Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:00:04

Le elezioni turche, considerate l’appuntamento politico dell’anno per il Medio Oriente e non solo, hanno generato come prevedibile un ampio dibattito e prodotto numerose analisi ed editoriali. Qualche settimana fa avevamo anticipato i pronostici della stampa araba, spiegando come i quotidiani favorevoli alla rielezione del presidente in carica, Recep Tayyip Erdoğan, fossero quelli del Qatar o ad esso affiliati, mentre le testate (filo)saudite e (filo)emiratine fossero decisamente critiche nei suoi confronti. L’occasione è stata oltretutto propizia per riflettere sull’annosa questione dell’identità nazionale del Paese, di notevole interesse sia per gli osservatori europei che e arabi: che cos’è la Turchia? Uno Stato laico e multietnico, oppure la diretta erede del califfato e del sultanato ottomano?

 

Partiamo dal fronte pro-Erdoğan. «Ha vinto ancora lui», la reazione (molto) a caldo di Al Jazeera, che ridicolizza le voci che si rincorrevano alla vigilia del voto su una possibile débâcle del presidente uscente: «non puoi comprendere la Turchia dai social network, inondati da uno spaventoso numero di troll che, proprio come Gog e Magog [popoli che secondo l’escatologia islamica devasteranno il mondo alla fine dei tempi], non sono persone reali, o dai sondaggi condotti sulla base di desideri, richieste e sogni piuttosto che sulla realtà». E la realtà, infatti, è un’altra per la testata qatariota: «adesso lo scenario è quasi completo; è vero che ora c’è il secondo turno, ma possiamo dire con certezza che Erdoğan sarà riuscito a vincere tutte le elezioni in cui si è candidato con il Partito della Giustizia e dello sviluppo (AKP) in ventuno anni». Per contro, il principale sfidante Kemal Kılıçdaroğlu «ha sperimentato la sconfitta in tutte le elezioni a cui ha corso contro Erdoğan. È anche in questo giro è il perdente». L’articolo intende poi impartire una vera e propria lezione di giornalismo ai colleghi occidentali, “rei” di aver cavalcato l’onda dell’opposizione senza nessuna prova a sostegno: «forse i media occidentali come l’Economist, le Point, L’Express, Der Spiegel e l’Independent, hanno fatto affidamento su report prodotti da queste aziende [che rilevano le intenzioni di voto], ignorando tutti i principi del giornalismo e della deontologia professionale, avendo l’ardire di uscire come opuscoli propagandistici del Partito Popolare Repubblicano», la formazione di cui è leader Kılıçdaroğlu. Eppure, la stessa Al Jazeera non rinuncia a enfasi ed encomi quando si tratta di elogiare il reis («ha lavorato più di tutti in queste elezioni; ha visitato tutto il paese con una performance sovraumana»), né modera i toni quando si tratta di mettere alla gogna la stampa antigovernativa («la campagna di persuasione fatta da estorsioni e tatticismi volti a mettere tutti contro un solo candidato è uno schiaffo in faccia a chi descrive Erdoğan come oppressivo e dittatoriale»). In un altro articolo, Al Jazeera esamina, a mente fredda stavolta, l’importanza del voto per la storia della Turchia e per il modello politico che il reis incarna, quello dell’Islam politico: «cent’anni fa, l’esercito turco modificò l’identità turco-islamica in una di tipo secolare e abolì il Califfato. Nel corso dei decenni, ogni volta che un politico tentava di ritornare alle radici della nazione, l’esercito lo bloccava […] fino al 2002, quando l’AKP, appena costituitosi, vinse le elezioni e formò un esecutivo per dare inizio a una nuova fase della storia turca che prosegue ancora oggi». Per l’autore la politica di Erdoğan non si limita solo agli affari nazionali, ma si estende anche all’intero mondo islamico, dalla questione palestinese alla tutela della minoranza musulmana in Cina e Myanmar. Ciò spiega l’enorme popolarità del reis presso i musulmani di tutto il mondo e il fatto che Ankara era ed è ancora uno «Stato-modello che intende governare bene con le urne elettorali e non con i carri armati, che si interessa allo sviluppo delle province e della capitale, che combatte la corruzione e si occupa di rinnovamento, tecnologia e modernizzazione preservando l’identità».

