Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 05/03/2024 10:20:03

Con il 52% delle preferenze, Recep Tayyip Erdoğan ha vinto il ballottaggio sullo sfidante Kılıçdaroğlu, riconfermandosi per la terza volta “cumhurbaşkanı”, presidente della repubblica. I suoi sostenitori preferiscono tuttavia chiamarlo reis, parola di origine araba che ai tempi dell’impero ottomano indicava il capitano di una nave da guerra. La sfumatura lessicale permette di cogliere il senso di questa vittoria in chiaroscuro, tra derive autoritarie, progetti di rifondazione statuale e riferimenti a un passato glorioso che guarda a Est e al mondo arabo-islamico. Restano però molte (e troppe) le incognite del presente e del futuro che aleggiano sul Paese. Di tutto questo rende conto la stampa araba che, seguendo con molta attenzione gli affari turchi e la corsa elettorale, ha prodotto una lunga serie di articoli e riflessioni sul tema.   

 

L’emittente qatariota Al Jazeera, aperta sostenitrice di Erdoğan, commenta il ballottaggio in maniera equilibrata, guardando i risultati finali,  la situazione non è poi cambiata così tanto rispetto al primo turno: Kılıçdaroğlu ha sì aumentato i consensi nelle province affacciate sull’Egeo, ma il maggior numero di astenuti nei territori curdi ha giocato a suo sfavore; il reis ha fatto il resto ottenendo la maggioranza nel resto del Paese, soprattutto nell’Anatolia profonda e nella regione del Mar Nero. Dopo la premessa sull’importanza della correttezza delle procedure di voto, Al Jazeera sottolinea come le elezioni possano essere lette da «due angolature opposte e complementari». Da una parte, queste sono state le elezioni più difficili per il presidente e leader di Giustizia e Sviluppo (AKP), caratterizzate da un vistoso calo delle preferenze alle parlamentari e dall’incapacità di affermarsi direttamente al primo turno. Dall’altra, però, si tratta pur sempre della sua sedicesima vittoria elettorale consecutiva – una striscia positiva che dura fin dal 2002 – che, considerando la situazione abbastanza critica (crisi economica, terremoto, fronte delle opposizioni unito), resta dunque un «fenomeno raro, e potrebbe essere addirittura unico visto che di solito i partiti e i leader che rimangono a lungo al potere diventano dopo un po’ fiacchi, statici e declinanti, ma al momento questa “regola” non si applica» al Capo di Stato turco.

 

E proprio la nozione di “Stato” a giocare un ruolo centrale nella con-vincente narrazione erdoganiana. Una volta confermata la vittoria, l’emittente qatariota ha infatti discusso il progetto della “Nuova Turchia” avviato dal presidente anni fa ma non ancora giunto a conclusione. L’obiettivo è rifondare il Paese su nuovi presupposti, assai diversi da quelli posati, esattamente cento anni fa, dal “padre della patria” (Atatürk), Mustafa Kemal. Niente di rivoluzionario, anzi una «placida trasformazione sviluppatasi gradualmente nell’alveo politico, e che ha finito col trasformare il sistema politico in repubblica presidenziale, con una comoda maggioranza in Parlamento». In questo modo, egli «farà uscire la Turchia dalle vesti(gia) del periodo di Atatürk. Si può dire, ormai con certezza, che il suo fine ultimo è quello di levare al Paese il mantello che indossava al principio del XX secolo, servendosi di un’ideologia di rottura che affonda nella Turchia ottomana e nel suo lascito culturale, teologico e storico, nonché sulle sue relazioni con l’Oriente». La cautela è, però, d’obbligo come si scrive in uno dei sottoparagrafi. Non c’è dubbio che il presidente è una figura carismatica e pragmatica, ma ciò potrebbe non bastare per le sfide del futuro: in particolar modo, «i giovani hanno bisogno di una nuova retorica poiché i loro sentimenti sono diversi da quelli delle generazioni precedenti che avevano assistito a golpe e crisi sociali causate dall’ingresso dell’esercito in politica».

