Intervento di Laura Zanfrini alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa”

Ultimo aggiornamento: 07/02/2024 11:10:36

Quando sono stata invitata a partecipare a questo convegno, mi è stato chiesto di concentrare l’attenzione su una dimensione che fino ad ora è stata poco evocata: quella dell’integrazione nel mercato occupazionale e della sostenibilità, economica e sociale, tanto dei processi migratori quanto di quelli di integrazione; dimensione che evoca la questione della gestione delle migrazioni economiche, una questione che in questi ultimi mesi è diventata di straordinaria attualità, non solo in Italia ma in tutto il mondo sviluppato. Credo si tratti, anzi, di uno degli ambiti nei quali si osserva effettivamente qualche tentativo di “cambio di rotta”, sollecitato peraltro dagli scenari demografici e da quelle che sono le esigenze e i fabbisogni del mercato del lavoro.

Proprio su questo tema abbiamo appena pubblicato il Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche, frutto di un ampio processo di consultazione con gli stakeholder dell’economia e della società. Sono infatti convinta di come, in particolare su questo tema, le soluzioni vadano costruite “dal basso”, con buonsenso e sulla base dell’esperienza diretta accumulata in ormai 30, se non 40, anni di immigrazione in Italia. Il Libro Bianco inizia con una citazione dalla Prima lettera ai Tessalonicesi: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono». Per cambiare rotta credo sia necessario porsi proprio in questo tipo di postura, l’unica che ci può consentire di fare un “salto di qualità” rispetto ai toni conflittuali e divisivi di un dibattito politico e pubblico che non è assolutamente in grado di produrre soluzioni, e soprattutto soluzioni che siano eque e sostenibili. In questo volume abbiamo costruito delle indicazioni di buonsenso, sulle quali riteniamo si possa anche ottenere il consenso delle diverse forze politiche e sociali, purché l’obiettivo che le anima sia quello di costruire delle risposte a questioni che sono purtroppo estremamente complesse. Non esistono, a mio avviso, come ho sentito spesso affermare, i match naturali e immediati tra domanda e offerta, pressione migratoria da governare e bisogni del mercato da solo. Gestire le migrazioni obbliga a fare i conti con tutte quelle che sono le grandi sfide e le grandi questioni aperte di una società. Questo è vero a livello globale, dove le enormi falle nella governance globale della mobilità umana sono speculari a una comunità internazionale che non riesce a produrre risposte alle crisi politiche, belliche, ecologiche, che vadano nella direzione dello sviluppo umano integrale. Ma è vero anche a livello nazionale, dove approcciare seriamente il tema delle migrazioni e del loro governo implica innanzitutto la necessità di prendere le distanze da alcune retoriche e narrazioni rassicuranti, poco coerenti con gli scenari che ci aspettano e che dobbiamo prepararci a governare. A me colpisce ed inquieta sempre, anche se ne comprendo perfettamente la ragione, che a 30 o 40 anni dalla transizione migratoria dell’Italia vi è chi avverte ancora il bisogno di rassicurare l’opinione pubblica dicendo che gli arrivi non sono poi così tanti, che gli immigrati non sono poi così tanti. O addirittura, argomento che fortunatamente oggi non ho sentito evocare (ma che in altre occasioni mi è capitato di sentire), di rassicurare l’opinione pubblica dicendo che in fondo i musulmani sono una minoranza degli immigrati – come dire che, se fossero di più, dovremmo preoccuparci. Queste narrazioni non sono assolutamente in linea con gli scenari demografici del nostro Paese, in particolare di una città come Milano, dove uno su quattro dei pochi bambini che nascono ha un background migratorio. E non sono assolutamente in linea con l’esperienza dei giovani che, come veniva ricordato stamattina, stanno crescendo in un’Europa, in un’Italia, multietnica, multiculturale, multireligiosa e che probabilmente hanno anche un’idea diversa della popolazione e dell’identità stessa dell’Europa.