 

Già prima della chiusura delle urne, anche Al-Quds al-‘Arabi scriveva con tono apologetico: «dittatura e tirannia sono accuse che seguono di continuo Erdoğan», anche se la riforma presidenziale è passata grazie a un referendum: «la maggioranza ha deciso, eppure, nonostante ciò, viene descritto come un dittatore che ha cambiato la costituzione del Paese. Non c’è dubbio che Erdoğan a volta sbaglia, a volte ci prende, ha difetti e fa errori, ma non si può accusarlo di dittatura e autoritarismo». La testata panaraba si chiede poi, similmente ad Al Jazeera, «perché l’Occidente vuole la sconfitta di Erdoğan?». La serie di articoli e analisi prodotti dalla stampa occidentale «riflette le posizioni di molti Paesi che si augurano la sconfitta del reis e la vittoria del suo avversario Kılıçdaroğlu». Le ragioni di questa “presa di posizione” sono molte per al-Quds. Primo, «l’Occidente non desidera che la corrente dell’Islam politico moderato vinca alle urne»; secondo, «la Turchia ha rappresentato dal secondo dopoguerra, grazie al suo ingresso nella Nato, la principale diga ideologica e militare per arginare la marea comunista in Medio Oriente», ma adesso le cose sono cambiate: il no all’ingresso nell’Unione Europea e la creazione delle sfere di influenza turchenel Mediterraneo e in Africa che si sono sostituite a quelle europee non sono stati accolti bene. Terzo, la Turchia è riuscita a sviluppare in maniera notevole l’industria bellica, al punto da risultare d’aiuto all’Ucraina nella guerra contro la Russia; ciò ha aumentato il grado di autonomia e indipendenza del Paese dal Vecchio Continente. Quarto, «i Paesi del terzo mondo e quelli arabi giustificarono la loro arretratezza con il fatto che non erano in grado di avanzare come gli Stati europei a causa del “rinascimento” in atto da cinque secoli; tuttavia, la Turchia ha infranto questa falsa convinzione scommettendo sulla ricerca scientifica e su investimenti intelligenti in diversi settori». Quinto e ultimo punto, «con la longevità più che ventennale del suo potere, prima come Capo del Governo e poi come Capo dello Stato Erdoğan ha impresso la propria impronta sulla storia del Paese, al punto che la stessa amministrazione è diventata relativamente erdoganista. Lo “stato profondo” crede nei grandi obiettivi a cui lui ha lavorato e sta lavorando, come lo sviluppo industriale e commerciale, anche se parte dell’apparato burocratico non condivide le sue idee, in particolare circa la questione religiosa». E quindi, «anche se perdesse il secondo turno, sarebbe difficile per il suo rivale Kılıçdaroğlu cambiare alla radice la politica interna ed estera del Paese». Proprio Kılıçdaroğlu è, per al-‘Arabi al-Jadid, un esponente a tutti gli effetti del populismo turco, dal momento che il suo programma conterrebbe promesse irrealistiche ai curdi e il suo linguaggio sarebbe infarcito di rimandi alle appartenenze confessionali e nazionali, producendo una retorica in cui si mescolano laicismo e riferimenti religiosi più o meno espliciti. Irriverente un editoriale del filo-islamista ‘Arabi 21, che si fa beffe di un’opposizione che durante la campagna elettorale ha eretto a simbolo la cipolla, ingrediente fondamentale della cucina turca, il cui prezzo, come quello di altri ortaggi, è rincarato a causa dell’alto tasso di inflazione. I sei partiti anti-Erdoğan si sono seduti a un tavolo – ma a questo punto sarebbe più corretto dire “tavola” – dando vita all’«Alleanza dell’Insalata: è un’ironia curiosa, appropriata e carica di suggestioni e di nonchalance, anzi denigratoria. Ma questo piatto di insalata non sazia per niente lo stomaco, perché i sostenitori del presidente sono i credenti più pii e dotati di raziocinio, mentre i suoi detrattori bramano il potere». Il sarcasmo di ‘Arabi 21, che mostra di apprezzare il militarismo della Turchia di Erdoğan, fa leva sul contrasto tra le amare verdure proposte dai Sei e la “dolcezza” delle opere del presidente, che ha «prodotto droni che radono al suolo fortificazioni e “neutralizzano” i terroristi – molto richiesti sul mercato mondiali delle armi – portaerei, cavi sottomarini, strade lisce come barrette di dolciumi e auto di lusso. Tutto questo, però, è minacciato da due bombe atomiche silenti vendute nei mercati dell’ortofrutta: una è la signora rossa con la corona, donna Pomodoro, l’altra l’affascinante signora col velo scuro, la signora Patata!».   

