Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:05:32

In Sudan 39 civili, in maggioranza donne e bambini, sono stati uccisi in un «devastante bombardamento di artiglieria» della città di Nyala, nel sud del Darfur, dove si sono intensificati i combattimenti tra l’esercito e le Forze di Supporto Rapido (RSF) guidate da Mohammad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti. Le opposte fazioni in lotta, si legge sul Sudan Tribune, si rimpallano la responsabilità per l’uccisione dei civili. Intanto, anche nella capitale Khartoum continuano a esserci combattimenti e scontri a fuoco. Come accaduto vent’anni fa, le violenze più gravi hanno luogo però in Darfur: la maggior parte delle vittime sono le stesse, membri delle tribù Masalit, e sono gli stessi anche i loro aguzzini, sebbene non si facciano più chiamare Janjaweed. Oggi come allora, ha scritto il Washington Post in un editoriale a firma della redazione, siamo di fronte a una campagna «sistematica di pulizia etnica», nei confronti della quale la comunità internazionale fa poco o niente, denuncia il quotidiano americano. Secondo il Guardian dallo scoppio del conflitto sono già 4000 le persone che hanno perso la vita, mentre 4,5 milioni hanno dovuto abbandonare la propria abitazione.

 

Un capitolo a parte, purtroppo, è quello delle violenze sessuali a cui sono soggette le donne. Sulima Ishaq, capo dell’unità locale per combattere la violenza contro le donne e i bambini, ha documentato finora 124 stupri, ma teme che si tratti solo della punta dell’iceberg: «è molto difficile ottenere dati affidabili» a causa delle scarse connessioni telefoniche, dei ricorrenti blackout e della difficoltà a tenere traccia dei sopravvissuti che abbandonano il Paese per recarsi in Ciad o negli altri Paesi confinanti con il Sudan. Inoltre, il timore nei confronti di rappresaglie riduce la disponibilità delle vittime a denunciare quanto avvenuto. Secondo Ishaq queste pratiche non soltanto sono «umilianti e degradanti della dignità umana», ma a volte fanno anche parte della strategia dei militanti: «per far sì che le persone abbandonino le proprie case, minacciano di condurre violenza sessuale contro le donne». Nella maggioranza degli oltre cento episodi documentati da Ishaq i responsabili sono membri delle RSF. Tuttavia diverse organizzazioni per i diritti umani hanno specificato che entrambe le parti in conflitto, ciascuna con le proprie milizie affiliate, sono responsabili di «crimini di guerra e di saccheggi sfrenati».

 

Secondo Ishaan Tharoor (Washington Post) quello a cui stiamo assistendo è uno «scontro vecchio stile tra signori della guerra rivali, in lotta per il territorio e il potere». Ciò comporta un generale peggioramento delle condizioni sul campo: sono 14 milioni secondo il quotidiano statunitense i bambini che non hanno accesso ai servizi elementari, come l’educazione e le vaccinazioni. Secondo Yasir Elamin, presidente della Sudanese American Physicians’ Association, la conseguenza sarà la morte di diversi bambini a causa di malattie come malaria e diarrea.

 

In questa situazione, non sembra essere possibile sperare, nel breve periodo, in un’interruzione delle ostilità: domenica Hemedti ha reso noto un piano composto da 10 punti per raggiungere una «pace durevole» e porre fine a una guerra che le RSF «non hanno cercato né iniziato», secondo la sua versione dei fatti. Hemedti ha lanciato l’idea di un futuro Sudan caratterizzato da un «sistema federale a-simmetrico», ma il suo rivale al-Burhan ha chiarito che non c’è spazio per i negoziati con i «traditori». Il capo dell’esercito si è reso protagonista anche del primo viaggio all’estero dallo scoppio delle ostilità, recandosi in visita ufficiale al Cairo, dove ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, suo alleato. Come riporta Reuters, al-Sisi si è reso disponibile a svolgere una mediazione. Sebbene ufficialmente al-Burhan accetti di buon grado la proposta di al-Sisi, nelle sue dichiarazioni non ha lasciato alcuna apertura alla possibilità che si svolgano dei colloqui con i suoi nemici. Stando a quanto affermato dall’agenzia di stampa, dopo l’incontro con il presidente egiziano, al-Burhan dovrebbe recarsi anche in Arabia Saudita, Paese che si è reso protagonista di diversi tentativi di mediazione che hanno portato negli scorsi mesi alla firma di accordi di cessate-il-fuoco che sono poi stati violati da tutte le parti in causa.  L’Arabia Saudita non è tuttavia l’unico attore del Golfo a svolgere un ruolo importante in quello che sta avvenendo in Sudan. Anche gli Emirati Arabi Uniti giocano la loro partita. Per tutti i Paesi del Golfo, infatti, il Sudan è una «pietra di passaggio» dalla Penisola arabica all’Africa, come si legge nell’articolo scritto da Giorgio Cafiero su The New Arab. Tuttavia, se dopo la caduta di Omar al-Bashir le agende di Abu Dhabi e Riyad erano piuttosto allineate, e i due Paesi del Golfo avevano ottenuto una significativa influenza su Khartoum a spese della Turchia e del Qatar, ora – si legge sempre nell’articolo di Cafiero – Arabia Saudita ed Emirati rivaleggiano. Mentre la prima è più vicina ad al-Burhan, infatti, i secondi sono alleati delle RSF di Hemedti. Secondo Talal Mohammad, citato da The New Arab, Hemedti sarebbe un «custode degli interessi emiratini in Sudan»: proteggendo le miniere d’oro dove opera la Wagner, egli permette anche che il metallo prezioso venga fatto transitare negli Emirati prima di raggiungere Mosca. Al contrario, ha scritto Cafiero, l’Arabia Saudita ha finora cercato di posizionarsi come un mediatore senza sostenere nettamente soltanto una delle parti, nonostante Riyad propenda per al-Burhan per via della sua maggiore legittimità a livello internazionale.

