Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:52:45

All’inizio della settimana Amin Nasser, capo dell’Aramco, la compagnia petrolifera saudita, aveva messo in guardia: il mercato petrolifero e gli operatori si concentrano eccessivamente sul lato della domanda, ovvero sui timori della recessione economica, e questo ha spinto verso il basso il prezzo del petrolio. Tuttavia, affermava Nasser, i problemi verranno, al contrario, dal lato dell’offerta, perché nei prossimi mesi le sanzioni limiteranno la capacità russa di esportare petrolio. Se la Cina ponesse termine alla sua politica di zero-Covid, e dunque ricominciasse a richiedere petrolio al ritmo consueto, ci sarebbe poca spare capacity per rispondere in breve tempo alla nuova domanda.

 

Il giorno dopo le dichiarazioni di Nasser, è arrivata l’attesa conferma: l’OPEC, nella sua versione allargata alla Russia, ha comunicato la decisione di tagliare la produzione di petrolio di due milioni di barili al giorno. Come ha scritto il Financial Times, che ha parlato di un’«onda d’urto», le implicazioni di questa decisione «sono di vasta portata, dal prezzo del petrolio alla futura relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita». L’obiettivo principale del cartello petrolifero è alzare il prezzo del petrolio: gli attuali (circa) 95 dollari al barile sono inferiori ai prezzi registrati nei mesi successivi all’invasione russa dell’Ucraina, ma sono ben più alti di ogni prezzo fatto registrare nel periodo 2015-inizio 2022. L’intenzione dell’OPEC+ è mantenere il prezzo intorno a questi livelli, anche per fare in modo che siano incentivati gli investimenti nel settore, come ha affermato il ministro dell’Energia degli Emirati Arabi rispondendo a una domanda della CNBC.

 

Ma al di là delle questioni economiche ed energetiche, è necessario cogliere i risvolti politici della decisione. Quanto annunciato questa settimana è stato interpretato dalla maggior parte dei media occidentali come uno schiaffo di Riyad a Washington, tanto più se si considera il viaggio estivo di Biden in Arabia Saudita, quando la necessità di aumentare la produzione di petrolio aveva spinto il presidente americano a compiere un’inversione a U nei confronti del principe ereditario Muhammad Bin Salman (ricorderete il famoso fist bump tra i due). Così sembrano pensarla anche oltreoceano. «Il presidente – hanno affermato Jake Sullivan e Brian Deese in una nota congiunta – è rammaricato per la decisione miope dell’OPEC + di tagliare le quote di produzione mentre l’economia globale sta affrontando il prolungato impatto negativo dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin». Riyad sarebbe al contrario sorpresa dall’«isteria» della reazione americana, ha commentato Ali Shihabi, analista vicino al governo saudita. Shihabi ha anche affermato in un colloquio con il New York Times che la decisione dell’OPEC+ non è un atto ostile, ma semplicemente serve per «mantenere il prezzo in una fascia accettabile». Di opinione diametralmente opposta l’esperta di Golfo Cinzia Bianco, la quale ha dichiarato al quotidiano newyorkese che l’azione del cartello è «certamente politica. Non ha niente a che vedere con gli affari».

 

Tuttavia, più che comprendere quali siano le reali motivazioni dell’OPEC+, ciò che conta è che l’intero Occidente interpreta questa decisione come un affronto e come una scelta del cartello di schierarsi con la Russia. Una scelta che nel breve periodo premia l’organizzazione dei Paesi produttori, ma nel lungo rischia di essere un boomerang perché, come avvenuto nel 1973, può spingere i Paesi occidentali a trovare soluzioni alternative alla dipendenza dal petrolio estero. La mossa dell’OPEC+ è anche una risposta al price cap introdotto dall’Unione Europea, che è visto dai Paesi produttori come una minaccia che un giorno potrebbe essere applicata non soltanto alla Russia ma anche a loro.