 

Veniamo ora al controcanto dei giornali anti-reis, in crescendo di indignazione. Alquanto moderata la visione dell’emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya: «l’opposizione è riuscita a spostare le elezioni al secondo turno, e forse a mettersi d’accordo su un solo leader, Kılıçdaroğlu che promette di ricostruire le istituzioni dello Stato». Più marcata quella del quotidiano al-‘Arab che, nel giorno del voto, illustrava le uniche opzioni a disposizione dell’elettorato: «la tirannia o il ritorno allo Stato di diritto, ci sono due futuri possibili e due scelte in questo Paese spaccato a metà». Poi, il titolo a effetto sulla prima pagina del 16 maggio: «le forze giovani ostacolano Erdoğan, e lo shock non è di buon auspicio per il ballottaggio». Segue poi una stoccata al presidente uscente con l’editoriale del giornalista libanese Khayr Allah Khayr Allah sull’edizione del 17 maggio, intitolato «Erdoğan non soppianterà Ataturk», che svilisce così il vecchio sogno del presidente di diventare un secondo “padre della patria”. È un giudizio inappellabile quello dell’autore, dal momento che il capo dello Stato turco «ha fallito in tutto quello che fatto negli ultimi vent’anni. La tragedia del sisma del 6 febbraio scorso ha portato allo scoperto l’ampiezza del fenomeno di corruzione di cui soffre la sua amministrazione». La parola fashl (“fallimento”) viene ripetuta con insistenza nel giro di poche righe: «senza analizzare i fallimenti nell’ambito economico che spiegano il crollo del valore della lira turca, il suo fallimento più grave è stato di tipo politico. Ha fallito in Siria dopo essersi trasformato in un alleato di Vladimir Putin, che è riuscito a imporsi su di lui. Ha fallito soprattutto nel far rimanere la Turchia un attore di rilievo all’interno della Nato. Ha acquistato senza motivo il sistema d’arma antiaereo S-400 dalla Russia. Voleva semplicemente accontentare Putin». L’articolo continua affermando che, anche se la popolarità di cui gode è ancora alta nel Paese e nel mondo arabo-musulmano, i risultati del primo turno costringeranno Erdoğan «a rinunciare a molte delle sue ambizioni, incluso l’illusorio revival dello Stato ottomano e la distruzione dell’eredità di Ataturk […]. Che rimanga presidente oppure no non ha né avrà mai la grandezza del fondatore del moderno Stato turco, non potrà far altro che riconciliarsi con la Turchia laica e multinazionale. Sicuramente il pensiero della Fratellanza non si addice a tale riconciliazione».                 

 

Al-Sharq al-Awsat è invece decisamente provocatorio: «Erdoğan non è un santo politico» e denuncia con fastidio il clima di euforia creatosi immediatamente dopo il conteggio delle schede: «rileviamo una mobilitazione fondamentalista e della Fratellanza a livello mondiale per la “vittoria” di  Recep Tayyip Erdoğan, persino dalla Fratellanza di Gaza, che pure dovrebbe essere alle prese con la terribile guerra nella loro Striscia! L’immagine del presidente confezionata dalla propaganda islamista e dai fautori del nuovo “califfato ottomano” sta andando sbiadendosi dopo vent’anni». In poche righe si passa dalla critica al dileggio: «Sì, che tu ci creda o meno – questo è un tuo problema – questo politico turco ha una retorica islamo-populista, è l’oggetto delle speranze dei musulmani – di tutti i musulmani – ed è grazie a lui che verrà liberata la moschea di al-Aqsa e l’intera Palestina, è proprio lui il nuovo califfo, e chi gli si oppone si oppone alla coscienza dei musulmani…tutti quanti». Come risulta evidente, per il giornale questa «immagine santificata» è del tutto falsa, e non tiene conto dei reali rapporti che il presidente turco ha con Israele.