 

Non intendo qui entrare nel dettaglio delle proposte raccolte nel Libro Bianco, che è peraltro scaricabile gratuitamente al link indicato e che vi invito a consultare. Vorrei però farvi qualche esempio di cosa vuol dire affrontare le sfide che la migrazione ci pone con questa prospettiva, cioè assumendola come un elemento strettamente intrecciato alle grandi sfide che la società italiana è oggi chiamata ad affrontare, non per sentirsi buona o perché vuole essere etica, ma per garantirsi una sostenibilità dal punto di vista economico e sociale. Sappiamo ad esempio quanto la questione degli scenari demografici sia sfidante, anche per le tensioni che essa genererà sul sistema della cura, nel cui ambito gli immigrati (le immigrate per essere più precisi) svolgono un ruolo fondamentale, a fronte di condizioni di lavoro e retributive non particolarmente vantaggiose, se non chiaramente discriminatorie.

 

Prendiamo come punto di riferimento il PNRR, che costituisce l’agenda che il nostro Paese si è data per il futuro e per andare a mettere mano alle criticità strutturali del nostro sistema, che mettono a serio rischio la sostenibilità del nostro modello sociale, del nostro welfare e del nostro modello di sviluppo. Tra i principi cardine del Piano vi è quello dell’equità di genere: oggi parliamo molto più spesso rispetto al passato di empowerment femminile, di emancipazione femminile, di parità di genere. Molte aziende ed organizzazioni sono coinvolte nel processo di produzione di una certificazione di genere. Ma la realtà dell’immigrazione ci parla di donne che, nel caso di alcune comunità, esprimono tassi di occupazione altissimi, molto più alti di quelli delle donne italiane, e pur tuttavia sono segregate in lavori lontani da qualsiasi idea di conciliazione con la famiglia, che non offrono nessuna opportunità di carriera, dove spesso i requisiti di professionalità e qualità delle prestazioni sono completamente trascurati; e, dall’altro lato, si parla di donne che vivono all’interno di comunità immigrate (originate dagli arrivi da Paesi come il Pakistan, l’India, l’Egitto…) dove i tassi di inattività raggiungono l’80/90%. Al centro del dibattito politico vi è in queste settimane il tema del salario minimo; orbene, il contratto nazionale di lavoro delle collaboratrici domestiche ha stabilito un salario che, se non vado errata, è addirittura di poco superiore ai 9€ orari, ma sei o sette donne immigrate su dieci che fanno le colf o le assistenti familiari lavorano in nero. E ciò, si badi bene, non per colpa della “Bossi-Fini”, come spesso si sente affermare: certamente in alcuni casi c’è anche il problema dell’irregolarità del soggiorno, ma nella gran maggioranza dei casi si tratta di persone che potrebbero essere regolarmente assunte, ma che per ragioni di costo o anche di ordine culturale si preferisce lasciare senza un contratto. Parliamo spesso del contributo degli immigrati al nostro sistema pensionistico (quando affermiamo che “pagheranno le nostre pensioni”), ma ci chiediamo cosa ne sarà di tutte queste lavoratrici immigrate che fra qualche anno diventeranno anziane, non avranno una casa e non avranno una pensione? Saranno anziane, povere e spesso sole. Parliamo tanto di questione giovanile, e la stessa equità generazionale è un altro dei principi cardine del PNRR. E sappiamo che in Italia abbiamo una quota di giovani che non studiano e non lavorano tra le più alte in Europa (inferiore solo a quella della Romania), pari addirittura al 20%, assolutamente insostenibile anche dal punto di vista demografico, atteso che tra i pochi giovani che abbiamo, così tanti (troppi) rimangono fuori dai processi educativi e dai processi di produzione di ricchezza. Orbene, tra i giovani stranieri questa percentuale sale a oltre il 30%. Sono i figli di un’immigrazione a basso reddito, che vivono spesso in condizioni di disagio dal punto di vista economico e che sono le principali vittime dei fenomeni di povertà educativa. Giovani che però, come si è detto, costituiranno una componente rilevante anche dal punto di vista demografico della popolazione adulta di domani e che in moltissimi casi – anche se la legge sulla cittadinanza resterà quella oggi in vigore –, prima o poi diventeranno cittadini italiani e voteranno anche per “noi” (sempre se andranno a votare). È singolare osservare come, rispetto a tutti questi temi, lo stesso PNRR ragiona come se l’immigrazione non ci fosse. Per esempio, si riflette sul sistema sanitario del futuro, sul sistema di assistenza, senza quasi neanche menzionare l’apporto prezioso del “welfare parallelo” fatto dalle donne immigrate.

