Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba
Ultimo aggiornamento: 07/11/2025 16:37:51
I giornalisti arabi guardano con crescente preoccupazione l’evoluzione del conflitto in Sudan, soprattutto dopo che la settimana scorsa le Forze di Supporto Rapido (FSR), cappeggiate da Hemedti, hanno conquistato El Fasher, in Darfur, macchiandosi di atrocità contro la popolazione civile. Nell’ultima settimana il dramma sudanese ha catalizzato l’attenzione politica e mediatica internazionale, scalzando la guerra a Gaza da questo triste primato, commenta Bakir Oweida sul quotidiano di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat. «Mentre Gaza può quasi dirsi cancellata dalla faccia della terra, le tragedie della guerra sudanese non sono meno terribili», scrive il giornalista palestinese, ricordando che dodici milioni di bambini sudanesi sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione, che le vittime della guerra hanno superato le centocinquantamila persone e gli sfollati interni sono oltre dodici milioni. Ciò che sta accadendo in Sudan, conclude Oweida, «è un assassinio dell’umanità dell’essere umano».
Sullo stesso quotidiano il ricercatore libico Jibril al-Obaidi denuncia «gli ingordi che si avventano sul piatto sudanese». I recenti eventi di El Fasher «hanno cambiato la mappa della guerra e la geografia dell’influenza, soprattutto da quando la regione del Darfur, ricca di oro e minerali, è finita quasi interamente sotto il controllo delle FSR». Questa regione, contesa tra tribù arabe, tribù africane arabofone e altri gruppi, è al centro delle tensioni perché ospita i maggiori giacimenti auriferi del Sudan. L’oro è diventato la posta in gioco principale, scrive al-Obaidi, perché dopo la secessione del Sud Sudan, che ha privato il Paese del 70% delle sue riserve petrolifere, Khartum ha puntato sull’aumento della produzione aurifera per compensare la perdita delle entrate derivanti dal petrolio. Tuttavia, gran parte dell’oro sudanese viene oggi contrabbandata all’estero senza tradursi in sviluppo, ricostruzione o aiuti concreti per una popolazione stremata dalla fame e dalla guerra. Il giornalista teme inoltre il rischio secessione del Darfur, che «priverebbe la regione dell’accesso al mare e alle università, situate in gran parte a Khartoum». Un simile scenario, osserva, aprirebbe la strada a una nuova frammentazione e a ulteriori conflitti interni tra i diversi gruppi etnici, condannando il Darfur a una cronica instabilità nonostante la sua ricchezza in oro e minerali. Le potenze straniere, aggiunge, sono in attesa di capire chi controllerà la regione per poi negoziare accordi sull’estrazione delle risorse, riducendo la popolazione del Darfur a «mera custode delle miniere di oro e minerali, mentre i profitti finiranno nelle banche delle società straniere». Il tavolo negoziale di Gedda, conclude Obaidi, rappresenta l’unica opportunità concreta per trovare una soluzione realistica alla crisi sudanese.
«Per settant’anni il Paese è rimasto prigioniero di un’unica, immutabile equazione: uno Stato nato incompleto, un esercito che si espande oltre lo Stato e un’identità frammentata tra arabismo e africanismo, Islam e politica, tribù e nazione», scrive Hani Salem Mashour sul quotidiano filo-emiratino al-‘Arab. Il Sudan «non è mai riuscito a essere una casa per tutti; lo Stato, nato dalle rovine del colonialismo, non ha mai imparato a costruire un contratto sociale, ma ha sostituito la sovranità con la tutela, l’unità con l’oppressione e la religione con l’identità. Così la diversità sudanese si è trasformata da fonte di forza in combustibile per una guerra senza fine, e il centro, anziché abbracciare le periferie, ha iniziato a divorarle», commenta il giornalista emiratino. L’articolo, chiaramente rappresentativo degli argomenti utilizzati da Abu Dhabi in merito al conflitto, lancia poi un attacco contro i Fratelli musulmani sudanesi, accusandoli di aver trasformato il Paese, dopo il colpo di Stato del 1989, «in un laboratorio a cielo aperto per il progetto transnazionale dell’Islam politico». Con la caduta del regime di al-Bashir nel 2019, scrive l’autore, «i sudanesi hanno pensato che la storia avesse voltato pagina, ma Burhan l’ha riaperta nel sangue, riportando la Fratellanza al cuore dello Stato. L’esercito è diventato una versione aggiornata dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, e non combatteva per difendere la patria, ma per un progetto morto che rifiutava di essere sepolto. A due anni dall’inizio della guerra, El Fasher è il simbolo del fallimento di questo progetto». Mashour punta poi il dito contro alcune capitali (che non nomina) accusandole di continuare a scommettere sul riciclaggio dei Fratelli musulmani come strumento di influenza politica, ignorando che «l’Islam politico non costruisce nazioni, le divora».