 

Ghannouchi condannato: anche l’Italia tra i responsabili? [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Lunedì il leader del partito tunisino Ennahda, Rachid al-Ghannouchi, è stato condannato a un anno di carcere e al pagamento di una multa di 1.000 dinari (circa 300 euro) con l’accusa di apologia al terrorismo. Nel commentare la notizia, i giornali arabi si sono divisi tra filo-islamisti e anti-islamisti. Mercoledì il quotidiano londinese al-‘Arab, tradizionalmente avverso all’Islam politico, ha dedicato la prima pagina proprio al caso Ghannouchi, titolando “L’isolamento di Ennahda a livello nazionale e regionale facilita la condanna alla reclusione di Ghannouchi”. A livello locale, Ennahda è caduta in disgrazia dopo il 25 luglio 2021, quando Saied ha destituito il primo ministro, sospeso il parlamento e revocato l’immunità ai deputati. Da quella data, spiega l’editoriale, molte personalità hanno abbandonato il movimento, «il peso politico di Ghannouchi è diminuito significativamente, Ennahda è diventata politicamente irrilevante e ha perso la sua influenza sulla scena». All’isolamento nazionale è seguito quello internazionale, dopo che molti dei suoi sostenitori politici e mediatici hanno abbandonato il partito islamico tunisino. «Il cerchio dell’isolamento, tuttavia, è destinato ad ampliarsi ulteriormente a causa della difficile situazione che sta vivendo il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, alleato dichiarato del movimento», ha scritto al-‘Arab. In definitiva, secondo i detrattori di Ennahda intervistati dal quotidiano, «il processo annuncia di fatto la fine politica di Ghannouchi».

 

L’ex ministro degli Esteri tunisino Rafiq ‘Abd al-Salam (genero di Ghannouchi e membro di Ennahda) ha riflettuto su al-‘Arabi al-Jadid sui vantaggi che Saied avrebbe ottenuto dall’arresto del suocero. Apparentemente quasi nessuno, a parte «sfogare i propri rancori personali e placare la sete di vendetta di alcuni gruppi ideologici suoi alleati». Con questa decisione, Saied intendeva «porre rimedio al suo isolamento popolare lanciando un osso ai suoi sostenitori infuriati e in cerca di vendetta, e dicendo loro: “Io sono l’uomo forte e il capo indiscusso”». Tuttavia, ha scritto ‘Abd al-Salam, con il suo gesto il presidente ha finito per alienarsi ulteriormente l’opinione pubblica tunisina, «scontenta che quell’uomo ottantenne sia stato arrestato, e per di più in quel modo umiliante», ma anche le cancellerie occidentali, che hanno condannato l’azione di Saied. «Se escludiamo il governo italiano di estrema destra di Meloni, ha concluso ‘Abd al-Salam, non ci sono veri sostenitori di Saied» in Occidente.  

 

Il governo italiano è finito nel mirino anche del quotidiano panarabo londinese al-Quds al-‘Arabi, che nell’editoriale di oggi intitolato “Chi ha incoraggiato Saied a mettere in prigione Ghannouchi” ha risposto, per l’appunto, il governo italiano insieme a quello algerino. Nel caso italiano sono finite sotto la lente d’ingrandimento le dichiarazioni rilasciate lo scorso marzo dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, che «ha invitato la “comunità internazionale” ad aiutare urgentemente il governo del presidente tunisino Kais Saied, affinché la Tunisia non cada “nelle mani dei Fratelli musulmani” e diventi uno “Stato islamico”». Tra le varie dietrologie di cui è infarcito, l’editoriale lascia intendere inoltre l’esistenza di una sorta di accordo tra Giorgia Meloni e il presidente algerino ‘Abdelmajid Tebboune che, durante il loro incontro in Italia, si è detto pronto ad «aiutare la Tunisia a uscire dall’impasse». Da quel momento, spiega l’editoriale, l’influenza politica algerina nelle questioni tunisine è diventata sempre più tangibile. Lo dimostrano «l’accelerazione del riconoscimento del regime siriano da parte di Saied e la nomina di un ambasciatore della Tunisia a Damasco», oltre alle dichiarazioni rilasciate da Tebboune in merito agli aiuti che il suo governo fornisce «segretamente alla Tunisia per preservare la dignità dei tunisini», e alla sua partecipazione al dialogo nazionale tunisino. Quest’ultima illazione, spiega l’editoriale, ha spinto l’ex presidente della Tunisia Moncef Marzouki a domandare sarcasticamente a Tebboune «chi l’abbia nominato tutore della Tunisia».