 

Alla luce di queste considerazioni, è assolutamente indispensabile ripulire il nostro linguaggio dalle retoriche rassicuranti e provare a immaginare la società italiana non più come fatta da noi e dagli immigrati. [È indispensabile] correggere la tendenza a “misurare” sbarchi e nuovi arrivi mettendoli in rapporto agli oltre cinque milioni di immigrati residenti e alle centinaia di migliaia che hanno nel tempo acquisito la cittadinanza italiana, entro una sterile contabilità fondata su argomenti del tipo “quanto ci costano e quanto ci convengono”. Una tendenza speculare, appunto, alla rappresentazione comune di quella italana come una società duale, o oddirittura castale, dove da chi appartiene a una casta inferiore ci si aspetta che faccia i lavori che noi non vogliamo più fare. Una rappresentazione ormai non più sostenibile proprio dal punto di vista economico, prima ancora che dal punto di vista etico e sociale. E proprio perché, come giustamente veniva ricordato questa mattina, il tema del lavoro decente e dignitoso per tutti non riguarda solo il Marocco o la Tunisia, riguarda prima ancora l’Italia. L’Italia che nei prossimi anni dovrà affrontare grandi sfide come appunto quella della cura che l’accomunerà a molti Paesi nel mondo, specie a quelli economicamente avanzati – ma in prospettiva a tanti altri – che dovranno confrontarsi con un’esplosione del fabbisogno di cura e assistenza. Quella che si prefigura è una competizione globale sempre più agguerrita per l’attrazione dei professionisti della sanità e dell’assistenza, che l’Italia sembra destinata a perderein partenza se si considera come tanti medici e infermieri fuggono dall’Italia per spostarsi in Paesi, anche vicini, dove guadagnano tre volte tanto e hanno migliori prospettive di carriera. L’Italia, al contrario, forte della qualità del suo sistema formativo, potrebbe diventare pioniere nella costruzione di politiche migratorie che si inseriscono nell’idea di governance globale delle professioni sanitarie, che non si limitino a farci entrare in competizione sottrarre il personale sanitario dai Paesi che ne sono già sprovvisti, ma ci permettano di costruire delle soluzioni eque investendo soprattutto nella formazione di capitale umano e nel riconoscimento del valore sociale del lavoro di cura. Analogamente, se pensiamo alla sfida della transizione ecologica, non dovremmo dimenticare come la filiera agroalimentare sia una componente fondamentale dell’asupicato processo di ridisegno delle catene globali di produzione e di distribuzione del lavoro e del suo valore. Orbene, in moltissimi Paesi (sicuramente in Italia), gli immigrati rappresentano una quota significativa delle forze lavoro del settore, sebbene spesso siano impiegati in condizioni di sfruttamento, se non addirittura di schiavismo. Dunque, come possiamo parlare di transizione ecologica e di ridisegno dell’agricoltura, senza fare i conti con l’immigrazione e con le politiche migratorie? Parliamo di questione demografica: in questi mesi abbiamo spesso sentito anteporre in maniera subdola l’immigrazione alle azioni di sostegno alla genitorialità: «o facciamo più figli o chiamiamo gli immigrati». Conosciamo la limitatezza di questo ragionamento. E tuttavia vale la pena osservare come, se già per le famiglie italiane autoctone, quelle composte da soli italiani, è faticoso dal punto di vista economico mettere al mondo dei figli – sappiamo bene che in Italia il rischio della povertà è fortemente correlato al fatto di avere figli e al numero di figli –, a maggiore ragione ciò vale per le famiglie straniere. L’incidenza di famiglie povere tra quelle straniere con tre o più figli è altissima, per non dire drammatica. Ragionare sul possibile apporto demografico dell’immigrazione implica anche fare i conti con questo tipo di realtà. Parliamo di questione religiosa: il pluralismo religioso delle società europee, in gran parte esitato dall’immigrazione, è davvero una grande sollecitazione a ripensare al ruolo della religione nella sfera pubblica e negli ambienti di vita e di lavoro. Mi ha molto colpito, per esempio, che negli stessi giorni in cui anche noi colleghi professori ci siamo riuniti per la foto in cui ci si tagliava la ciocca di capelli a supporto delle donne iraniane che non volevano essere obbligate a indossare il velo, la Corte europea dava ragione a un’azienda olandese che aveva vietato a una dipendente musulmana di presentarsi al lavoro velata, quasi che il diritto a indossare il velo non avesse lo stesso valore del diritto a non indossarlo. Pensiamo alla miopia di questa decisione, a queste donne musulmane che magari fanno parte di comunità con nove ragazze su dieci fuori dal mercato del lavoro, che non studiano e non lavorano. Abbiamo bisogno di proporre dei modelli di donna musulmana praticante lavoratrice e capace di conciliare la sua appartenenza religiosa con la partecipazione alla vita pubblica di una società europea, non certo di vietare la manifestazione di una componente dell’identità individuale – quella appunto religiosa – che per molti (di noi e di loro) è fondamentale. Parliamo di una democrazia in crisi, della gente che non va più a votare, dei giovani che mostrano disaffezione per tutte le forme tradizionali di partecipazione politica. Orbene, quanto può essere davvero sollecitante, se non addirittura profetico, il confronto con chi scappa da Paesi dove non ci sono democrazia, libertà religiosa, diritti fondamentali? Stiamo riducendo per esempio tutta la questione del genere e della parità di genere a ideologia del gender. Orbene, quanto può essere fecondo il confronto con esperienze di Paesi dove essere donna vuol dire non poter ereditare, essere costretta a sposarsi da bambina o subire tante altre limitazioni?