Il quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid titola “Sudan… un fallimento in un continente fallito”. L’ex ambasciatore sudanese Jamal Mohammad Ibrahim ricorda il ruolo di primo piano svolto dal suo Paese sulla scena diplomatica africana dopo l’indipendenza del 1956, quando si fece portavoce del diritto all’autodeterminazione dei popoli dell’Africa centrale e subsahariana. Negli anni ’60, scrive, «il Sudan aveva una voce forte alle Nazioni Unite, una voce in difesa del diritto alla libertà dei popoli che si trovavano sotto il dominio coloniale». Durante la sua leadership diplomatica, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, quindici Paesi africani ottennero l’indipendenza nel 1961, diventando membri a pieno titolo delle Nazioni Unite. Questo «l’Unione Africana dovrebbe ricordarselo, afferma Ibrahim, prima di sospendere la partecipazione del Sudan alle sue attività». Oggi i popoli africani si trovano intrappolati tra «le ambizioni dei potenti da un lato, e la corruzione dei deboli dall’altro». Le potenze internazionali potrebbero non essere ansiose di mettere fine al conflitto, perché la lotta tra i contendenti «crea acque torbide, che facilitano la caccia di tesori nascosti e portano guadagni».
Su al-Quds al-‘Arabi lo scrittore libanese Gerard Dib si rivolge direttamente al consigliere del presidente degli Stati Uniti per gli affari africani, Massad Boulos, invitandolo a un’azione più decisa sulla crisi sudanese. «Invece di limitarsi a chiedere la protezione dei civili – che pure è necessaria – perché non far atterrare l’aereo di Trump, che ha sorvolato il Sudan diretto in Asia per firmare un accordo di cessate il fuoco tra Cambogia e Thailandia, a Khartum per mediare una tregua?», scrive Dib. E aggiunge con tono polemico: «Anziché vantarsi di aver posto fine a otto guerre da quando è entrato alla Casa Bianca, perché Trump non fa della guerra in Sudan la nona?». Lo scrittore sottolinea come il conflitto in corso non possa più essere interpretato semplicemente come una lotta di potere e influenza tra Hemedti e Burhan, ma sia il risultato di complesse interferenze regionali e internazionali. I Fratelli musulmani sudanesi stanno cercando di rafforzare la propria presenza all’interno dell’esercito per migliorare la propria posizione negoziale e affermarsi sulla scena politica del Paese. Essi traggono beneficio dalla presenza attiva della Turchia nella regione, spiega Dib. Ankara, pur mantenendo solidi legami con i Fratelli musulmani, persegue in Sudan interessi strategici autonomi, tra cui il progetto di una base militare turca sul Mar Rosso, facendo concorrenza all’Iran, che, dopo l’uccisione dell’ex presidente Omar al-Bashir, ha visto nella guerra un’occasione per espandere la propria influenza nel continente africano. Anche Teheran infatti avrebbe chiesto al generale Burhan di consentire l’istituzione di una base militare iraniana sul Mar Rosso. Dib rivolge una critica anche all’Italia, che ritiene coinvolta nel sostegno a Hemedti perché spera che quest’ultimo, che controlla il Darfur, regione strategica al confine con la Libia e il Ciad, possa collaborare a contrastare le migrazioni irregolari verso l’Italia e gli altri Paesi europei.
