Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:52:45

La settimana scorsa abbiamo titolato il nostro Focus attualità “Il Sudan sprofonda nella violenza. Verso la guerra civile?”. A sette giorni di distanza rischiamo di dover togliere il punto interrogativo. Il triste conteggio, aggiornato a giovedì pomeriggio, parla di 512 morti e 4193 feriti, ma i numeri sono destinati a crescere.

 

In questi giorni molti hanno cercato di abbandonare il Paese mentre, nonostante l’annuncio di una tregua, i combattimenti non si sono mai realmente fermati. Al contrario, gli scontri a fuoco sono aumentati proprio all’approssimarsi della fine del cessate-il-fuoco, con bombardamenti aerei anche su Khartoum. La tregua è stata infine rinnovata giovedì sera ma, di nuovo, i combattimenti sono proseguiti ed è stato colpito anche un C130 turco presente nel Paese per l’evacuazione dei civili.

 

La situazione è resa più complicata e difficile per i civili dal fatto che entrambe le fazioni in lotta hanno basi militari all’interno di aree densamente popolate, mentre emergono, stando a quanto riportato da Foreign Policy, notizie sull’occupazione di ospedali a scopi bellici e sull’aumento sia di atti di vandalismo che della presenza di truffatori che si fanno pagare per scortare i cittadini fuori da Khartoum, salvo poi rapinarli. Come se non bastasse, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme in seguito all’occupazione da parte delle forze di Hemedti (che smentiscono) di un laboratorio che potrebbe trasformarsi in una «bomba batteriologica» a causa della presenza di ceppi di colera, polio e morbillo.

 

Mercoledì oltre 20.000 sudanesi avevano raggiunto il Ciad (che già ospita più di mezzo milione di rifugiati), ma il numero è destinato a salire fino ad almeno 100.000, hanno avvertito le Nazioni Unite. La maggior parte di questi civili sono partiti dalle città di Nyala ed El Geneina, nella parte occidentale del Darfur, dove i combattimenti sono stati più intensi. Altri hanno scelto di andare verso l’Etiopia, il Sud Sudan o l’Egitto, ma il tratto comune a molti viaggi è che la cosa più difficile è uscire dalla capitale, i cui ponti sono occupati dalle forze militari di entrambi gli schieramenti.

 

Intanto i Paesi stranieri hanno evacuato i propri cittadini, approfittando delle 72 ore di tregua (più o meno rispettata) e facendo spesso rotta sulla base americana di Camp Lemonnier a Djibouti, come ha scritto al-Monitor. Molti altri hanno avuto la fortuna di raggiungere prima Port Sudan e poi Gedda, in Arabia Saudita, dove sono state evacuate persone di oltre 50 nazionalità. Il viaggio verso Port Sudan, raccontato in prima persona dall’antropologa Nisrin Elamin in un thread su Twitter (ora l’account risulta cancellato), è faticoso e pericoloso, ma probabilmente «la soluzione migliore e meno costosa» per chi vuole lasciare il Sudan.

 

Le operazioni di evacuazione del personale straniero e la fuga dei civili sudanesi sono rese più complicate dal fatto che, come accennavamo, la tregua non è stata comunque rispettata: secondo al-Jazeera non c’è stato un solo giorno senza che si siano verificate violenze.

 

In questo contesto è emersa con forza la domanda circa le sorti di Omar al-Bashir. L’ex dittatore avrebbe dovuto trovarsi nel carcere di Kober, a Khartoum, ma un funzionario detenuto insieme a lui ha reso noto che martedì molti hanno abbandonato la prigione in seguito alla decisione dell’esercito di rilasciare i detenuti a causa della mancanza di cibo, acqua ed elettricità. Secondo al-Jazeera lo spostamento di al-Bashir e altri detenuti è invece avvenuto dopo gli scontri che hanno coinvolto anche la prigione di Kober. L’esercito ha poi affermato che al-Bashir si trova in custodia in un ospedale militare, senza però fornire dettagli né tantomeno prove visive. Su una cosa concordano sia il New York Times che al-Jazeera: il rilascio di decine di migliaia di prigionieri e i dubbi sulla sorte di al-Bashir creano un ulteriore senso di incertezza e di anarchia nel Paese.

