Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 07/06/2024 17:11:08

La stampa araba commenta, con crescente rassegnazione e sempre più amarezza, il conflitto in corso a Gaza tra i dolorosi ricordi del passato, i dubbi sul piano di pace presentato dagli Stati Uniti e le ansie generate dal discorso dell’ayatollah Khamenei. Su al-Sharq al-Awsat, la giornalista e professoressa libanese Sawsan al-Abtah rievoca, in occasione del suo cinquantasettesimo anniversario, la disfatta degli arabi nella Guerra dei Sei Giorni, le cui conseguenze sono ancora presenti nell’attuale crisi odierna. Fu «una vittoria che superò le aspettative», fu una «guerra che produsse cambiamenti enormi sia per Israele che per gli arabi. Emerse una nuova generazione di sionisti, tendente al messianesimo religioso. La democrazia non era più uno scrupolo, e la libertà non era più un tema»«Dopo cinquantasette anni di schiacciante vittoria – conclude al-Abtah – sta esplodendo la tragedia di Gaza, una delle code della guerra del 1967». Il ricercatore libico Jibril al-‘Ubaydi volge invece lo sguardo al futuro: «non è importante sapere chi governerà Gaza dopo la guerra»: se Hamas verrà espulsa dalla Striscia sarà di certo un fatto positivo, ma al momento la scelta del futuro politico dei palestinesi spetta solo ed esclusivamente ai palestinesi stessi. Commentando il piano di pace americano, ‘Ubaydi fa notare la presenza  del «diavolo nei dettagli», che potrebbe trasformare la proposta di Biden in un cessate il fuoco tanto fragile quanto temporaneo.

 

I giornali di area (filo)emiratina proseguono nel loro consueto attacco ad Hamas. Il quotidiano al-‘Arab sottolinea lo stato di disunione che ultimamente sta caratterizzando l’Asse della Resistenza: «l’Iran e Hezbollah lasciano Hamas al suo destino», titola il giornale, che aggiunge: il movimento libanese «non ha intenzione né è preparato ad entrare in una guerra che potrebbe terminare con la distruzione totale come quella che è in corso ora a Gaza». Stando alle dichiarazioni del vice segretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, il movimento «non è intenzionato ad allargare il raggio del conflitto con Israele, anche se è pronto a entrare in qualsiasi guerra, se costretto». Sprezzante e sarcastico il tono di al-‘Ayn al-Ikhbariyya: «parliamo della vera crisi di Gaza, non molto presente sui mezzi di comunicazione. Gaza è controllata da una fazione, chiamata “Hamas”, che appartiene alla Fratellanza Musulmana. E questa fazione si ribella all’autorità “corrotta” [l’OLP] della Cisgiordania. Questo scontro è sanguinoso, anzi sta per essere più sanguinoso della lotta» dei palestinesi contro gli israeliani. Mentre il governo di Abu Mazen è l’unico attore riconosciuto internazionalmente, Hamas non solo è priva di legittimità politica, ma è addirittura considerata «un’organizzazione terroristica dalla maggior parte dei Paesi arabi e stranieri», proprio perché essa «dipende dall’alleanza con l’Iran, che minaccia i Paesi arabi e sparge il sangue degli arabi sunniti». La soluzione sarebbe trovare un movimento palestinese che: «governi su Gaza; abbia buone relazioni con la popolazione della Striscia; abbia buone relazioni con gli arabi e con l’Occidente. Ma chi sarebbe questo Superman?» si chiede al-Ayn con sarcasmo.     

 

Toni ugualmente forti, ma di stampo completamente diverso, dalla stampa di proprietà qatariota. Lapidario il commento di al-Quds al-‘Arabi nei confronti del piano di pace a stelle e strisce: «nessuna pace viene ai palestinesi dall’America », dal momento che Washington «ha sempre sostenuto Israele e non può essere un attore qualificato per offrire vie d’uscita». Su al-‘Arabi al-Jadid, il giornalista egiziano Wael Qandil menziona la vera ragion d’essere del piano Biden. Esso non propone una soluzione alla questione palestinese, ma rappresenta invece un «modo», anzi uno «strumento», per arrivare all’obiettivo finale, ossia l’intesa tra Israele e Arabia Saudita: «creare un legame tra la piena normalizzazione e la fine dell’aggressione a Gaza è come piegarsi al ricatto e, al tempo stesso, rappresenta un oltraggio a una causa giusta e rispettabile» come quella palestinese.  