 

Nuove proteste in Siria. Ma il regime rischia davvero?

 

In un contesto flagellato dall’inflazione alle stelle, il governo siriano del presidente Bashar Assad ha tagliato i sussidi sui carburanti, complicando ulteriormente la situazione per moltissimi siriani. Così, nonostante oltre un decennio di violenze e tattiche brutali per evitare il riproporsi di quanto avvenuto nel 2011, sono scoppiate nuove proteste, soprattutto nel sud del Paese. Le manifestazioni di dissenso sono incominciate il 20 agosto nella città di Sweida, al grido di «la Siria vuole libertà». Come ha scritto il Washington Post, il taglio dei sussidi e l’inflazione hanno un effetto devastante su un Paese dove il 90% della popolazione vive in condizioni di povertà. È anche per questo che Damasco ha cercato di alleviare l’impatto della modifica dei sussidi raddoppiando il salario dei dipendenti pubblici. Tuttavia, secondo una delle manifestanti di Sweida, anche raddoppiando il salario, la quantità di denaro guadagnato non è assolutamente sufficiente per tenere il passo rispetto all’aumento del costo della vita. Sweida è abitata principalmente dalla minoranza drusa e si trova a poco più di 50 chilometri da Daraa, dove iniziarono le proteste del 2011. Secondo quanto riporta Sara Dadouch, il governo siriano finora ha ignorato quanto sta avvenendo, nel tentativo di evitare un’escalation. Tuttavia, il sito Middle East Eye, legato al Qatar e tradizionalmente anti-Assad, scrive che le proteste si sono diffuse in altre aree del Paese controllate dal regime (Aleppo, Deir Ezzor, Jableh, Daraa) e hanno guadagnato forza. Come già avvenuto in passato le rivendicazioni a carattere economico sono accompagnate da richieste di tipo politico. Lo testimonia il fatto che i manifestanti di Sweida sottolineino l’importanza del rilascio dei detenuti e delle persone scomparse. Inoltre, al contrario di quanto si legge sul Washington Post, per MEE il governo siriano ha reagito con forza alle proteste, utilizzando anche colpi di arma da fuoco per intimidire e disperdere i manifestanti.

 

Come ha scritto Amberin Zaman su Al-Monitor, queste proteste sono una novità anche perchè gran parte della popolazione drusa siriana era rimasta neutrale durante la guerra civile. Ora i sunniti di Daraa si sono uniti alle proteste druse e cantano insieme lo slogan «pane, libertà, dignità». Non solo. Una delle armi propagandistiche del regime era proprio che oltre alla minoranza alawita, cui appartiene Assad, anche le altre minoranze sono rimaste fedeli al regime negli anni della guerra. Ora invece, le proteste dei drusi fanno crollare questa narrazione, ha osservato Joshua Landis (direttore del Middle Center dell’Università dell’Oklahoma). Zaman non esclude che le proteste possano aumentare e porre una nuova sfida al governo, soprattutto perché si sono già estese ad altre zone della Siria e perché i curdi del Consiglio democratico siriano e quelli del Consiglio nazionale del Kurdistan, solitamente rivali, hanno espresso il loro sostegno ai manifestanti drusi. Secondo Aaron Lund (The Century Foundation) il regime siriano non rischia di cadere, ma al tempo stesso «è particolarmente difficile per Damasco avere a che fare con questa [situazione] perché non ha virtualmente nessuna “carota” da offrire: l’economia è un buco nero».

