Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:10:52

All’indomani della fulminea conquista azera del Nagorno-Karabakh, che ha portato alla resa immediata dell’autoproclamata Repubblica armena dell’Artsakh, la stampa internazionale si concentra principalmente su due temi: la crisi umanitaria e la sua gestione e il nuovo assetto geopolitico nel Caucaso meridionale.

 

In merito alla crisi umanitaria il Washington Post ha scritto che in seguito alla garanzia di transito attraverso il corridoio di Lachin (striscia di terra che collega il Nagorno all’Armenia), richiesta e ottenuta da Yerevan, circa centomila persone, pari all’80% dei residenti della mai riconosciuta Repubblica, hanno scelto la fuga. Sempre il Washington Post riferisce che il 97% degli armeni del Nagorno vorrebbe lasciare l’Azerbaijan, malgrado le rassicurazioni da parte delle autorità azere. Un inviato di al-Jazeera ha documentato sul campo come la città di Stepanakert, fino a due settimane fa capitale dell’Artsakh, sia ormai completamente vuota. Anche secondo l’emittente qatariota l’80% della popolazione è già scappata.

 

Ma la crisi umanitaria assume anche una dimensione esterna al teatro del conflitto. A farsi carico dell’ondata di rifugiati sarà infatti soprattutto l’Armenia, Paese di due milioni e ottocentomila abitanti. La tragedia che si sta consumando nel Caucaso intanto ha riportato, a trent’anni di distanza dal primo conflitto, una delegazione ONU sul suolo azero. La delegazione dovrebbe tutelare i civili di etnia armena, mentre il direttore dell’USAID Samantha Power si è recata a Yerevan per segnalare l’attenzione americana alla causa dei rifugiati, come riferito da The New Arab.

 

Proprio a Yerevan il Parlamento armeno ha intanto votato a favore dell'adesione alla Corte Penale Internazionale (ICC). La ratifica dello Statuto di Roma, che spetta al presidente e verrà depositata presso il Segretario Generale dell'ONU, entrerà in vigore a 60 giorni dalla ratifica. La decisione era stata anticipata da un discorso del presidente in carica Nikol Pashinyan, il quale aveva definito la CSTO (Collective Security Treaty Organization, a guida russa) come insufficiente rispetto alle esigenze securitarie armene. Un’affermazione che si è rivelata drammaticamente vera. Come sottolinea il Guardian, il voto, avvenuto martedì, segna una netta presa di distanza da Mosca, già delusa dal mancato supporto armeno all’invasione dell’Ucraina e dai flirt di Pashiniyan con la NATO e gli Stati Uniti. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov aveva infatti definito le dichiarazioni del presidente armeno riguardo al CSTO come «inappropriate».

 

Passando alla dimensione geopolitica della crisi, l’analista Samuel Ramani individua su The New Arab tre importanti conseguenze della conquista del Nagorno Karabakh da parte azera.

 

Primo e più immediato effetto è che la Turchia, alleata storica dell’Azerbaijan e a esso affine per ragioni religiose e soprattutto etnico-linguistiche, è ora Paese garante della pace nel Sud del Caucaso.

 

La conquista del Nagorno è funzionale all'ambizioso progetto del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di realizzare un corridoio commerciale (corridoio di Zangezur) tra l’Azerbaijan, l’enclave azera di Nakhchivan e la Turchia. Questa infrastruttura ferroviaria, oltre ad aumentare il valore del commercio tra turchi e azeri da 6 a 15 miliardi di dollari, assumerebbe grande peso simbolico nell’immaginario panturco proposto dal presidente.

 

La seconda conseguenza è che, in questo nuovo assetto, sia Iran che Russia hanno tutto da perdere. L’Iran, da tempo allineato con Yerevan contro l’asse militare azero-israeliano, teme ora anche l’ingerenza turca ai propri confini, nonché il blocco del commercio con l’Armenia che deriverebbe dalla costruzione del corridoio di Zangegur. D’altra parte, la conquista del Nagorno e l’entrata armena nell’ICC segnano il definitivo voltafaccia dei russi, i quali hanno addirittura patrocinato la resa di Stepanakert.