 

Infine, meritano un discorso a parte le parole pronunciate il 3 giugno dalla Guida Suprema iraniana in merito all’operazione “Diluvio di al-Aqsa”. «La regione aveva bisogno del 7 ottobre» ha detto l’ayatollah Khamenei. La giornalista egiziana Rasha Nabil ha affrontato il tema durante una puntata del suo programma “Fuori dagli schemi” (letteralmente “Fuori dalla scatola”, in onda sull’emittente di proprietà saudita al-‘Arabiya: «sono le dichiarazioni più forti e taglienti che Khamenei ha espresso dal 7 ottobre» e che «sollevano dubbi sul ruolo iraniano nell’attuazione di “Diluvio di al-Aqsa”». Secondo la versione ufficiale, «Teheran è sempre stata totalmente estranea all’attacco» e, pur finanziando Hamas, «non aveva nessuna informazione sulla tempistica dell’operazione». Tuttavia, il fatto che Khamenei abbia affermato che il “Diluvio” è avvenuto in un ottimo momento per la regione potrebbe significare che la Repubblica Islamica non fosse poi così disinformata sulle manovre di Hamas. Si tratterebbe quindi di un monito – prosegue Nabil – rivolto ad americani e israeliani: l’Iran «è un termine fondamentale dell’equazione. Non ci possono essere accomodamenti in sua assenza». Inoltre, Teheran ha «concepito l’azione del 7 ottobre, ed è l’unica che è in grado farla terminare». La giornalista ha posto molta enfasi sulla reazione dei palestinesi, e in particolare sul commento del presidente dell’Autorità Nazionale Abu Mazen, il quale ha accusato gli iraniani di aver «sacrificato il sangue palestinese» per realizzare i loro obiettivi e interessi che nulla hanno a che vedere con la causa palestinese. Ospite della trasmissione, l’analista ed ex diplomatico iraniano Muhammad Shariati Madari ha ribadito l’estraneità di Teheran in merito all’operazione, sottolineando l’«indipendenza» di cui gode ogni membro dell’Asse della Resistenza. Gli ha replicato Hasan Asfur, membro della delegazione palestinese che partecipò ai negoziati di Oslo, collegato dal Cairo: non importa se Teheran fosse a conoscenza o meno del Diluvio. L’Iran ha utilizzato il 7 ottobre per raggiungere i suoi obiettivi, che «hanno superato quelli annunciati da Hamas».     

 

Al Jazeera riporta i pareri di fonti interne all’establishment iraniano, tra cui quello di Hossein Kanani Moghaddam, ex generale dei Guardiani della Rivoluzione: a suo dire, il discorso della Guida Suprema conterrebbe un «messaggio nascosto per la resistenza palestinese: non farsi sedurre dalle promesse fatte nei cosiddetti negoziati sul cessate il fuoco; impedire il salvataggio dell’entità occupante dalla sua dissoluzione; aspettarsi che la regione abbia prossimamente un nuovo appuntamento con operazioni [del genere], che potrebbero venir chiamate “Diluvio di al-Aqsa 2».    

 

La Siria, «cavallo di Troia» dell’Iran [a cura di Chiara Pellegrino]

 

La recente visita di Bashar al-Assad a Teheran, pochi giorni dopo la morte di Raisi e del ministro degli Esteri iraniano, ha aperto diversi interrogativi sullo stato dei rapporti tra il regime siriano e l’Iran. Secondo il giornalista libanese Khairallah Khairallah le relazioni tra i due regimi proseguono a gonfie vele, nonostante a volta si tenda a pensare il contrario. Damasco si barcamena, non senza difficoltà, tra Teheran e le capitali arabe, e questa dualità si è manifestata anche nel modo diverso in cui la stampa iraniana e quella araba hanno raccontato l’incontro tra Khamenei e Assad, scrive l’editorialista. I media iraniani hanno dato risalto alle dichiarazioni della Guida Suprema, secondo cui «la resistenza è l’identità distintiva della Siria, un’identità formatasi all’epoca di Hafez al-Assad, che ha favorito l’unità siriana». Queste dichiarazioni però non sono state riportate dalla stampa siriana, commenta l’editorialista. Nel suo articolo il giornalista critica la remissività del presidente siriano di fronte alla sfacciataggine della Guida Suprema, che «ha ridotto l’identità della Siria alla resistenza», mentre è assente qualsiasi riferimento allo slogan «“il cuore pulsante dell’arabismo”, declamato più volte dal regime siriano». Tutte le dichiarazioni d’impegno del regime siriano nei confronti del mondo arabo sarebbero soltanto una copertura per dar modo a Damasco di continuare a coltivare i rapporti con Teheran senza essere totalmente isolata. Peraltro, il rientro della Siria nel consesso arabo (sancito lo scorso anno con la partecipazione di Damasco al vertice annuale della Lega araba) è vantaggioso anche per l’Iran, scrive Khairallah: da un lato Damasco funge da «cavallo di Troia nella Lega araba» consentendo a Teheran di avere un insider nel mondo arabo, dall’altro riallacciare i rapporti diplomatici con i Paesi arabi consente alla Siria di riceve finanziamenti anche da questi ultimi oltre che dall’Iran.

