative, chiedendosi che differenza ci sia tra il potere autoritario di Saied e quello di Ben Ali, quest’ultimo costretto a dimettersi e a fuggire in esilio in Arabia Saudita sull’onda della “Rivoluzione dei Gelsomini”, come fu chiamata la Primavera Araba tunisina del 2011. Allora il cambio di regime fu reso possibile non solo dalla sollevazione popolare (che «non presentava al suo interno divisioni etniche, religiose, tribali e settarie come nel caso siriano, libico e yemenita»), ma anche dal ruolo dell’esercito «che non aveva mire politiche», dall’assenza di minacce da parte di Israele e, più in generale, dal clima internazionale che guardava con favore la svolta democratica del Paese.

 

Per al-Quds al-‘Arabi il ra’īs si trova metaforicamente sopra un albero dal quale non può più scendere. Infatti, dopo il referendum del 25 luglio 2022 Saied si è avvinghiato al tronco e ha iniziato ad arrampicarsi, senza curarsi della folla che stava in basso; poi, «con un sol balzo si è spostato tra i rami», ognuno dei quali rappresenta un settore della società civile e della politica tunisina. Uno dei più grossi è l’UGTT, il sindacato più importante del Paese, che però è stato calpestato dal presidente tramite l’arresto di alcuni membri dell’unione sindacale. Ma Saied è andato oltre, camminando su tronchetti di movimenti e partiti diversi, prendendo di mira soprattutto quelli che lo molestavano maggiormente. Poi, «dopo avere spezzato tutti i rami delle fondamenta costituzionali e averli lanciati a terra, se l’è presa con le fronde della società civile e di diverse associazioni, ignorando che tra queste ve ne erano alcune che all’inizio lo sostenevano convintamente». Anche i ramoscelli che rappresentavano figure nazionali importanti, come accademici e politici, non sono stati risparmiati; stessa sorte hanno subito quelli dell’avvocatura e del giornalismo. Tuttavia, ammonisce la testata panaraba, il presidente ha raggiunto la cima dell’albero e i rametti a cui aggrapparsi sono finiti: scendere ora non è più possibile perché tutti i legni sono stati spezzati; a terra la folla inferocita si appresta a scuotere il tronco, mentre un forte vento fa ondeggiare pericolosamente la pianta...

 

Le relazioni tra presidenza e l’UGTT costituiscono, quindi, una dei principali fattori di tensione della politica interna tunisina, come spiega il giornale al-‘Arab in un articolo del 19 febbraio: «Dal 25 luglio 2021 l’UGTT ha attuato una strategia duplice nel rapporto con il nuovo corso avviato da Saied con l’interruzione dei lavori parlamentari e, successivamente, con l’approvazione di misure volte a concentrare il potere nelle sue mani. L’unione sindacale aveva sostenuto lo stop all’attività parlamentare considerandolo un passo necessario e una richiesta popolare; tuttavia, la sigla ha ostacolato questo cambiamento per cercare un ruolo politico nella nuova fase, regolando la sua posizione ora avvicinandosi, ora allontanandosi, dal nuovo potere. Adesso, però, torna con una giravolta alla sua (vecchia) strategia, alleandosi con coloro che prima combatteva». Per il giornale, che non nasconde le sue simpatie pro-Saied, il sindacato è diventato un vero e proprio partito politico: «L’unione non può creare a tavolino scontri politici e confusione ogni volta che si prepara a sedersi al tavolo del dialogo con il governo imponendo le sue condizioni».

 

Alla critica sulla stretta autoritaria si è poi aggiunto lo scalpore e l’indignazione per le frasi di Saied in merito alla presunta “sostituzione etnica” in corso in Tunisia, utilizzata come pretesto per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’ondata di arresti e dalla pessima situazione economica. Nonostante queste inquietanti dichiarazioni abbiano innescato una serie di rastrellamenti nei confronti degli immigrati di origine sub-sahariana, c’è chi difende il presidente. Lo fa per esempio il giornalista Sufyan Rajab, che nell’editoriale pubblicato il 21 febbraio sul quotidiano tunisino al-Sabah, dal titolo “Lontani dal razzismo”, considera il fenomeno migratorio un fardello insostenibile per le casse dello Stato. Le similitudini con i temi, le frasi e gli slogan dei movimenti europei di estrema destra sono piuttosto evidenti, come dimostrano le parti dell’intervento che riportiamo per esteso: «l’assembramento degli africani subsahariani in Tunisia pone oggi più di un punto interrogativo, soprattutto per via del loro numero, dell’affluenza continua, delle modalità con cui arrivano, del loro stile di vita e, soprattutto, dello scopo della loro presenza nel nostro Paese. La Tunisia necessita di posti di lavoro e non può affatto prendere in considerazione la possibilità di sostentare e far lavorare queste persone alle solite condizioni di fronte all’alto costo della vita, all’aumento dei prezzi e all’inflazione in aumento. La nostra discussione su questo argomento è scevra da qualsiasi forma di razzismo, ma il fenomeno è diventato imbarazzante e minaccia di fatto la sicurezza nazionale del Paese, se si considera l’aggravamento della situazione e la decisione di certe agenzie di farli vivere e risiedere in gruppi, senza documenti e senza reddito fisso; per questo il crimine ha cominciato a infiltrarsi tra di loro, insieme ad altre pratiche extralegali. La lista è lunga e arriva persino a includere la formazione di postazioni di sicurezza e di tribunali in cui si producono illegalmente documenti ufficiali […] La nostra accoglienza all’ondata migratoria africana nel nostro Paese sarebbe accettabile se la situazione fosse normale e rientrasse all’interno di una emigrazione legale, anche illegale, ma solo al fine di sostentarli e di migliorare le loro condizioni. È questo il caso dei tunisini che, similmente, migrano in maniera (il)legale verso l’Italia o altri Paesi dell’Unione Europea, in cerca di una vita migliore. Eppure, i report e la realtà confermano che la situazione attuale non sia così. La scelta di fare della Tunisia un rifugio per gli africani subsahariani si colloca all’interno di un piano preciso, voluto da Stati e organizzazioni, per insediare definitivamente questa gente nel nostro Paese. Ciò può influire sulla nostra sicurezza nazionale […] occorre affrontare in maniera seria la presenza degli africani irregolari e dei relativi pericoli sociali, i cui segnali sono già ora evidenti e avranno ripercussioni nel medio e lungo termine».

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