Che cosa ci raccontano dalla Spagna all’Iran passando per la Francia i film sugli uomini di Dio

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:51

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Le rivoluzioni cominciano (anche) così: da un piccolo trailer di un piccolissimo film spagnolo scaricato 200 mila volte da Internet, da una settantina di sale costrette a interrompere la programmazione dei film in 3D per far posto a un documentario. Dopo una sigla scioccante, che con un’animazione sommaria tratteggia la crocifissione di un prete, compare il volto dell’autore, Juan Manoel Cotelo, che dice: «Gli esperti mi hanno spiegato chiaramente che se crocifiggo pubblicamente un prete avrò un grande successo. Mi hanno anche detto che se parlo bene di un prete sarò crocefisso io. Bene, ho un problema. Ho conosciuto un prete veramente bravo. Sì. E vorrei raccontarvelo».

Così, alla faccia dei luoghi comuni e di Zapatero, parte L’ultima cima (La ultima cima), un documentario su don Pablo, scomparso a 42 anni. Cotelo spiega le ragioni del suo interesse: «Non è un pedofilo, non è un donnaiolo, non è un ladro, non è un esorcista, non fa il missionario nella foresta. Niente di più e niente di meno che un buon prete». Una battuta di don Pablo durante una conferenza svela il segreto di quest’uomo: «È bellissimo usare la ragione. Uno può scoprire la ragionevolezza della fede». E i conti cominciano a tornare.

Teniamo buona questa parolina magica, ragione, decisamente esiliata dalle cronache politiche e culturali recenti, e passiamo al secondo esempio. Questa volta si va in Francia, patria della laicité, per parlare del film che a sorpresa sta sbancando i botteghini, forte di un Gran Premio della Giuria a Cannes, di una candidatura all’Oscar e di un passaparola che ha costretto il distributore a raddoppiare le copie per un pubblico che ha superato i due milioni. Il film è Uomini di Dio (Des hommes et des dieux) di Xavier Beauvois: racconta una storia accaduta nel 1996 in Algeria, dove un piccolo gruppo di monaci cistercensi che vive nel monastero di Tibhirine viene rapito dai terroristi del Gruppo Islamico Armato e barbaramente ucciso[1]. Sette uomini impegnati nelle attività quotidiane del lavoro e della preghiera, un’amicizia semplice e umanissima con i vicini musulmani: la tensione che cresce nel film evita il ricatto delle scene violente, lasciando fuori campo anche il sacrificio finale, la morte per decapitazione. Si affida invece alla scelta dei monaci, alle ragioni per fuggire o per restare, discusse a bassa voce in refettorio.

Tre coppie e un tradimento

Alla ragione tentano di appigliarsi anche i film iraniani più recenti, con risultati alterni. Come già era accaduto anni fa per i film cinesi, adesso sono loro a fare incetta di premi nei festival europei. Ed è impressionante vedere come, senza toccare direttamente temi politici, anticipino o confermino quella importante frattura nella teocrazia islamica che le cronache hanno registrato con le recenti rivolte di Teheran. Un esempio per tutti, About Elly, il film di Asghar Farhadi, vincitore dell’Orso d’Argento alla regia a Berlino, che racconta il fine settimana al mare di un gruppo di trentenni, già compagni di università. Con le tre coppie, accompagnate dai figli, arrivano due single, o quasi: Ahmad, che in Germania ha divorziato dalla moglie, e una giovane maestra, Elly.

Le donne portano il chador con disinvoltura, si ride e si scherza sulla nuova coppia che potrebbe nascere dalla vacanza. Il linguaggio è un po’ ingessato ma, invece che sul mar Caspio, potremmo benissimo essere in una qualunque località del Mediterraneo. Finchè Elly scompare e, durante le ricerche, gli amici scoprono che è fidanzata. A questo punto, modernità e ragione si eclissano, il film diventa un’altra cosa, una violenta resa dei conti con le regole incomprensibili di un mondo a parte. Nessuno chiama la polizia per paura di ammettere la complicità nel potenziale tradimento di Elly, emergono leggi dimenticate, si parla di onore e galera. Ci si ritrova tutti contro tutti, alla fine di un week-end infernale, impantanati, come le ruote della macchina nella sabbia, sulle rive del nulla.