 

Anche l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid contesta su Asasmedia l’affermazione di Khamenei e afferma di non conoscere alcun Paese o Stato la cui identità sia la resistenza. E men che meno la Siria, visto che questo Paese «ha un’identità e un’appartenenza araba da centinaia d’anni. I nazionalisti arabi, primi fra tutti i baathisti, considerano gli Omayyadi il primo Stato nazionale arabo della storia, di cui Damasco fu la capitale. I palestinesi possono considerare la resistenza una priorità perché la loro terra è occupata. Ma la Siria combatte dagli anni ’40 del secolo scorso per riscattare la Palestina araba, alla stregua degli altri Paesi arabi. Proprio il suo impegno arabo è ciò che le ha impedito di riconciliarsi con Israele in cambio della restituzione del Golan». Elevare la resistenza a identità distintiva del Paese significa voler cambiare la demografia siriana, spiega al-Sayyid. Questo tentativo è già in atto in diverse parti del Paese, nelle città di al-Mayadin e Abu Kamal al confine con l’Iraq, ma anche nella stessa capitale, nel quartiere di Sayyida Zeinab e attorno alla moschea degli Omayyadi, tutte zone sottoposte, ormai da anni, a un crescente processo di sciitizzazione, prosegue l’editoriale. Sostituire l’identità araba con l’identità della resistenza per la Siria è sinonimo di «umiliazione, mortificazione e sottomissione, e questo gli iraniani lo sanno bene». L’editorialista confuta anche l’idea di Khamenei per cui la resistenza avrebbe rafforzato l’unità nazionale siriana. I fatti dimostrano il contrario, scrive al-Sayyid, visto che «oggi in Siria ci tra gli 8 e i 10 milioni di sfollati, e sei staterelli: lo staterello iraniano, turco, russo, curdo-americano, quello di al-Qaeda a Idlib e dintorni e infine quello di Assad sulla costa e nelle città».

 

Su al-‘Arabi al-Jadid la giornalista siriana Abeer Nasr sostiene che la morte di Raisi non cambierà nulla nei rapporti tra l’Iran e la Siria perché «la politica profonda dell’Iran non è mai stata nelle mani di chi detiene la presidenza, come ebbe a dire una volta l’ex presidente Mohammad Khatami, che definì [questa carica] “una spada senza lama”». Il regime continua «a tenere gli occhi puntati sui bottini siriani, alla luce dei debiti che Damasco deve regolare» con il creditore iraniano. Peraltro, Teheran non ha intenzione di perdere il controllo del suo «cavallo di Troia», per riprendere l’espressione di Khairallah, perché come disse l’ex presidente Ahmadinejad, «la Siria è la prima linea della difesa della nazione islamica», conclude l’editoriale.  

 

In un articolo colmo di nostalgia, lo scrittore siriano Ayman al-Shoufi ricorda i tempi in cui Damasco era il Levante, «una città vivace e amabile» diventata «angusta» dopo l’intensificarsi dell’occupazione degli iraniani, che l’hanno «contaminata con orribili manifestazioni di sciismo e gli attacchi lanciati nei dintorni della moschea degli Omayyadi e vicino al mausoleo di Sayyida Ruqaya». La capitale lancia un grido e chiede «un letto per riprendersi dal calo della pressione e dalla perdita di appetito per la vita». Una città culturalmente e intellettualmente viva fino ai primi anni 2000, elegante e tradizionale allo stesso tempo, Damasco, «la città sognante, la città narcisista, si è trasformata in una città arida e scarna, che respinge chi la abita in tutte le direzioni possibili e immaginabili, dopo essere stata un rifugio per coloro che desideravano viverci».

 

Gli arabi guardano a Oriente [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Alcuni quotidiani hanno commentato la decima sessione del Forum di cooperazione arabo-cinese, tenutosi il 30 e 31 maggio scorso a Pechino, e al quale erano presenti diversi Capi di Stato arabi, tra cui Mohammed bin Zayed Al Nahyan (Emirati), Abdel Fattah Al-Sisi (Egitto), Kais Saied (Tunisia) e Sheikh Hamad bin Isa Al Khalifa (Bahrein). I media arabi hanno accolto questa iniziativa molto positivamente, vedendovi un ulteriore segnale della volontà dei loro leader di affrancarsi dall’egemonia occidentale.