 

Al-Quds si schiera, come sua abitudine, dalla parte del reis. Al primo turno avevamo riportato un articolo del quotidiano che si chiedeva perché l’Occidente ce l’avesse con il presidente turco. Adesso è la volta degli arabi: «perché alcuni arabi odiano Erdoğan?». Secondo il giornale vi sono diverse ragioni: «la democrazia turca e la paura della sua diffusione per contagio è la principale ragione della posizione di certi Stati arabi che considerano la Turchia come una minaccia». Non solo, egli incarna anche il «primo modello vincente di Islam politico; per questo «alcuni regimi si stanno adoperando per deturpare l’esperienza turca, demonizzare Erdoğan e ingigantire qualsiasi crisi presente in Turchia». Non manca poi «l’odio dei regimi delle contro-rivoluzioni», che intendono demolire il progetto dell’Islam politico. Odio, invidia e paura: sono questi i sentimenti nutriti da molti establishment arabi, e che non sono peraltro una novità per l’autore: le persone che si augurano la sconfitta del reis sono gli stessi «nemici della democrazia» che esultavano nel luglio 2016, quando il presidente turco riuscì a sventare un colpo di Stato organizzato da una parte dell’esercito. Per contro, Gilbert Achcar osserva come il leader dell’AKP rimanga estremamente popolare nel mondo arabo: «è un fatto molto interessante […] la sua popolarità presso alcuni Stati arabi non ha eguali in altre popolazioni musulmane», fatta eccezione forse per i Paesi turcofoni dell’Asia centrale e per l’Azerbaijan.  

 

Ma, in fin dei conti, tutta questa popolarità ha una reale motivazione? È quello che si chiede Al-‘Arabi al-Jadid, altro giornale panarabo che, sebbene vicino al Qatar, apre un editoriale sulle elezioni in maniera molto diversa da al-Quds: «Accidenti, quanti commenti sulle elezioni turche vengono seguiti con devozione nel mondo arabo; e forse questi (commenti) erano più entusiasti degli stessi turchi». Nonostante la posizione filo-reis, si legge tra le righe un certo disincanto misto a preoccupazione: «gli elettori non hanno approfittato dell’occasione per trarne una qualche lezione, quantomeno considerare l’idea di cambiare l’ago della bussola che ha erroneamente indicato la via delle due ondate della Primavera Araba che si sono rivelate poi incomplete oppure non vincenti». L’autore mostra apprezzamento per la correttezza dello svolgimento della competizione, e un certo grado di soddisfazione per la riconferma di Erdoğan. Ma sono tanti gli interrogativi e le perplessità: «l’ammirazione per il modello turco si ferma qui, senza valicare quei confini da alcuni criticati e da altri difesi». Sembra quindi che l’importanza di questo evento non superi le frontiere dello Stato turco, giocando poco o niente per gli affari arabi: «stiamo con l’Erdoğan turco e non con quello mediorientale, dal momento che le sue politiche non ci piacciono. Non vogliamo che queste vengano affidate a uno che dice di essere il presidente di uno Stato dotato di autorità storica e islamica (neo-ottomanismo)». Sembra infatti difficile credere che costituisca un simbolo per gli arabi dopo che «ha stretto più di dieci accordi di sicurezza e difesa con l’entità sionista e dopo aver occupato i territori arabi della Siria settentrionale» e la Libia. «Senza eccessi e intemperanze – prosegue l’autore – e senza essere più realisti del re, Erdoğan è un uomo pragmatico al massimo, difensore del suo Paese e autore delle sue glorie, ma a raccogliere i frutti di queste glorie è il popolo turco, mica noi».      

 

Interessante la reazione dei media siriani, raccolte dal sito Enab Baladi: l’agenzia di stampa ufficiale del regime (SANA) ha evitato accuratamente la notizia, mentre il filogovernativo Tishrin ha parlato solo della prima fase, “dimenticandosi” di riportare la vittoria di Erdoğan. Impalpabile il giudizio del quotidiano del partito di regime al-Ba‘th, che si è limitato a dare le percentuali dei due contendenti alla presidenza. Le elezioni sono state ignorate o poco seguite anche da parte delle testate filo-emiratine e filo-saudite. Al-Sharq al-Awsat mette subito le cose in chiaro: il presidente turco ha rivinto, d’accordo, ma similmente all’editoriale di al-‘Arabi al-Jadid, la notizia ha una dimensione più nazionale che internazionale: riconfermato presidente per la terza volta «Erdoğan ha superato il fondatore della Turchia; vedremo un discorso riformista all’interno del Paese e all’estero? L’economia nazionale riuscirà a far rivalutare la lira turca? Ci saranno nuove politiche» e visioni geopolitiche, come quella del Mavi Vatan, la “patria blu”, «una delle più grandi operazioni di falsificazione della storia e della geografia, una inaccettabile teoria dell’espansionismo turco»? La risposta è sprezzante: «è diritto dei leader turchi sognare una patria blu, persino una patria rossa, ma è un diritto degli altri quello di proteggere i loro confini e le loro acque. Che rimanga quindi lontano, il sogno turco, dalle acque e dalle terre degli altri, affinché la Turchia venga accettata a “zero problemi”».