 

Saied incontra il mufti, il rabbino e l’arcivescovo [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Ma le vicende tunisine non finiscono qui. Mercoledì, Saied ha ricevuto al palazzo di Cartagine il mufti della Tunisia, sheikh Hisham bin Mahmud, il rabbino Haim Bitan, e l’arcivescovo cattolico Ilario Antoniazzi, in quello che Saied ha definito «uno degli incontri più importanti, che evidenziano la tolleranza e la convivenza presenti in Tunisia da secoli e secoli». L’incontro, organizzato a seguito dell’attentato alla sinagoga di Djerba (ne avevamo parlato qui), è stato trasmesso in alcune sue parti sui social della presidenza tunisina (qui il video) nell’intento di «mostrare al mondo intero che in Tunisia c’è uno Stato e una tolleranza tra tutte le religioni, e che questo non è un fatto inedito, ma [una realtà] piuttosto consolidata da secoli». Nel suo discorso il presidente ha posto l’accento sulla natura dell’attentato che non è «un attacco ai tunisini, siano essi ebrei o musulmani, ma a tutta la Tunisia», e sull’intento degli attentatori, che «volevano colpire la sicurezza e la stabilità della Tunisia, e seminare la discordia e la divisione nella società».

 

Il vertice di Jedda tra speranze e disillusioni [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Una parte della stampa araba, e in particolare quella filo-saudita, si è molto concentrata sul vertice della Lega Araba in corso proprio oggi a Riyad, al quale torna a partecipare dopo dodici anni anche il presidente siriano Bashar al-Assad. Al-Sharq al-Awsat ha raccolto alcune dichiarazioni rilasciate in esclusiva al quotidiano dal re di Giordania Abdullah II, che ha sottolineato i buoni rapporti che legano il suo Paese all’Arabia Saudita e a invitato a non dimenticare la causa palestinese, auspicando «la creazione di uno Stato palestinese indipendente sul modello del 4 giugno 1967, con Gerusalemme est come capitale» ripristinando di fatto i confini precedenti la Guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967), che si concluse con l’annessione di Gerusalemme Est e l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele.

 

Il quotidiano nazionale saudita al-Riyad sembra voler risvegliare l’orgoglio nazionale dei suoi cittadini celebrando l’impegno della monarchia per «costruire Paesi arabi forti, sistemi politici stabili, economie evolute e produttive, società sviluppate e coese, forze sicuritarie e militari capaci di proteggere le loro società e i loro Paesi, servizi sanitari, educativi e sociali avanzati e di qualità». Una politica «verso i suoi fratelli nella regione araba e nel mondo islamico allargato» che, fin dalla fondazione del Regno, si è definita per «originalità, orgoglio, fierezza, ardore, audacia, magnanimità, valore, virilità, dignità, prodezza, nobiltà d’animo e generosità».

 