Il politologo libanese Gilbert Achcar ricorda che il Darfur non è l’unica regione in cui si sta consumando la tragedia sudanese, perché qualcosa di analogo sta accadendo anche nel Kordofan meridionale, dove le città di Kadugli e Dilling sono state assediate dal Movimento popolare di Liberazione del Nord-Sudan, guidato da Abdelaziz al-Hilu, alleato delle Forze di Supporto Rapido. «La responsabilità degli Emirati nel sostenere le FSR […] non dovrebbe tuttavia oscurare la responsabilità di quanti sostengono le Forze Armate Sudanesi nell’alimentare e prolungare la guerra invece di esercitare pressioni per porvi fine». Achcar ritiene peraltro che la responsabilità maggiore ricada sugli Stati Uniti, che «hanno stretti legami con i Paesi della regione coinvolti nella guerra in Sudan ed esercitano su di essi una grande influenza». Trump, commenta con sarcasmo il politologo, «non sembra ancora aver trovato un progetto immobiliare o minerario che lo spinga a intervenire attivamente nell’arena sudanese».
Il faraone contro l’arabo: apre il Grande Museo Egizio al Cairo [a cura di Chiara Pellegrino]
Sabato 1° novembre è stato inaugurato al Cairo il Grande Museo Egizio (GEM). Situata a pochi chilometri dalle Piramidi di Giza, la nuova struttura ripercorre tutta la storia dell’antico Egitto, dalla preistoria al periodo greco-romano. Con i suoi 480.000 metri quadrati, il GEM ospiterà 100.000 reperti, tra cui il celebre tesoro di Tutankhamon, composto da oltre 5.300 manufatti, e la monumentale statua di Ramses II, alta 11 metri, la più grande mai esposta in un museo archeologico, come ricorda su al-Sharq al-Awsat Zahi Hawass, archeologo di fama internazionale ed ex ministro delle Antichità dell’Egitto. La cerimonia di inaugurazione (qui il video integrale), di proporzioni imponenti, ha però diviso l’opinione pubblica egiziana e, più in generale, araba.
Il Grande imam dell’Azhar si è congratulato con il Presidente egiziano ‘Abdel Fattah al-Sisi sottolineando «la necessità di trarre ispirazione dall’orgoglio degli antichi egizi, che stupirono il mondo con una civiltà eccezionale». Il museo, prosegue il comunicato dell’importante moschea cairota, «riflette la posizione unica dell’Egitto nella civiltà umana nel corso dei secoli e conferma che è stato, è e sarà, se Dio vuole, un faro del patrimonio, della cultura, della civiltà e dell’umanità».
Lo scrittore libanese Hazem Saghieh interpreta l’apertura del nuovo museo alla luce del difficile contesto geopolitico mediorientale, segnato da guerre e crisi, e vi riconosce un segnale positivo di rinascita culturale in una regione troppo a lungo dominata dalla distruzione e dal fallimento: «Invece di ridurre i Paesi a semplici campi di battaglia, il nuovo museo amplia la posizione dell’Egitto sulla mappa del mondo. Siamo di fronte a un progetto dalla dimensione culturale, educativa, economica e turistica, anziché a piani che imprigionano i popoli in una dimensione ristretta».