 

Diversi media internazionali si sono soffermati intanto sulla campagna di PR organizzata negli ultimi anni da Hemedti. Le sue RSF erano considerate dall’ex dittatore al-Bashir come uno scudo contro i potenziali colpi di Stato dei militari, ciò che ne evidenzia il ruolo politico oltreché militare, ha scritto Yasir Zaidan (Università Nazionale del Sudan). Dopo la guerra in Darfur Hemedti ha rifiutato l’incorporazione degli “eredi” dei Janjaweed all’interno delle forze armate, ha dichiarato Hasan Ali, professore all’università di Karthoum. Dopo questo rifiuto le RSF di Hemedti sono state incorporate nei servizi di intelligence fino a quando, nel 2017, sono state associate alle forze armate sudanesi con una legge che però garantiva alle RSF una catena di comando autonoma e una struttura separata. Nel tentativo di migliorare la propria immagine Hemedti ha nominato suo consulente Faris Al-Noor, uno degli attivisti al centro delle manifestazioni a Khartoum del 2019. Compito simile è stato affidato alla società canadese Dickens&Madison (diretta da Ari Ben-Menashe, ex membro dell’intelligence israeliana). Anche Hafiz Mohamed, direttore dell’istituto di ricerca sudanese Justice Africa, è stato contattato da Hemedti, il quale avrebbe promesso ricchi stipendi in dollari per lavorare al suo fianco. Hemedti, ha detto in seguito Mohamed, ha sempre «pianificato la costruzione del suo impero. Aveva già i soldi e il proprio esercito, quindi stava lavorando sulle sue relazioni pubbliche e sull’impegno civico». La narrazione di Hemedti, ricorda al-Jazeera, ruota attorno a un punto non nuovo: la difesa dai civili dagli «estremisti religiosi dell’esercito».

Turchia: l’opposizione non sfonda

 

La salute del presidente Erdoğan è stata al centro dell’attenzione durante questa settimana. Martedì, infatti, il leader dell’AKP ha dovuto interrompere un’intervista a causa di un acuto mal di stomaco. Sono circolate diverse notizie secondo cui il presidente avrebbe avuto invece un infarto, ciò che è stato smentito anche dal video diffuso poco dopo l’episodio, in cui è Erdoğan stesso a spiegare l’accaduto. Sta di fatto che Erdoğan è stato costretto a cancellare diversi appuntamenti tra cui, notizia dell’ultim’ora, anche quelli di venerdì 28 aprile. La motivazione ufficiale fornita dai funzionari presidenziali è la grande stanchezza dovuta a un periodo particolarmente impegnativo.

 

Erdoğan si trova in effetti ad affrontare la più difficile sfida posta negli ultimi 20 anni al suo governo. L’economia resta il punto dolente principale, aggravato dal terremoto del febbraio scorso che ha causato danni stimati in oltre 103 miliardi di dollari. Proprio a seguito del terremoto più del 50% degli elettori intervistati da un sondaggio condotto da al-Monitor e Premise Data ha affermato che la fiducia nel presidente Erdoğan è diminuita. Ciò si deve probabilmente anche a un nuovo problema che emerge nelle aree colpite dal sisma: quello delle montagne di macerie e detriti che diversi attivisti temono possano diffondere sostanze nocive.

 

La Turchia è uno dei Paesi che, a livello globale, soffre di tassi di inflazione più elevati: 51% secondo i dati ufficiali, ma 112% secondo i valori indicati da economisti indipendenti citati dal Wall Street Journal. Non a caso il candidato dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu «ha fatto del costo della vita uno degli elementi centrali della sua campagna». Secondo sindacati, politologi e funzionari locali, i problemi economici possono erodere il sostegno anche all’interno della base elettorale che in passato ha portato Erdoğan a vincere le elezioni. In ultima analisi, ha detto Selva Demiralp, professoressa alla Koc University di Istanbul ed ex economista della FED, «ciò che conta è se puoi sfamare la tua famiglia». Ecco perché l’AKP fa il possibile per spostare l’attenzione della campagna elettorale su temi diversi da quello economico. Lo evidenzia anche il fatto che sia stato scelto il ministro della Difesa Hulusi Akar, che ha passato decenni nell’esercito e non ha mai gareggiato per una carica elettiva, per concorrere nel distretto di Kayseri, al cuore della regione economica delle “tigri anatoliche”. Intanto, è proprio dal settore della Difesa che la Turchia ottiene delle soddisfazioni: l’ultima notizia è l’accordo da oltre 300 milioni di dollari per la vendita alla Romania di 18 droni Bayraktar, divenuti famosi soprattutto per l’uso che ne hanno fatto le forze armate ucraine per contrastare l’invasione della Russia.