 

Quattro leader arabi in Cina contemporaneamente è quello che il giornalista iracheno Farouk Youssef ha definito sul quotidiano filo-emiratino al-Arab «un evento straordinario e senza precedenti». Per il mondo arabo, la Cina è diventata l’opzione alternativa all’Occidente. Pechino rappresenta il futuro, Washington e l’Europa il passato, lo «zio Mao» è sinonimo di fiducia, lo zio d’America di tradimento: «La Cina vive nel futuro, mentre l’Occidente vive ancora nella sua memoria coloniale. Fidarsi dell’Occidente è una sorta di distrazione. Ogni passo verso la Cina è un tentativo di sottrarsi a un destino sfortunato. Tutte le teorie occidentali sulla creazione di un nuovo Medio Oriente sono un tentativo di distruggere gli Stati, schiacciare le società, cancellare la loro volontà indipendente e imporre loro regimi infelici», commenta l’editorialista. La Cina è «il polmone dell’economia mondiale», preludio «alla nascita di un mondo nuovo, non più dominato dall’Occidente». Gli arabi, scrive Youssef, sono stati ingannati «dall’Occidente, che ha creato Israele, causa della loro rovina […], ma sanno che il Paese dello zio Mao sarà onesto con loro».

 

I quotidiani emiratini celebrano i quarant’anni di relazioni tra Abu Dhabi e il «gigante giallo». La visita dell’emiro di Abu Dhabi a Pechino è «storica», scrive sul al-‘Ayn al-Ikhbariya Mohammad Khalfan al-Sawafi, per diverse ragioni: è coincisa con l’anniversario dell’istituzione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi, ed è stata una visita di Stato su invito di Xi Jinping. Inoltre, al termine dell’incontro bilaterale Emirati-Cina che ha preceduto il forum, i due Paesi hanno firmato diversi accordi (in particolare per lo sviluppo congiunto di progetti green e nell’ambito della tolleranza e della convivenza), che «consolidano i legami di cooperazione già esistenti e aprono nuovi orizzonti». Ciò che accomuna gli Emirati e la Cina, scrive l’editorialista, è «una visione comune per un futuro promettente». Sawafi celebra anche la perspicacia di Pechino, che negli anni ha saputo cambiare la propria politica estera costruendo relazioni con gli Stati basate non soltanto sui rapporti economici, come avveniva fino a qualche anno fa, ma adottando strategie di diplomazia politica e culturale inedite. Un segnale in questo senso è arrivato proprio dal Forum di cooperazione arabo-cinese, commenta l’editorialista, al termine del quale è stata diffusa una dichiarazione che includeva «una posizione politica chiara a sostegno dei palestinesi nella Striscia di Gaza, il rifiuto del piano di sfollamento e la necessità di un cessate il fuoco».

 

Questa presa di posizione a favore di Gaza ha avuto una risonanza mediatica anche sui quotidiani siriani (la Siria guarda da anni alla Cina), che hanno elogiato «il senso di giustizia» di Pechino. Al-Tawra scrive che la cooperazione sino-araba è guidata «dallo spirito della Via della Seta, tramandato di generazione in generazione», uno spirito che da secoli unisce l’Oriente al Medio Oriente «per il bene dei popoli». Lo stesso quotidiano ha pubblicato la traduzione araba di un articolo della ricercatrice cinese Ma Ting, che celebra «l’apice storico» raggiunto dalle relazioni sino-arabe: «l’albero dell’amicizia sino-araba è ben radicato nel terreno fertile, con il rispetto reciproco, benefici reciproci e guadagno reciproco, e resisterà saldamente a qualsiasi tempesta».

 

Diverso, invece, è il caso della Tunisia. Anche il presidente tunisino Kais Saied ha incontrato Xi Jinping a margine del Forum, ma la stampa araba tende a minimizzare gli effetti di questo incontro. Come scrive su al-‘Arab Mokhtar al-Dababi, Tunisi, anche per un criterio di prossimità geografica, intrattiene rapporti molto stretti con l’Europa e non può rinunciarvi. Saied vuole diversificare le relazioni, non trovare un’alternativa all’Occidente. Peraltro, commenta l’editorialista, la Tunisia non è nella lista delle priorità cinesi avendo molto poco da offrire a Pechino: «non possiede elementi di potere economico come il petrolio e il gas». La Cina non entra nelle dinamiche di chi «è arrabbiato con l’Occidente, né vuole fare il braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale, alla Cina interessa solo che cosa possiedi e quali vantaggi può trarre da te». Tutto sommato, conclude l’editoriale, non conviene neppure a Tunisi «ipotecare centri nevralgici, come il porto della Goulette, o l’aeroporto di Cartagine in cambio di aiuti cinesi».

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