La stampa di proprietà qatariota, tradizionalmente più vicina alle posizioni islamiste, si è scagliata invece contro questa iniziativa, accusata di celebrare lo spirito faraonico dell’Egitto a discapito della sua identità arabo-islamica. “Il faraone era presente, l’arabo assente”, titola al-‘Arabi al-Jadid. Il giornalista egiziano Wael Qandil denuncia lo «stato di faraonismo isterico», un fenomeno che, a suo dire, era già emerso quattro anni fa durante la spettacolare parata del trasferimento delle mummie reali dal vecchio al nuovo museo, evento di cui avevamo parlato nella rassegna stampa del 9 aprile 2021. Già allora, osserva Qandil, il dibattito sull’identità egiziana aveva assunto toni accesi, polarizzando l’opinione pubblica intorno alla questione dell’appartenenza culturale del Paese, riproponendo «il vecchio sciocco gioco della contrapposizione tra l’arabismo, l’Islam e il faraonismo». Questa volta, tuttavia, la tendenza appare ancora più marcata: secondo Qandil, sembra quasi che l’Egitto stia vivendo una sorta di «dimissioni dall’arabismo». I social media, prosegue l’articolo, sono stati inondati da milioni di foto create con l’intelligenza artificiale che ritraggono cittadini in abiti faraonici, come se si trattasse di una «messa in scena collettiva per annunciare un deliberato colpo all’identità». Il giornalista parla di un «clima di radicamento isterico nell’identità faraonica», spinto fino all’eccesso e accompagnato da un’«ostilità ingiustificata verso l’appartenenza araba». «Questo incendio sciovinista è stato acceso deliberatamente – scrive ancora Qandil – per spingere gli egiziani a rifugiarsi inconsciamente in un guscio faraonico, chiudendo le porte e recidendo ogni legame con la cultura e la civiltà araba». Ma questo atteggiamento, prosegue l’articolo, non riflette affatto la vera natura dell’egiziano, persona semplice e autentica, che non è ossessionata dalla ricerca di un’identità alternativa a quella araba. Ciò che risulta preoccupante, conclude Qandil, è che questa «frenesia identitaria» sia diventata uno strumento di manovra politica: in alcuni momenti si esalta l’appartenenza faraonica per poi rispolverare all’occorrenza canti e slogan dell’arabismo.
Sulla stessa testata il giornalista egiziano Muhannad Aqil paragona l’atmosfera che ha accompagnato l’inaugurazione del nuovo museo egizio ai fastosi festeggiamenti organizzati nel 1971 dallo Scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi per celebrare i 2.500 anni dell’Impero persiano. Nel cuore di Persepoli, ricorda il giornalista, lo Scià fece erigere tende in seta francese, servire piatti importati da Parigi, decorare con fiori olandesi e offrire vini di Bordeaux, mentre migliaia di camerieri europei accoglievano sovrani e dignitari da ogni parte del mondo. «Era come se quell’uomo volesse dimostrare alla storia di essere ancora in grado di risvegliare gli antichi fasti, ma la storia non gli sorrise e si limitò a guardare. Solo otto anni dopo, nel febbraio del 1979, lo Scià cadde e con lui il suo impero di carta. Di quella notte rimangono solo le immagini e un vago senso di dolore per una gloria costruita su sabbie mobili». L’inaugurazione al Cairo, prosegue Aqil, «sembrava la scena di un film su un Paese che non esiste». La cerimonia «sembrava voler convincere gli egiziani che il Paese sta andando bene, ma la verità è che va nella direzione opposta con ostinata calma. È come se cercassimo di richiamare alla memoria la gloria da un museo anziché crearla nella strada», prosegue l’articolo. «Quando le nazioni non riescono a costruire il futuro si rivolgono ai musei», scrive il giornalista, perché il passato, a differenza del presente, «non fa domande, non esige, non oppone resistenza. Possiamo ridefinirlo come desideriamo per adattarlo al presente. […] E allora la statua del contadino nel museo appare più dignitosa del contadino che vive nella sua terra, il tempio immortalato nella fotografia è più pulito della scuola, l’antica regina nel sarcofago è più maestosa delle donne di oggi in coda per il pane. L’antica civiltà che celebriamo è diversa da noi, eppure ci ostiniamo ad aggrapparci a essa, forse perché è l’unica che, finora, non ci ha traditi». Aqil conclude con parole amare: «Ci rifugiamo nelle antichità come un bambino si rifugia in una fotografia del padre scomparso. Ci illudiamo che la grandezza si trasmetta attraverso il sangue e che le mummie siano la prova che siamo “come loro”. Ma dimentichiamo che coloro che hanno costruito quella civiltà non avevano un museo, avevano una patria viva».