 

Quanto sta avvenendo ha naturalmente anche delle implicazioni a livello internazionale. Le nuove proteste giungono proprio dopo che Damasco ha normalizzato le relazioni con diversi Paesi arabi ed è stata riammessa nella Lega araba. La popolazione, infatti, ha capito sulla propria pelle che la normalizzazione delle relazioni con i Paesi della regione – anche con quelli ricchi del Golfo – non porterà necessariamente dei benefici per la loro situazione. Quantomeno non nel breve periodo. E difficilmente potrà servire a qualcosa l’alleato iraniano, che allo scoppiare di nuove proteste ha ribadito che rimarrà al fianco di Assad. Anzi, la presenza iraniana non fa che aumentare le probabilità che Israele colpisca in Siria, come avvenuto questa settimana ad Aleppo, dove un raid israeliano ha messo fuori uso l’aeroporto.

 

Con NEOM l’Arabia Saudita vuole definire un nuovo standard globale

 

Dopo gli enormi investimenti nel mondo del calcio – questa settimana l’ex CT della Nazionale italiana Roberto Mancini ha firmato un ricco contratto con la nazionale saudita – l’Arabia Saudita continua a far parlare di sé per suoi corposi investimenti. Secondo il Financial Times, il veicolo d’investimento creato dal Public Investment Fund, il fondo sovrano saudita, avrebbe messo nel mirino le arti marziali miste. L’obiettivo saudita è quello di acquisire una quota di minoranza (per ora) nella lega di combattenti professionistici americana, con l’obiettivo di creare una serie di competizioni in tutta l’area del Medio Oriente e del Nord Africa. Anche questa volta, la decisione saudita pone Riyad in competizione con gli Emirati Arabi Uniti, che da tempo sono i «patrocinatori degli sport da combattimento nella regione». Un altro ambito di competizione sembrava essere quello del trasporto aereo civile, con l’Arabia Saudita che ha lanciato la nuova compagnia Riyadh Air (sempre di proprietà del PIF) con ambiziosissimi piani di crescita che potrebbero porla in competizione con i pesi massimi regionali, Emirates e Qatar Airways. Tuttavia, l’amministratore delegato della nuova compagnia, Tony Douglas, ha sottolineato che in questo caso il progetto saudita si concentrerà soprattutto sul mercato interno, con l’Arabia Saudita che sarà punto di partenza e destinazione dei viaggiatori, senza l’intenzione di creare un hub che attragga anche gli scali. In questo caso dunque, ha assicurato Douglas, non vi sarà competizione con Qatar ed Emirati.

 

Mentre secondo i critici gli investimenti sportivi sauditi fanno parte di un progetto di «sportwashing», volto a deviare l’attenzione dalle violazioni dei diritti umani, le autorità del Paese sottolineano che si tratta di iniziative coerenti con l’obiettivo di diversificare l’economia saudita, in linea con il progetto Saudi Vision 2030 che, lanciato nel 2016, si trova a metà del cammino. La punta di diamante di Saudi Vision sono NEOM e la città The Line al suo interno. Queste, come si legge su Business Insider, «simboleggiano tutto ciò che l’Arabia Saudita vuole ottenere attraverso Vision 2030: impegnarsi in un futuro post-oil, costruire spazi vivibili con opportunità economiche e stabilire lo standard di una città futuristica che altri nel mondo possano emulare». Tuttavia, secondo Simon Mabon (Foreign Policy Center) «non si tratta solo di diversificare l’economia, ma di trasformare la società con l’obiettivo di creare un’economia agile che possa rispondere alle sfide del mondo moderno».

 

Anche l’intenzione saudita di dotarsi di un programma nucleare civile rientra all’interno della progettazione di un futuro post-oil. Riguardo al nucleare, però, oltre agli aspetti energetici ed economici ci sono importanti risvolti politici. Mentre la Casa Bianca spinge affinché Riyad normalizzi i rapporti con Israele, l’Arabia Saudita include la collaborazione americana sul dossier nucleare tra ciò che il Regno dovrebbe ottenere in cambio da Washington. Tuttavia, gli Stati Uniti cercano di limitare l’accesso a questa tecnologia e dunque, secondo il Financial Times, l’Arabia Saudita sta considerando le offerte di Francia, Cina e Russia.

È sempre nell’ottica della potenziale normalizzazione con Israele, scrive il Wall Street Journal, che va letta l’ipotesi che l’Arabia Saudita ricominci a finanziare l’Autorità Palestinese. Dal 1948 Riyad ha destinato oltre 5 miliardi di dollari alla causa palestinese, ma dal 2016 il flusso ha cominciato a diminuire, fino ad annullarsi completamente nel 2021.