 

Nonostante il periodo difficile che attraversa la Turchia, dal già citato sondaggio al-Monitor/Premise Data emerge che «l’opposizione non è riuscita a capitalizzare il crescente malcontento economico e sociale». È la conclusione a cui si giunge se consideriamo che ben il 62% degli intervistati si dice scontento dello status quo, che oltre il 45% (contro il 29%) ritiene che la Turchia stia andando nella direzione sbagliata, ma, nel caso del tutto probabile di un ballottaggio tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu il primo risulta in leggero vantaggio: 45,2% contro 44,9%. (Il marine d’errore dell’indagine è +/- 3) Ciò che molti criticano di Kılıçdaroğlu è la mancanza di carisma, a cui si potrebbe imputare proprio l’incapacità di capitalizzare sulle difficoltà di Erdoğan. Tuttavia, come ha osservato Didier Billion (French Institute for International and Strategic Affairs), è vero che il candidato del CHP «non ha il carisma di Erdoğan, ma questo non è realmente un problema in questa campagna, perché Erdoğan è stato una figura altamente polarizzante in Turchia per anni. In questo contesto una grande porzione di elettorato vuole che le cose si calmino». L’atteggiamento di Kılıçdaroğlu, allora, potrebbe apparire rassicurante.

Assassinio in Iran

 

Un nuovo caso in Iran: dopo quello che nei mesi scorsi ha riguardato l’avvelenamento di centinaia di ragazze, ora è il turno di un misterioso assassinio. L’ayatollah Abbas Ali Soleimani, membro dell’Assemblea degli Esperti (l’organo deputato ad eleggere la nuova Guida Suprema) è stato ucciso da un addetto alla sicurezza mentre si trovava in una banca nella provincia settentrionale di Mazandaran. I video delle telecamere della banca mostrano una scena molto strana, in cui l’uomo spara al chierico prima di essere momentaneamente fermato da due persone, che poi l’hanno lasciato andare senza opporre troppa resistenza. Nessuno, mostrano i video, si è preoccupato di soccorrere rapidamente Soleimani.

 

Al momento «le nostre informazioni e documenti indicano che non si è trattato di terrorismo e che l’assalitore ha sparato casualmente e non conosceva l’ayatollah Soleimani», ha dichiarato il governatore della provincia di Mazandaran. Situazioni di questo tipo sono molto rare in Iran, ma dopo le proteste scoppiate in seguito alla morte di Mahsa Amini sono aumentati in generale i casi di attacchi agli esponenti del clero sciita iraniano. «La società – ha detto Mohammad Javad Akbarin, ex studente di un seminario di Qom, diventato dissidente – è così risentita nei confronti dei chierici che, se vede una pistola, sparerà al primo chierico che vede».

 

Va infine sottolineato, come ha fatto Amwaj Media, che Soleimani è stato il rappresentante della Guida Suprema Khamenei per la provincia del Sistan-Baluchistan, dove anche negli ultimi giorni si sono verificati disordini e violenze. Non è comunque chiaro, per ora, se ci sia qualche collegamento tra l’assassinio e quanto avviene nella provincia iraniana orientale.

 

In breve

 

I documenti di intelligence americani ottenuti dal Washington Post mostrano che la Cina potrebbe aver ripreso la costruzione di una base militare vicino ad Abu Dhabi.

 

Un editoriale pubblicato sul Financial Times mette in guardia sui rischi derivanti dalla normalizzazione dei rapporti tra i Paesi arabi e la Siria.

 

Secondo funzionari americani le attività di aerei e droni russi in Siria pongono un rischio sempre più elevato che si verifichino incidenti che coinvolgono le forze armate americane presenti nell’area (Wall Street Journal).

 

Decine di migliaia di sostenitori del governo di Benjamin Netanyahu sono scesi nelle strade di Israele per dimostrare il loro supporto al piano di riforma della giustizia (Al-Jazeera).

 

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