Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:48:08

Baghdad, 9 aprile 2003. Dopo poche settimane dall’inizio dell’invasione angloamericana in Iraq (iniziata nella notte fra il 19 e il 20 marzo), un gruppo di iracheni (non molto numeroso), giornalisti e marines circondano la statua di Saddam Hussein, eretta in piazza Firdaws appena un anno prima, in onore del sessantacinquesimo compleanno del dittatore. Un cappio di catene cala sulla “testa” metallica, poi avvolta dalla bandiera a stelle e strisce. Infine, lo strattone del mezzo blindato abbatte il monumento e, al contempo, decenni di dittatura oppressiva e di baathismo. Quelle immagini divennero subito famose e iconiche, quasi create ad arte ad uso e consumo dei mezzi di comunicazione internazionali per rappresentare la sintesi grafica perfetta di un conflitto che nei piani, ma soprattutto nelle ambizioni di Washington, doveva rappresentare il punto di inizio di un nuovo corso politico della “Terra dei due fiumi”, basato sull’esportazione della democrazia, sull’introduzione del libero mercato e sulla tutela dei diritti umani e delle minoranze religiose. Come noto, il progetto del “nuovo Iraq” si è rivelato essere dapprima inconsistente, poi deludente e infine catastrofico, tanto che l’intera stampa araba ne parla in questi termini. Al-Sharq al-Awsat si è preparata al ventennale dedicando tra il 19 e il 20 marzo approfondimenti, analisi e interviste con i protagonisti e i testimoni della guerra: «Vent’anni dal terremoto iracheno» campeggia sulla prima pagina del 19 marzo, accompagnata dalla celebre immagine della statua di Saddam spezzata.

 

 

Il direttore della testata filo-saudita, Ghassan Sherbel, ricorre ampiamente all’uso dell’anafora (quella notte… quella notte… quella notte) per descrivere i suoi sentimenti e ricordi legati al ghazū, l’“invasione”, come viene di solito chiamata in arabo la guerra in Iraq. Il titolo  «La notte delle sorti e dei destini: la corda della forca e l’ingordigia dei pugili» sembra rievocare la “Notte del destino” (Laylat al-qadr), quando secondo la tradizione islamica il profeta Muhammad ricevette per la prima volta la rivelazione divina dall’arcangelo Gabriele. Nell’editoriale di Sherbel, però, il significato dell’espressione è ribaltato, come se fosse l’oscuro presentimento di future sventure: «avvenne vent’anni fa. Quella notte cominciò il terremoto. La notte delle sorti e dei destini che ha portato Saddam Hussein al patibolo della forca, che ha portato il regime baathista in frantumi. Una volta crollato il muro della “porta orientale”, le braci della rivoluzione iraniana sono penetrate nella regione. Quella notte ha sconvolto la mappa dell’Iraq e non solo. Avrebbe fatto sorgere e ritirare al-Qa‘ida, avrebbe fatto emergere e poi scomparire lo Stato Islamico. Avrebbe provocato discordia tra i vincitori che si spartivano uno Stato fragile, in cui i governi non venivano formati se non con il consenso del generale Qasim Soleimani […] Vent’anni fa, nella notte delle sorti e dei destini sono caduti migliaia di missili [..] Quella notte ha cambiato le sorti, i ruoli, le caratteristiche e i destini. È nato un Iraq che non assomiglia a quello che c’era prima. Gli storici equilibri sono crollati, mentre si è aperto il ring dei nuovi pugili, alcuni dei quali sembrano assetati di potere e bramosi di esercitarlo. Ma la notte dei destini ha dato il via anche a vent’anni di profanazione dell’aura sacrale dello Stato e del suo erario».     

 

Nel ricordare il ventennale, al-‘Arab titola lapidario: «Dopo vent’anni dall’invasione…non c’è democrazia in Iraq», seguito da un occhiello ancora più tetro: «il caos nella sicurezza e la muhassasa [la ripartizione di incarichi su base clientelare e settaria] stanno portando Baghdad verso il peggio». In effetti tra gli analisti vi è una sorta di uniformità di giudizio, un «consenso comune sul fatto che le condizioni generali dell’Iraq non siano migliorate sufficientemente a livello di economia, di infrastrutture, di servizi, di unità nazionale e di sovranità statuale». Muhammad al-Manshawy, ricercatore esperto di cose americane, scrive per Al Jazeera a metà tra la rassegnazione e l’indignazione: «ogni guerra inizia quasi per una causa chiara ed evidente, con valutazioni positive su risultati, durata e costi. Ed era questa la situazione della guerra in Iraq del 2003, avviata dagli Stati Uniti sotto gli allarmi delle armi di distruzioni di massa fabbricate e custodite da Baghdad, anche se in seguito è stata confermata la falsità di queste accuse» e dagli alti costi del conflitto in termini di denaro e vite. 

 

Anche al-Quds al-‘Arabi ricorda in maniera sarcastica le immagini di piazza Firdaws. Una sua vignetta ritrae infatti il piedistallo su cui sorgeva la statua, di cui rimangono solo gli stivali del dittatore e i resti dell’impalcatura interna. Col tempo, però, questi reticoli di ferro sono cresciuti come se fossero piante, formando un albero spoglio e deforme che produce frutti avvelenati, a forma di tanti piccoli Saddam.

 

 

«È opinione comune – scrive Sabhi Hadidi – che gli effetti dell’invasione del 2003 hanno avuto ingenti costi umani, prodotto catastrofi sociali, ambientali, urbanistiche, culturali, archeologiche»; tuttavia, il vero punto critico riguarda le modalità con cui venne spacciata quella guerra alla popolazione irachena, una vera e propria «vendita fraudolenta e perversa» fondata su menzogne, mezze verità e fraintendimenti. Ancora più estremo, quasi nostalgico, il giornalista omanita Omar bin ‘Abid al-Quatyty che nel suo intervento, sempre su al-Quds, rimprovera agli americani di aver distrutto un Paese che «brillava come uno dei più solidi esempi di sviluppo nel mondo arabo». E poi, in maniera ancora più enfatica: «il 19 marzo 2003 le macchine da guerra americane sono apparse all’improvviso per far saltare in aria l’intera cultura irachena, così come fecero i mongoli il 13 febbraio del 1258», data del famigerato assedio di Baghad da parte di Hülegü che, giustiziando l’ultimo rappresentante della dinastia abbaside, pose fine al califfato.

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