 

Infine, considerando la posizione della Turchia, membro della Nato, e la dipendenza europea dal gas azero (nel 2022 si è registrata una crescita rispettivamente del 18%, e del 41.2% nelle importazioni dell’UE e dell’Italia da Baku), l’Occidente si ritrova con le mani legate e nessuna leva da far valere nel Caucaso meridionale. Fa da parziale eccezione la Francia, unico Paese eventualmente disposto a sostenere militarmente gli armeni, come riferito tra gli altri da La Croix.

 

Sulle colonne del Guardian invece, Nathalie Tocci ha affermato che l’Unione Europea possiede sia il veleno che l’antidoto alla crisi. Secondo la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI), l’UE si è giustamente rifiutata di riconoscere il Nagorno come territorio armeno. La fine della Repubblica dell’Artsakh e del coinvolgimento russo nelle sorti armene, e in parallelo l’allargamento a est dell’Unione come conseguenza del conflitto ucraino (Ucraina, Moldavia e Georgia le candidate), offrirebbero la congiuntura ideale per l’integrazione europea dell’Armenia. Il processo di integrazione sarebbe quindi la principale leva dell’Occidente nella crisi in atto.

 

Ad ogni modo, nelle valutazioni della stampa prevalgono i giudizi negativi rispetto al modo in cui l’Occidente ha gestito la questione del Nagorno-Karabakh. Rincarano la dose, anche se certamente non per deplorare la sorte degli armeni, i quotidiani filogovernativi turchi. Il Daily Sabah, per esempio, punta il dito contro l’incapacità degli Stati occidentali di rispettare le condizioni da loro stessi stabilite nel contesto delle Nazioni Unite.

 

La stampa francese, tradizionalmente molto sensibile alla questione armena anche a causa della consistente diaspora presente nel Paese transalpino, ha descritto la presa del Nagorno-Karabakh  come un vero e proprio sopruso. In particolare, mercoledì, sul settimanale Le Point, è apparso un appello firmato da cinquanta intellettuali che chiedono all’ONU di imporre sanzioni all’Azerbaijan, e all’UE di interrompere l’importazione di gas dal Paese caucasico. L’appello contiene anche un chiaro accostamento tra il genocidio armeno del 1915 e quanto avvenuto nelle ultime tre settimane.

 

“Il popolo ha fame? Si nutra di progresso”. La strana campagna elettorale di al-Sisi [a cura di Mauro Primavera]

 

Da una parte il progetto della “Nuova Repubblica” e la schiera di cantieri per la costruzione della nuova capitale, dall’altra l’inflazione alle stelle e lo spettro del default finanziario. È in questo clima che il presidente della repubblica egiziano ‘Abd al-Fattah al-Sisi si sta preparando al voto del 10-12 dicembre, che lo riconfermerà, con ogni probabilità, alla guida dello Stato.

 

Persino in un contesto autoritario come quello egiziano le elezioni rappresentano un momento politico rilevante. Il voto era stato fissato alla primavera del 2024, ma in seguito sono state anticipate a dicembre 2023. Come nota il Wall Street Journal, l’obiettivo è quello di ottenere il più alto consenso possibile in anticipo sul crescente malessere della popolazione: per l’anno venturo, infatti, lo Stato ha in programma una serie di misure economiche che ridurrà ulteriormente il valore della lira egiziana e, di conseguenza, il potere d’acquisto delle famiglie. Haaretz aggiunge che il cambio di data è dovuto anche alla travagliata trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, che ha accordato al Cairo un prestito di 3 miliardi dollari scanditi in otto rate, in cambio del monitoraggio sullo stato delle riforme e del rispetto dei diritti umani. Dopo aver ricevuto la prima tranche di denaro, al-Sisi sta prendendo tempo e ha rinviato i controlli del FMI al 2024, ma in questo modo ha bloccato anche l’erogazione del consistente prestito. Un altro elemento poco apprezzato dall’opinione pubblica, prosegue Haaretz, è che il Paese, nonostante le sue riserve di idrocarburi nei fondali mediterranei, importi gas dal vicino Israele. Come se non bastasse, la produzione di energia derivata dallo sfruttamento dei giacimenti di gas fatica a pareggiare la domanda, provocando frequenti blackout nelle aree urbane. Per questo motivo Al Jazeera, tradizionalmente critica verso le politiche del Cairo, ridimensiona le ambizioni di diventare il nuovo snodo energetico regionale: la produzione di Zohr ha disatteso le aspettative, l’esportazione di gas naturale in Europa è in calo, le infrastrutture non sono state ammodernate e non sono stati esplorati nuovi giacimenti.              