 

Secondo la redazione del Wall Street Journal, la decisione del cartello di tagliare la produzione è in sé un affronto a Washington, ma si coglie ancora meglio la profondità della frattura se si considerano i rumors di inizio settimana che parlavano di un taglio di un milione di barili. Queste voci avevano spinto la Casa Bianca a fare pressioni su Emirati, Arabia Saudita e Kuwait. Dopo l’iniziativa americana, l’OPEC ha pensato bene di raddoppiare l’entità del taglio (seppur a conti fatti l’effettiva riduzione potrebbe essere inferiore alle previsioni, ed essere realizzata principalmente da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Kuwait). Inoltre, come ha ricordato Javier Blas su Bloomberg, l’OPEC ha anche esteso per un altro anno, fino alla fine del 2023 il “plus”, ovvero il suo coordinamento (alleanza?) con la Russia. «In un mondo in cui anche la Cina mostra preoccupazione e solleva interrogativi riguardo alla politica russa, l’Arabia Saudita è oggi uno dei soli amici certi che sono rimasti a Putin. Potrebbe essere puramente business – un prezzo del petrolio che va bene a Mosca fa felice anche Riyad – ma sembra sempre più [qualcosa] di politico», ha scritto Blas, che ha anche lanciato un avvertimento: per la prima volta dagli anni ’70 i Paesi occidentali non hanno un singolo alleato all’interno dell’organizzazione dei Paesi produttori. Ciò non toglie comunque che esistano anche delle motivazioni “tecniche”. Secondo Kristian Ulrichsen i vertici sauditi (e degli altri produttori) potrebbero aver compreso che questo è l’ultimo «boom dei prezzi» di cui possono beneficiare e, da qui, la necessità di massimizzare i ricavi per finanziare l’auspicata «trasformazione economica e i mega-progetti». Come ha ricordato con un pizzico di ironia il corrispondente dal Medio Oriente dell’Economist, Gregg Carlstrom, riferendosi al progetto di NEOM, «le città lineari da mille miliardi di dollari non si pagano da sole». A proposito di NEOM: ancora non esiste, ma ha già vinto la gara per ospitare i giochi invernali (!) asiatici nel 2029.

 

Nuovi morti e nuove proteste in un Iran sempre più chiuso

 

Le proteste in Iran hanno preso ulteriore vigore in seguito al ritrovamento, a dieci giorni dalla scomparsa, del corpo senza vita della sedicenne Atash Shahkarami. Atash aveva chiamato un amico il 20 settembre, al quale aveva comunicato di essere stata arrestata dalle forze di sicurezza. Come evidenziato anche da questo triste fatto, la repressione da parte delle autorità iraniane è sempre più dura. Abdolrasool Divsallar ha parlato di una politica di maximum suppression da parte della Repubblica islamica che, «anziché riconoscere l’eterogeneità della società iraniana, […] spinge per unire tutta la popolazione attorno a un’ideologia e uno stile di vita imposto dallo Stato. Il risultato è un’ulteriore riduzione delle libertà sociali in Iran dall’inizio della presidenza di Raisi». Durante un discorso tenuto questa settimana, la Guida Suprema Ali Khamenei ha dichiarato che le proteste non ruotano attorno all’obbligo di indossare il velo, quanto piuttosto ad azioni di gruppi separatisti sponsorizzati da potenze straniere. A riprova di questo Khamenei ha citato l’esempio delle molte donne che indossano il velo in maniera tutt’altro che perfetta, ma che sarebbero comunque grandi sostenitrici dello Stato rivoluzionario. Secondo il ricercatore Ali Alfoneh la Guida Suprema è oramai entrata nell’ottica che la battaglia sull’obbligatorietà del velo è persa, e sta perciò cercando di trasformarla in una battaglia contro il rischio di separatismo. Ciò permette al regime di «ignorare le donne senza velo, focalizzarsi sulla salvaguardia della nazione contro minacce separatiste (reali o immaginarie) e, ultimamente, sopravvivere». Tuttavia, la protesta delle donne contro il velo si è estesa ad altri settori della popolazione ed è alimentata da una situazione economica che colpisce pesantemente la classe media iraniana. In questo contesto al-Monitor riporta che il dialogo per ripristinare l’accordo sul nucleare è ripreso: in settimana sono state gettate le basi per la risoluzione del contenzioso con l’IAEA, mentre il ministro degli Esteri iraniano Amir-Abdollahian ha reso noto che Iran e Stati Uniti stanno scambiando messaggi in un tono maggiormente propositivo. Da ultimo, le autorità iraniane hanno liberato il cittadino americano Baquer Namazi, da anni detenuto con l’accusa di collaborazionismo con una potenza ostile.

 

Nuovo colpo di Stato in Burkina Faso

 

In Burkina Faso un gruppo di militari guidato da Ibrahim Traore ha compiuto un nuovo colpo di Stato e rimosso Paul-Henri Damiba, che è fuggito in Togo dopo essersi dimesso.