 

L’affaire Mangoush-Cohen e i limiti delle normalizzazioni con Israele

 

Dopo che è stato reso pubblico l’incontro, che avrebbe dovuto rimanere segreto, tra il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e l’omologo libico Najla Mangoush, il primo ministro di Tripoli Abdulhamid Dbeibah ha rimosso quest’ultima, anche nel tentativo di sedare l’ondata di indignazione e di disordini che si sono diffusi in Libia. Inoltre, come ha scritto il New York Times, Mangoush è fuggita in Turchia per tutelare la propria sicurezza. Secondo Riccardo Fabiani (International Crisis Group) è però difficile che Mangoush abbia incontrato Cohen senza il benestare del primo ministro, il quale, anzi, dipendendo completamente dal sostegno della comunità internazionale, avrebbe visto di buon occhio un incontro con gli israeliani per dimostrarsi sensibile alle richieste degli Stati Uniti. La pensa in modo molto simile Alissa Pavia (Atlantic Council), secondo la quale Mangoush sarebbe diventata un capro espiatorio, mentre tutta l’élite politica libica sapeva che questo genere di incontri va avanti da 6-8 mesi. La mossa però si è rivelata un boomerang e ora il governo libico è ulteriormente indebolito. Quanto avvenuto dimostra soprattutto i limiti dei processi di normalizzazione con Israele: sebbene le classi dirigenti dei Paesi a maggioranza musulmana siano spesso favorevoli ad avere normali relazioni con lo Stato ebraico, anche per avvantaggiarsene in ambito economico, tecnologico e securitario, il sentimento anti-israeliano continua a permeare la maggior parte delle società mediorientali.

 

Francia: vietato indossare l’abaya nelle scuole pubbliche [a cura di Chiara Pellegrino]

 

In Francia da lunedì le studentesse non potranno più entrare nelle scuole pubbliche indossando l’abaya, l’abito lungo tradizionale indossato dalle donne musulmane, a seguito della decisione comunicata domenica scorsa dal ministro dell’Istruzione Gabriel Attal. Giovedì lo stesso ministro ha esteso il divieto anche al qamis, la versione maschile dell’abaya. Questa decisione, spiega Le Monde, trova fondamento nella legge del 15 marzo 2004 riguardante il divieto di indossare negli istituti scolastici pubblici indumenti o simboli che indicano un’appartenenza religiosa. La nota diffusa dal ministero alle scuole prevede inoltre l’attuazione di un procedimento disciplinare in caso di infrazione della norma.

 

«Gli attacchi alla laicità si sono moltiplicati», ha dichiarato Attal, ma il punto, scrive Sandrine Cassini sempre su Le Monde, è chiarire se questi abiti tradizionali abbiano effettivamente una valenza religiosa oppure no. Come spiegano Sophie Boutière-Damahi e Clara Hage sul quotidiano libanese L’Orient le Jour, l’abaya ha in origine un carattere culturale, solo successivamente e in determinati contesti ha assunto un significato politico-religioso. Tradizionalmente, infatti, l’abito lungo veniva indossato dai beduini per proteggersi dal calore e dalla sabbia, e poi si è diffuso in tutti i Paesi arabi diventando un simbolo di appartenenza a un’identità comune. È vero che dal 1979 in Arabia Saudita l’abaya si è trasformata in un simbolo religioso, diventando il segno di una concezione rigorista dell’Islam, ma quella interpretazione resta confinata in quello specifico contesto. Mentre per alcune donne l’abaya con la sua funzione coprente è una questione di pudore – quella modestia menzionata nel Corano al versetto 33,59 – per molte altre è un normale capo d’abbigliamento che segue le normali tendenze della moda (più largo, più stretto, colorato, decorato). E negli ultimi anni questo abito ha finito per conquistarsi un posto nell’industria dell’alta moda, quando nel 2016 Dolce & Gabbana hanno lanciato una collezione di hijab e abaya destinata alle donne arabe.

 

In Francia, la decisione di vietarne l’uso nelle scuole ha suscitato un ampio dibattito tra le forze politiche. Jean-Luc Mélenchon, fondatore del partito di sinistra «La France Insoumise», ha invitato alla «pace civile» e «alla vera laicità che unisce anziché esasperare», e ha parlato di «una nuova assurda guerra di religione totalmente inventata a proposito di un abito femminile».

 

In queste settimane, la Francia vive momenti difficili nella sua politica estera. In Gabon, dopo oltre cinquant’anni, la dinastia dei Bongo (sostenuta dai francesi) è stata spodestata dai militari, autori di un colpo di Stato ai danni di Ali Bongo, uscito vincitore dalle elezioni dello scorso 26 agosto. Ali Bongo avrebbe dovuto succedere al padre, Omar Bongo, rimasto alla guida del Paese per 41 anni, dopo essere stato nominato capo dello Stato direttamente da Charles de Gaulle all’indomani dell’indipendenza del Paese, che fu una colonia francese dal 1882 al 1960.

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