 

Nel frattempo, la macchina della propaganda si è messa in moto per supportare la candidatura di al-Sisi (annunciata ufficialmente lunedì scorso, a conclusione di una conferenza intitolata Hekayet Watan, “il racconto della patria”) organizzando cortei, spesso obbligando le persone a scendere in piazza, a sostegno del presidente. In alcuni casi, però, i raduni forzati si sono trasformati spontaneamente in manifestazioni anti-Sisi, sfociate talvolta in episodi di violenza. Pur avendo reso innocua da tempo l’opposizione, il regime ha impresso una nuova stretta contro le voci dissidenti: ad esempio “Alleanza 25-30”, un gruppo di politici indipendenti, ha rinunciato a presentare un nuovo candidato dopo l’arresto a metà settembre di uno dei suoi leader, Hisham Kassem. Uno dei pochi esponenti di punta dell’opposizione, il giornalista Ahmed al-Tantawi, ha già ammesso che difficilmente potrà raggiungere i requisiti richiesti (25.000 firme oppure l’approvazione di venti membri del Parlamento) per avanzare la sua candidatura, anche perché le persone che si sono presentate agli uffici governativi per sostenerlo sono state mandate via perché “il sistema di registrazione delle preferenze era fuori uso”.      

 

Il moto di dissenso si è accentuato negli ultimi giorni a causa delle infelici uscite di al-Sisi durante la conferenza, in cui il presidente ha stigmatizzato le lamentele sul caro vita ribattendo: «se il prezzo da pagare per prosperità, progresso e sviluppo fosse la fame e la privazione, allora, egiziani, non avanzate richieste dicendo “dobbiamo mangiare”. Giuro su Dio che, se il prezzo da pagare per il progresso e per la prosperità della Nazione fosse astenersi dal mangiare e dal bere, come altri fanno, allora non mangeremo né berremo». In un altro passaggio, il ra’īs ha rincarato la dose, affermando che gli basterebbero un miliardo di lire egiziane (circa 320.000 dollari) per distruggere il Paese: «Darò una striscia di Tramadol [un tipo di droga] e mille lire egiziane a centomila persone povere, ordinando loro di provocare il caos […] E se dessi loro solo cento lire? Potrei allora ordinare a centomila criminali ogni settimana per dieci settimane di cancellare un Paese con una popolazione di circa 105 milioni di abitanti per 30 milioni di dollari, è quello che alcune persone spendono per una festa». Un modo sicuramente non convenzionale di iniziare una campagna elettorale.

 

The New Arab va oltre la cronaca e delinea tre scenari per il post-voto. Nel primo, quello meno probabile, l’establishment avvierà un limitato programma di riforme permettendo ad alcune personalità civili di entrare nel governo, conferendogli un aspetto tecnocratico. Nel secondo, il regime verrà investito da un’ondata di proteste che innescherà una serie di manifestazioni e contro-manifestazioni, in maniera analoga a quanto avvenuto in Siria e in Libia. Nel terzo, quello più probabile, si prevede che il governo imploderà lentamente: «piuttosto che esplodere in una spirale di violenza e in un bagno di sangue, l’aggravarsi della crisi economica e il graduale calo del sostegno popolare faranno crollare il regime con un mugolio, piuttosto che con un botto».      