Lo spaesamento prodotto nello spettatore dai film della nouvelle vague iraniana, ma in genere dal cinema degli Stati islamici, è simile a quello che si viveva, nella seconda metà del secolo scorso, davanti al cinema dell’Est. Domande di identità soffocate sul nascere, metafore oscure o troppo chiare per i palati europei, un angoscioso senso di precarietà che sconfina nel relativismo culturale. E non basta un autore da solo, neppure grande, a illuminare una dittatura del pensiero unico che incide profondamente su stili e linguaggi. Stalin imponeva la politica sui film ma anche i film sulla realtà, se possiamo fidarci della testimonianza di Kruscev che raccontava come, nel dopoguerra, deciso a imporre nuove tasse alle campagne affamate, il dittatore sovietico portasse ad esempio l'abbondanza ostentata dai suoi film di propaganda.

Non è solo un problema di censura, anzi. In uno Stato etico, uno Stato che si proclama fonte unica dell’etica, la censura è appena necessaria. E questo vale anche per l’illuminata Europa, Spagna o Francia che sia, quando contrabbanda il pensiero comune nichilista come presunta neutralità. Lo abbiamo visto nei due piccoli esempi citati sopra. Ma la ragione, quando si sveglia, provoca terremoti. Parola di Cotelo, il regista de L’ultima cima: «Investigare su un prete è rischioso. Cominci con un prete, poi ti interroghi su tutti i preti. Vuoi saperne di più sulla fede e poi ti interroghi sulla Chiesa intera. E finisci per chiederti cosa Dio abbia a che fare con tutto questo. Il problema è che poi vuoi condividere questa cosa. Quello che hai scoperto è una cosa seria. Ti sei messo in un gran pasticcio».

Ridere e piangere

Troviamo una paradossale via di uscita in un giovane cineasta rumeno, Radu Mihaileanu che, con una filmografia essenziale – tre soli film, molto diversi l’uno dall’altro, Train de vie, Va’ e vivrai, Il concerto –, scrive una sorta di summa dell’identità post-moderna. Da Mosca a Israele, da Parigi al Sudan, la salvezza è all’insegna del meticciato e del travestimento. Un’operazione culturale, quella di Mihaileanu che, svolta nello spazio breve di una decina d’anni, ha un valore molto superiore a quello dei singoli film. Si parte con Train de vie, del ’98. Protagonisti sono gli abitanti di un piccolo villaggio ebreo nell’Europa dell’Est del ’41. Dando credito all’idea del matto del paese, si travestono da nazisti e deportati per salvarsi la vita e organizzano un pittoresco viaggio in treno verso la terra di nessuno.

Fa ridere vedere nazisti ed ebrei che pregano insieme. Ma ridere, come dice il regista, «è un altro modo di piangere». E si piange per il ragazzino etiope, Shlomo, che nel film Va’ e vivrai (Va, vis et deviens, 2005), fugge dal Sudan per arrivare in Israele. Shlomo è cristiano, ma gli israeliani, nel 1984, portano in salvo gli etiopi di origine ebraica, i Falasha. Così la madre lo mette sul treno diretto a Gerusalemme. Finto orfano, finto ebreo, nero tra i bianchi, Shlomo troverà alla fine le sue radici. «Il compimento del proprio destino» dice Mihaileanu «è il divenire semplicemente uomo». Lo scoprirà anche la violinista Anne Marie, che non ha mai conosciuto il padre: «Cerco lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada, ovunque» dice. «Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un istante, solo un istante». Il desiderio si avvera quando al Théâtre du Châtelet arriva un’improbabile orchestra del Bolshoi: durante il concerto, Anne Marie ritroverà la propria identità e il padre, grazie a un finto direttore d’orchestra, musicista vero, epurato da Breznev. In mezzo, c’è il film: una spassosa sarabanda di equivoci tra Mosca e Parigi, mille travestimenti, una grande passione per il destino dell’uomo.

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[1] Cfr. Henry Quinson, Tibhirine: offrire la propria morte per far vivere l'opera di un Altro, «Oasis» 4 (2006), 90-92.

 

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