 

Mentre i rappresentanti dell’ECOWAS (l’organizzazione degli Stati dell’Africa occidentale) erano riuniti a Ouagadougou per tentare una nuova mediazione per il ritorno del potere ai civili, una folla di manifestanti si è riunita esponendo bandiere della Russia e cantando slogan come «lunga vita alla cooperazione tra Russia e Burkina». Secondo l’analista dell’Atlantic Council Michael Shurkin, l’Ecowas ha poca possibilità di incidere sulla situazione a causa del «fallimento del suo approccio irremovibile utilizzato in Mali» e Guinea. È inoltre diffusa la sensazione che l’organizzazione regionale sia soprattutto uno strumento degli interessi francesi. Alex Thurston, ricercatore esperto di Sahel , ha commentato l’accaduto dicendo che il golpe è un «promemoria del fatto che Washington ha una influenza limitata sulla politica saheliana», anche a causa di ambasciate «sottodimensionate» e dell’impiego di personale che vive isolato rispetto alla popolazione locale. Thurston sottolinea un aspetto interessante: i sostenitori della presenza russa nel Sahel sono tali perché pensano di trovare nell’approccio russo la risolutezza necessaria per risolvere i problemi securitari della regione. Tuttavia il caso maliano, dove i russi sono all’opera ormai da diversi mesi attraverso Wagner, dimostra che queste speranze sono mal riposte perché le azioni dei mercenari si stanno rivelando tutt’altro che efficaci.

 

Intanto Traore ha affermato di impegnarsi a mantenere gli impegni assunti dal predecessore e in particolare lo svolgimento di elezioni entro il 2024. Anche per questo l’inviato dell’Ecowas Mahamadou Issoufou si è detto soddisfatto dei colloqui avuti con le controparti Burkinabé.

 

Accordo Ankara-Tripoli

 

Una delegazione turca di alto livello si è recata in visita a Tripoli, dove ha firmato un accordo con il governo presieduto da Abdulhamid Dbeibah per l’esplorazione petrolifera nella zona economica esclusiva libica e nelle acque che si trovano tra la Libia e la Turchia. È molto difficile che l’accordo porti a reali attività nel settore degli idrocarburi, e anzi, secondo quanto riportato da NOVA, il patto serve soprattutto a livello interno turco in vista delle elezioni. Libya Desk ha scritto invece che il memorandum of understanding rischia comunque di favorire l’escalation non soltanto in Libia ma in tutta la regione.

 

In breve

 

Il primo ministro israeliano Yair Lapid ha rifiutato le richieste di modifica all’accordo sui confini marittimi con il Libano e messo in allerta l’esercito israeliano per una possibile escalation (Haaretz).

 

Dopo due rinnovi consecutivi non è stato trovato l’accordo per un prolungamento della tregua in Yemen (Reuters).

 

Quattro persone sono morte e in Afghanistan in seguito a un attentato in una scuola frequentata dalla minoranza Hazara (Al-Jazeera). Secondo un report pubblicato da UNDP le condizioni di vita nel Paese continuano a peggiorare (Washington Post).

 

Il governo etiope e i ribelli del TPLF del Tigrè hanno accettato l’invito dell’Unione Africana a svolgere colloqui di pace in Sudafrica (Al-Jazeera).

 

 

Le elezioni in Kuwait tra “grosse novità” e “niente di nuovo”

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

Il risultato della tornata elettorale in Kuwait, caratterizzata dall’avanzata dell’opposizione, tra cui il Movimento Costituzionale Islamico, partito locale della Fratellanza Musulmana, e dalla nomina di 22 donne, ha spinto la stampa nazionale a riaprire il vecchio dibattitto sulla democrazia nei Paesi del Golfo. ‘Abd al-Latif al-Nusf editorialista del quotidiano locale al-Nahar, dà la risposta già nel titolo del suo intervento: «Né democrazia né dittatura nel Golfo»: è vero che lo svolgimento di un’elezione non è sufficiente, da sola, a garantire l’esistenza di un reale processo democratico, ma è altrettanto corretto far notare come in Kuwait le relazioni fra governanti e governati non siano critiche come nel caso dei regimi di Saddam e Gheddafi o come nella cosiddetta «democrazia mediorientale», una finzione che ha causato caos e malessere in Levante. Al contrario, le petromonarchie coniugano buongoverno e ottima qualità di beni e servizi, equiparabili ai livelli del primo mondo; tuttavia, sorprende il fatto che l’autore equipari la situazione del suo Paese a quella di Stati come Qatar, Emirati e Arabia Saudita, molto più autocratici rispetto al Kuwait. Sempre al-Nusf aggiunge in un altro articolo che uno dei primi atti del neoletto parlamento dovrà riguardare la revisione di alcuni articoli della Costituzione, al fine di rendere più responsabili gli eletti ed eliminare la corruzione.