 

A cinque anni dalla morte di Khashoggi, l’Arabia Saudita ha vinto

 

Il 2 ottobre del 2018 il giornalista e attivista saudita Jamal Khashoggi venne ucciso dopo essere entrato nel consolato del suo Paese a Istanbul. Il corpo non è mai stato ritrovato, ma tutti gli indizi, incluso un report diffuso dalla CIA, portarono al principe ereditario saudita, ciò che, naturalmente, condizionò le relazioni tra Riyad e l’Occidente. A cinque anni di distanza da quel drammatico evento, molti giornalisti e analisti hanno cercato di trarre un bilancio dell’evoluzione delle relazioni del mondo occidentale, Stati Uniti in primo luogo, con l’Arabia Saudita. L’opinione più diffusa è sintetizzabile in poche parole: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha vinto la sua scommessa: il mondo si è lasciato alle spalle l’affaire Khashoggi. Per i politici americani la «ricchezza petrolifera di Riyad e la sua importanza strategica in Medio Oriente hanno avuto [e continuano ad avere] la meglio su altre considerazioni», ha scritto Ishaan Tharoor sul Washington Post, quotidiano con cui lo stesso Khashoggi collaborava come editorialista. Secondo le associazioni per i diritti umani come PEN America, è una situazione inaccettabile: «governi e istituzioni dovrebbero rifiutare il business as usual con il governo di bin Salman, altrimenti prendere di mira gli scrittori potrebbe diventare la nuova normalità». D’altro canto, Tharoor ha ricordato che è stato Brett McGurk, inviato speciale americano per il Medio Oriente, a puntualizzare la posizione americana: temi come i valori e i diritti umani «sono sul tavolo» quando Washington negozia con i partner in Medio Oriente e questa è una situazione «unica». Tuttavia, «ciò significa che i valori e i diritti umani prevalgono su ogni altra questione? No, ma è una parte della conversazione». Come ha scritto Mohamad Bazzi sul Guardian, per Donald Trump, presidente americano in carica all’epoca della morte di Khashoggi, la scomparsa del giornalista-attivista è stata in fondo un danno collaterale accettabile alla luce degli investimenti sauditi in America. «Per quanto rozzi potessero sembrare, i commenti di Trump all’epoca erano una spiegazione straordinariamente onesta delle priorità della politica estera degli Stati Uniti». Ecco perché anche Joe Biden, che aveva promesso di fare dell’Arabia Saudita un paria internazionale, ha dovuto fare un passo indietro: «il Principe Mohammed non soltanto ha umiliato Biden, ma ha anche mostrato che oggi […] è in una posizione di forza rispetto a cinque anni fa». L’Arabia Saudita «non è più sulla difensiva a Washington», ha scritto Vox.

 

È pur vero, tuttavia, che l’Arabia Saudita di oggi appare radicalmente diversa da quella di cinque anni fa. Cosa ne penserebbe Khashoggi? Se l’è chiesto David Ignatius, suo ex collega al Post, che sembra allinearsi anche lui alla riabilitazione dell’erede al trono saudita: oggi l’attivista scomparso nel 2018 sarebbe «disgustato ma non sorpreso dal potere autoritario di MbS». Eppure, ha puntualizzato Ignatius, «Khashoggi osserverebbe altre cose nel Regno che lo stupirebbero e gli farebbero piacere. Soprattutto, sarebbe colpito dall’emancipazione delle donne». «Tornando nel Regno – ha scritto Ignatius – Khashoggi sarebbe testimone dei cambiamenti che auspicava mentre era in vita, ma che dubitava potessero materializzarsi».