 

Quest’ultima espressione la ritroviamo anche nella testata al-‘Arab, che apre la prima pagina del 29 maggio in maniera insolita: la notizia della vittoria del reis è quasi nascosta, scritta a caratteri piccoli, in maniera stringata e con un linguaggio asettico. A campeggiare è invece un’altra notizia: «addio all’estorsione turca, l’Iraq panifica la diversificazione dei punti di uscita per l’esportazione di petrolio». Una “rivincita” di Baghdad che, dopo il blocco turco delle esportazioni di greggio estratto nel Kurdistan e trasportato lungo l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan, st attivando nuovi oleodotti verso Siria, Giordania e Arabia Saudita. Il direttore della testata, Haytham al-Zubaydi, scrive un’editoriale sulle elezioni solo a pagina 7, titolando con un riferimento ironico: «Erdoğan azzera i problemi», esplicito riferimento alla nota “dottrina zero problemi” elaborata nei primi anni Duemila dal suo ex ministro degli esteri (ora diventato “avversario” politico) Ahmet Davutoğlu: «all’apparenza sembra che la dottrina “zero problemi” adottata dagli Emirati e dall’Arabia Saudita sia un punto d’uscita per risolvere i conflitti regionali dopo il declino della Fratellanza Musulmana. Anzitutto occorre sottolineare che è difficile immaginare un vantaggio nel sostenere “zero problemi” con l’Iran. C’è una gran differenza tra i problemi provenienti dall’Iran rispetto a quelli causati dalla Turchia. Teheran ha un progetto di profondo cambiamento della regione studiato nei minimi dettagli, dal credo religioso all’influenza e ai governi. Ankara, invece, ha messo in atto progetti invasivi, ma non è molto interessata a produrre sfere di influenza all’interno di Stati arabi fintantoché realizza i suoi obiettivi». Tuttavia, spiega al-Zubaydi, il reis deve prima “azzerare i problemi” in Turchia, perché «ha compreso che cavalcare l’onda delle Primavere Arabe non ha portato ai risultati attesi. La debolezza dell’apparato centrale della Fratellanza, la diffusione dei suoi slogan e le scissioni della sua struttura organizzativa in una parte originale, una della Sahwa e un’altra ancora dei “leccapiedi” del salafismo» ha giovato soprattutto ai suoi avversari, come l’Arabia Saudita e al presidente egiziano ‘Abd al-Fattah al-Sisi che nel 2013 rovesciò Morsi. Da qui la chiosa finale: «l’Erdoğan vincitore uscirà dalle elezioni politicamente scosso, allo stesso modo dell’Erdoğan perdente». Ancora prima dei sogni di gloria e della rifondazione dello Stato, la Turchia deve «azzerare i problemi con sé stessa e con i suoi vicini, con l’economia e con le banche locali e internazionali. Deve inoltre adottare una logica di convivenza con il mondo che non è pronto ad accettare logiche di avventurismi e imperialismi».

 

   

Salvare il siriaco in Iraq

 

Chiudiamo con una notizia in breve, riportata da al-‘Arab che, come appena visto, è molto attento sulle questioni irachene. All’interno dei recenti tentativi di salvaguardare e recuperare la cultura del paese si inserisce anche lo sforzo delle comunità cristiane irachene di preservare il siriaco, antica lingua semitica, parlata soprattutto dalla comunità cristiana ma da tempo in declino nel Paese, anche a causa dell’azione dello Stato Islamico che, oltre ad aver perseguitato i cristiani, ha contribuito alla distruzione del patrimonio storico e letterario, costituito da preziosi manoscritti e codici medievali.