Ancora al-Sharq al-Awsat ha ripercorso le vicende storiche della Lega araba, facendo una rassegna dei Paesi la cui adesione, negli anni, è stata sospesa, una possibilità sancita dall’articolo 18 dello statuto della Lega. La prima parte dell’articolo stipula il diritto dei singoli Paesi di recedere dalla Lega, mentre la seconda parte afferma che «il consiglio della Lega può estromettere dall’organizzazione qualsiasi Paese che non adempia ai doveri del presente statuto, su decisione unanime dei Paesi». Questa procedura, spiega l’editoriale, è stata applicata la prima volta nel 1958 per cause di forza maggiore, quando l’Egitto e la Siria persero la loro rispettiva personalità giuridica a seguito della decisione di fondersi in un unico Stato creando la Repubblica Araba Unita, un progetto politico durato soltanto tre anni. Nel 1961 infatti i due Stati tornarono indipendenti e furono riammessi singolarmente nella Lega. Lo stesso accadde dopo la riunificazione dello Yemen nel 1990. Il caso più eclatante riguarda però l’Egitto, la cui adesione fu sospesa nel 1979 per dieci anni a seguito del trattato di pace che Anwar Sadat firmò con Israele. In quel caso la decisione ebbe implicazioni più ampie: la sede della Lega araba venne trasferita a Tunisi, scatenando una controversia legale sulla base dell’articolo 10 dello statuto, che indicava il Cairo come sede permanente della Lega. L’articolo si chiude con una considerazione dell’ex politico e diplomatico egiziano Moustafa El Feki, sulla decisione di riammettere la Siria nella Lega araba, che «non implica necessariamente la normalizzazione delle relazioni tra Damasco e le capitali arabe, essendo questa una decisione politica che riguarda le relazioni bilaterali tra i singoli Paesi».

 

L’entusiasmo che trapela dai numerosi editoriali pubblicati su al-Sharq al-Awsat è stato parzialmente smorzato dal quotidiano al-‘Arab, che ha titolato “Il mondo arabo attende il vertice di Jedda con uno sguardo scettico”. La speranza del re di Giordania che il vertice possa essere l’occasione per parlare di uno Stato palestinese potrebbe essere disattesa – «probabilmente la Lega non presenterà alcun programma di azione politica rispetto alla questione palestinese alla luce del quasi completo declino dell’Autorità palestinese e della preoccupazione israeliana per una crisi interna senza precedenti». Al-‘Arab prevede inoltre che la Lega non si sbilancerà neppure sulla questione yemenita, «limitandosi probabilmente ad adottare una posizione compatibile con l’orientamento saudita, che mira a raggiungere un accordo con gli houthi».

 

Yemen, se domina la sete di vendetta di Hussein [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Ancora su al-‘Arab, il giornalista yemenita Salih al-Baydani ha riflettuto sulle trasformazioni che hanno interessato lo Yemen negli ultimi sessant’anni, cercando di dare una profondità storica alla guerra che il Paese vive dal 2014. Le vicende attuali, ha scritto, sono il frutto di trasformazioni occorse nei decenni – dal crollo dell’imamato nel 1962 alla successiva istituzione di un sistema repubblicano – a cui i politici yemeniti hanno assistito imbelli: «Le ragioni e le cause di questo cambiamento sono scivolate nel silenzio, fino a trasformarsi in bombe a orologeria che sono esplose in faccia al fragile Stato yemenita, finendo per ucciderlo». Ma quale ruolo hanno giocato gli intellettuali, le élite e i capi tribù nell’affrontare le ripercussioni della crisi e poi della guerra yemenita? «La risposta è che le élite che si ritenevano influenti in realtà non lo erano affatto; e mentre le vecchie forze tradizionali erano impegnate a spartirsi i benefici derivanti dall’influenza e a farsi la guerra per ampliare la sfera del potere, le interazioni ideologiche nella struttura della società yemenita hanno fatto emergere delle nuove forze capaci di cuocere a fuoco lento il loro vittimismo e alimentare le loro idee». I potenti del passato hanno finito per perdere il potere a beneficio di nuove forze emergenti guidate dall’ideologia, dagli slogan e dallo spirito di vittimismo, che alimenta in loro lo spirito di rivoluzione e di cambiamento – ha spiegato al-Baydani. Così, nello Yemen settentrionale il capo tribù, il comandante militare di alto rango o il vecchio teorico politico non suscitano più l’interesse delle persone e non ne orientano più le scelte. Queste figure oggi sono soppiantate dai leader houthi, «guidati non solo dalla sete di vendetta delle guerre di Saada [lo scontro tra gli houthi e le forze dell’ex presidente Ali ‘Abdullah Saleh], ma anche dalla sete di vendetta di Hussein e di tutti i decenni e i conflitti storici che cercano di riversare sulla scena yemenita contemporanea».

 

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