 

Se l’Arabia di oggi è diversa da quella di cinque anni fa, con ogni probabilità lo sarà ancora di più tra 7 anni, data che dovrebbe segnare la realizzazione della Vision 2030: è in atto una vera e propria trasformazione economica che ha già significativamente cambiato il volto del Paese, ha scritto Tarek Fadlallah, CEO di Nomura Middle East. Certo, come dice Fadlallah, il percorso è ancora lungo e non è detto che culminerà in un successo, ma i grandi progetti di riforma di MbS hanno già dato alcuni frutti. Per esempio, Fadlallah ha sottolineato l’ampio sostegno della popolazione saudita nei confronti delle riforme: «l’accettazione di nuove idee, così tante e così velocemente, in quella che è ancora una società conservatrice, ha sorpreso gli osservatori». Inoltre, la Vision si è radicata nella vita di ogni giorno «ed è diventata una causa che le giovani generazioni, in particolare quelle urbane ed educate, sono desiderose di abbracciare». C’è di più, però: il processo in corso in Arabia Saudita è ben più che una semplice trasformazione economica, per quanto profonda questa possa essere. Ne ha parlato Bernard Haykel, professore di Near Eastern Studies a Princeton, il quale ha ricordato come MbS sia convinto che il collante dell’Arabia Saudita debba essere il nazionalismo e non, come avveniva in passato, l’Islam. Secondo Haykel, l’obiettivo di MbS non è solo diversificare l’economia, ma «trasformare il proprio Paese da rentier petrostate a importante forza geopolitica, con un’economia diversificata». L’agenda di politica interna e quella estera sono perciò strettamente collegate. Per dare dei risultati, le riforme interne hanno bisogno di un ambiente regionale pacifico e stabile. Ecco, dunque, che anche la normalizzazione con Israele o il riavvicinamento all’Iran diventano strade percorribili. Ma non per questo meno complicate. Lo testimonia un fatto singolare, avvenuto questa settimana in ambito sportivo. A Isfahan, in Iran, si sarebbe dovuta giocare la partita di Champions League asiatica tra la squadra saudita Al-Ittihad e l’iraniana Sepahan. Tutto era pronto, ma prima dell’inizio dell’incontro è comparso a bordo campo un mezzobusto di Qassem Soleimani, ex comandante delle forze Quds e vero e proprio artefice della proiezione regionale iraniana. Appresa la notizia, la squadra saudita si è rifiutata di scendere in campo, segno – come ha ironicamente commentato il giornalista Gregg Carlstrom (Economist) – che le cause sottostanti alla rivalità tra Teheran e Riyad non sono state magicamente risolte dall’accordo raggiunto grazie alla mediazione della Cina. Un fatto evidenziato anche dall’attacco da parte dei ribelli houthi, vicini all’Iran, che ha causato la morte di tre soldati del Bahrein in territorio saudita. Anche riguardo alla normalizzazione delle relazioni con Israele c’è ancora molto lavoro da fare, ha confermato Daniel Shapiro, Senior Adviser per il governo americano su questo dossier. E anche dal lato israeliano le incognite per Netanyahu sono moltissime, come ha affermato James Shotter sul Financial Times.

 

Intanto Riyad, d’accordo con Mosca, ha prolungato fino a fine anno i tagli alla produzione di petrolio per mantenere alto il prezzo del greggio.

 

Tornano gli attentati in Turchia

 

Il partito curdo dei lavoratori, PKK, ha rivendicato l’attacco compiuto da un attentatore suicida davanti al quartier generale della polizia ad Ankara. A seguito dell’esplosione avvenuta a ridosso della riapertura del Parlamento turco (che a breve dovrebbe tra l’altro decidere sull’ingresso della Svezia nella NATO) due poliziotti sono stati feriti. Nella dichiarazione del PKK l’attentato terroristico aveva lo scopo di intimare alla Turchia l’interruzione delle operazioni militari in Siria e Iraq. Tuttavia, subito dopo l’attentato le forze aeree turche hanno bombardato 20 obiettivi nel nord dell’Iraq e secondo fonti ufficiali turche diversi terroristi sono stati neutralizzati, mentre la polizia ha arrestato tra Istanbul e Kırklareli diverse persone accusate di essere complici.