 

Al-Quds al-‘Arabi elogia la votazione, definendola una «promettente esperienza di democrazia araba», dal momento che «i risultati delle ultime elezioni e le correzioni degli errori del passato sono indice della maturità negli orientamenti sociali e politici degli elettori, dimostrando che l’ingiusta accusa lanciata da alcune persone disoneste nei circoli occidentali – ossia che gli arabi siano incapaci di praticare la democrazia e accettarne i principi teorici – è una falsità orientalista e razzista». Molto più cauta la visione di al-Jazeera: nonostante qualche elemento positivo, la tornata «non presenta grosse novità, se si esclude l’iniziativa del governo» nel portare avanti le riforme. Inoltre, in Kuwait il termine “opposizione” non si addice alla situazione politica del Paese; esistono, semmai, alcune voci isolate e critiche nei confronti del governo. Secondo l’emittente di Doha, il vero problema sarebbe l’eccessivo individualismo (fardiyya), cioè la mancanza di coesione dei deputati nel portare avanti progetti e riforme, che col tempo ha generato una perdita di efficacia del servizio pubblico, limitando considerevolmente i due compiti principali che dovrebbero svolgere le istituzioni: l’attività legislativa ed esecutiva.

 

Simile il commento critico dell’egiziano al-Ahram, ostile, come il regime di al-Sisi, all’avanzata dell’Islam politico: al riconoscimento dei progressi ottenuti nel rafforzamento dei meccanismi democratici si aggiunge il disappunto per «la mescolanza tra religione e politica» contenuta nel “documento dei valori”, promosso da alcuni politici conservatori.  

 

Egitto: nostalgie del passato per nascondere i problemi del presente  

 

In questo periodo si commemora in Egitto il quarantanovesimo anniversario della “Harb Uktubar”, meglio nota in Occidente come “Guerra dello Yom Kippur”, quando il presidente Sadat riottenne il controllo del Sinai perduto durante la Naksa del 1967. In questo caso è interessante notare come il passato sia funzionale a rilanciare l’immagine del Paese nello scenario regionale. Al-Ahram pubblica, tra i tanti contributi usciti in questi giorni, un editoriale poi ripreso da al-Arabiya sulla forza del soft power egiziano, che da sempre influenzerebbe gli altri Paesi arabi tanto sul piano politico, come nel caso della Nahda e del nasserismo, quanto su quello culturale, primato sancito dall’affermazione del dialetto egiziano come lingua franca in sostituzione dell’arabo classico. «Il progetto nazionale dell’Egitto va avanti nonostante le numerose sfide», ma, per funzionare, necessita di una grande coesione interna e deve evitare il ritorno della “deviazione” della Fratellanza. «La nazione – conclude l’articolo – ha imparato dalla sua storia recente le caratteristiche del realismo politico […] non è più legata al sogno di una ideologia regionale, né è vittima di una reputazione basata sulla resistenza al sistema internazionale contemporaneo», al punto da dialogare con le principali potenze: Stati Uniti, Cina e Russia.   

 

Per contro, Al-Jazeera pubblica un “contro-articolo” in cui illustra, con dovizia di date e riferimenti storici, il difficile passaggio del Paese da un’economia statalista a una di libero mercato. Al-Arab al-Jadid ricorda come il governo del Cairo faccia fatica a mantenere bassi i prezzi dei cereali e a proteggere le sue varietà di piante e sementi da quelle estere: «l’Egitto, che annuncia grandi progetti agricoli nazionali come il Nuovo Delta […] è vicino a perdere la sua sovranità sul Nilo, sulle cui sponde fiorì la sua civiltà, dopo essersi piegato all’intransigenza dell’Etiopia in merito alla costruzione della Diga della Rinascita».

 

E l’OPEC?

 

È (ancora) poco commentata la notizia della decisione dell’OPEC di tagliare la produzione di due milioni di barili al giorno. Prosegue, invece, il dibattito intellettuale sui cambiamenti culturali e politici nel mondo arabo: questa settimana al-Quds analizza il rapporto tra religione e nazionalismo, mentre al-Jazeera si sofferma sull’evoluzione del discorso politico, condizionato dai repentini cambiamenti ella globalizzazione e dall’erosione delle identità laiche e religiose.   

 

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