 

Immagino di avere finito il mio tempo ma voglio sottolineare un ultimo punto. La questione del governo delle migrazioni economiche, su cui forse adesso rimetteremo mano in maniera più seria, intercetta tutte queste questioni. Non è qualcosa di distinto e separato rispetto alle grandi questioni sociali, culturali, religiose, identitarie che si stagliano all’orizzonte della società. In tale orizzonte, quella che dobbiamo temere non è il rischio di “sostituzione etnica” da qualcuno evocato, bensì il rischio di sostituzione dei valori più profondi dell’identità europea. Tra questi valori c’è, per esempio, il valore della protezione dei più deboli, dei più vulnerabili. Credo che questo ci debba portare a sgombrare il campo da un’altra narrazione di cui di nuovo comprendo le ragioni, ma che ritengo estremamente pericolosa. I richiedenti asilo, i rifugiati, non si accolgono perché ci servono, si accolgono perché hanno bisogno e diritto di essere protetti, dando priorità ai più vulnerabili. Come giustamente ci hanno spiegato rispetto al Marocco, non possiamo aiutare tutti: aiutiamo i malati, i bambini, le persone più vulnerabili. Dobbiamo avere il coraggio di affermare cosa è giusto fare e quali sono le priorità, specie ai giovani che oggi esprimono un grande bisogno di senso. Credo che rispetto a questa questione dobbiamo avere il coraggio di dire che certe cose si fanno perché è giusto farle, perché è giusto proteggere chi ha bisogno di essere protetto, anche se costa, senza doverci “giustificare” affermando che ci pagherà le pensioni. Forse essendo più autentici nelle nostre narrazioni, riusciremo ad ottenere più consenso su scelte che devono essere scelte sicuramente coraggiose. Finisco con una citazione dall’enciclica Fratelli tutti che, nel ricordarci la parabola del buon samaritano, ci lancia un profondo ammonimento: «Il servizio guarda sempre il volto del fratello […] e non è mai ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone». E io credo che in questa materia, se vogliamo cambiare rotta, dobbiamo veramente sottrarci alla tentazione di servire le ideologie rimettendo al centro le persone.

 

 

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