 

Dopo gli attacchi in Iraq, tuttavia, le autorità turche hanno reso noto di aver scoperto che «due terroristi [del PKK] sono arrivati in Turchia dalla Siria», e non dall’Iraq. Per questo motivo per Ankara ora tutte le infrastrutture controllate dai curdi siriani sono diventate un obiettivo legittimo. Michael Tanchum (Middle East Institute) ha tradotto in maniera piuttosto netta il messaggio che Ankara ha voluto mandare agli Stati Uniti, alleati dei curdi siriani: «toglietevi di mezzo in Siria». Washington però non sembra disposta a cedere molto facilmente. Lo dimostra il fatto che giovedì un caccia americano operativo nel nord est della Siria ha abbattuto un drone turco. Uno scontro tra Paesi della Nato.

 

Intanto Ankara ha messo in funzione la sua prima centrale nucleare, costruita dai russi di Rosatom. Insieme a Erdoğan, all’inaugurazione ha partecipato Vladimir Putin, collegato da remoto. Come ha scritto Gönül Tol (Middle East Institute) la centrale nucleare di Akkuyu non è stata soltanto costruita dai russi, ma è anche di proprietà russa e gestita da personale russo, ciò che solleva parecchi problemi per l’Occidente, in primo luogo perché implica la presenza di personale russo nel Mediterraneo a poca distanza dalla base NATO di Incirlik.

 

Attacco ad Homs

 

89 morti, tra cui 5 bambini e 31 donne, oltre 300 feriti. È questo il bilancio, ancora provvisorio, dell’attacco che ha colpito una cerimonia all’accademia militare di Homs, nella zona occidentale della Siria. La BBC parla di un numero ancora più elevato di morti. L’attacco è avvenuto con droni carichi di esplosivo e al momento nessuno l’ha rivendicato, anche se il governo siriano ha accusato le «organizzazioni terroristiche sostenute da attori internazionali ben noti». Per l’esperto di Siria Joshua Landis, interpellato da Al-Jazeera, è probabile che dietro all’operazione si celino i ribelli asserragliati nella provincia di Idlib. È in quest’area che si è concentrata la rappresaglia del governo siriano.

 

Secondo Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, gli avvenimenti di giovedì a Homs «evidenziano che lo status quo in Siria è insostenibile e che, in assenza di un percorso politico significativo, […] che vedremo solamente un ulteriore deterioramento della situazione, inclusa quella securitaria».

 

 

In breve

 

Sono 60 i morti in un attentato suicida in Pakistan. Domenica scorsa la festa che celebra l’anniversario della nascita di Muhammad si è trasformata in lutto collettivo quando un attentatore si è fatto esplodere tra i fedeli. I Talebani pakistani (TTP)responsabili di diversi attacchi terroristici a partire da novembre 2021, non hanno per il momento rivendicato la strage (al-Jazeera).

 

Duecento esponenti dell’estrema destra israeliana hanno pregato di fronte al cancello di Bab al-Qattanin nella zona di al-Aqsa, scortati dalla Polizia israeliana. Le autorità palestinesi hanno denunciato la violazione (The New Arab). Anche sul fronte delle relazioni ebraico-cristiane i rapporti sono in forte deterioramente: un gruppo di ebrei ortodossi ha sputato addosso a cristiani evangelici durante un evento organizzato la scorsa domenica a Gerusalemme. Il patriarca latino della Città Santa Pierbattista Pizzaballa ha segnalato che tali episodi sono in costante aumento da quando al governo c’è l’attuale coalizione di destra (Haaretz).

 

Abir Moussi, esponente di rilievo dell’opposizione al presidente tunisino Kais Saied, è stata arrestata martedì davanti al Palazzo presidenziale. La leader del Partito Costituzionalista Destour è accusata di ostacolare i lavori dell’esecutivo, e in particolare di aver fatto appello a un decreto presidenziale «allo scopo di creare il caos» (al-Jazeera).

 

L’iraniana Nagers Mohammadi, vicedirettrice del Centro per la Difesa dei Diritti Umani, riceverà il Premio Nobel per la Pace 2023 per il suo impegno civile, in particolare per la causa femminile. La Mohammadi sta scontando una pena di dodici anni nel carcere di Evin con l’accusa, tra le altre, di propaganda contro lo Stato. È la seconda iraniana a vincere il premio dopo Shirin Ebadi, avvocato ed attivista che lo vinse nel 2003 (Reuters).

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