Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 14:28:35

Nel focus attualità di questa settimana ci soffermiamo sul viaggio di Mario Draghi in Libia, sui rapporti con la Turchia, sul presunto tentativo di colpo di stato in Giordania e sui negoziati sul nucleare iraniano. Ma c’è una novità: da questa settimana troverete nel testo anche uno speciale approfondimento dalla stampa araba. Il primo della serie riguarda un evento...faraonico

 

Cominciamo da Draghi in Libia. Il presidente del consiglio Mario Draghi ha scelto la Libia per la sua prima visita all’estero da quando è entrato in carica e in settimana ha incontrato il premier libico Abdelhamid Dbeibah. Scrive Le Figaro che il valore della visita «quanto meno simbolico, fa di essa un evento geopolitico». Dopo il 2011 l’Italia ha perso la sua storica influenza in Libia, a vantaggio della Turchia in Tripolitania e di russi, emiratini, egiziani (e francesi?) in Cirenaica. Ora, scrive Franco Venturini sul Corriere, la nascita del governo di unità nazionale libico è «un treno inaspettato, che credevi non sarebbe mai giunto», favorito – scrive invece Avvenire – dallo stallo militare durato mesi. L’Italia sta provando a salire a bordo di questo treno, giovandosi del «prestigio personale di Mario Draghi», ma soprattutto del cambio di direzione impresso dalla nuova amministrazione a Washington. Come ha scritto infatti Daniele Santoro prima della visita «per circa un anno e mezzo nell’ex Libia si è combattuta una guerra contro l’influenza della Turchia nel Grande Mediterraneo. Combattuta nelle Libie, non per le Libie. […] Questo fino a luglio scorso, quando i contendenti hanno avvertito distintamente il suono della campanella. La lunga ricreazione concessa da Trump volgeva al termine».

 

La visita di Draghi – accompagnato da alcune importanti aziende italiane che cercano di “fare sistema” come ha scritto Le Figaro – segnala l’intenzione di tornare a occuparsi di Libia, dopo «dopo dieci anni di sostanziale apatia e del susseguirsi di iniziative dal valore al massimo estemporaneo», scrive Limes. Certo la visita di per sé non può essere risolutiva ma manifesta la volontà di tornare a occuparsi «di un dossier decisivo per la sicurezza del nostro estero vicino». Il fallimento dell’iniziativa italiana ed europea implicherebbe, conclude il Corriere della Sera, la trasformazione del Mediterraneo in «un mare russo-turco, con un bel quartier generale proprio davanti ai nostri occhi».

 

Diversi gli argomenti trattati da Draghi e Dbeibah, ha spiegato Giuseppe Dentice sul sito del CESI: dal «consolidamento del processo di pacificazione del Paese sino alle elezioni generali del 24 dicembre prossimo […] al rafforzamento della cooperazione in ambito bilaterale, attraverso un’azione congiunta su temi quali energia […], sanità […], sicurezza […], economia […] e tecnologia (si pensi alla possibilità di inserire la Libia all’interno della questione BlueMed e al tema sempre più cruciale dei cavi marittimi)». 

 

Il presidente del Consiglio italiano può far leva, prosegue Dentice, sulla «peculiare capacità di Roma di proporsi come attore/mediatore in termini di soft-power». Tuttavia, come sottolinea Bloomberg l’iniziativa di Draghi rientra in un più ampio tentativo europeo di recuperare il terreno perso in Libia e respingere le influenze degli attori regionali e della Russia. Non a caso, come rileva anche il settimanale francese L’Obs, prima della visita di Draghi i capi della diplomazia italiana, francese e tedesca hanno incontrato le nuove autorità libiche a Tripoli. Dbeibah ha incontrato anche il premier greco Mitsotakis, che ha annunciato la riapertura dell’ambasciata a Tripoli a cui seguirà quella del consolato a Bengasi. La visita di Mitsotakis va letta in chiave anti-turca, visto il tentativo di Atene di convincere la Libia a ricusare l’accordo sui confini marittimi siglato con Erdogan dal precedente governo (estremamente svantaggioso per il Paese ellenico). Per ora, come riporta il quotidiano greco Ekathimerini, Dbeibah non ha dato segni di voler abbandonare l’accordo turco-libico.

 

Non sono mancate le critiche seguite alla conferenza stampa congiunta Draghi-Dbeibah. Ne ha parlato Nello Scavo su Avvenire: il presidente del Consiglio ha ringraziato la guardia costiera libica per il suo lavoro “di salvataggio” ma questo gli ha attirato le critiche delle associazione umanitarie e di alcuni esponenti politici di centro-sinistra che hanno ricordato i «veri e propri lager» in cui sono detenuti i migranti. Il presidente del Consiglio ha risposto ieri in conferenza stampa, momento nel quale si è anche rivolto a Erdogan chiamandolo “dittatore”. Il fatto ha suscitato la reazione turca, che ha convocato l’ambasciatore italiano.


L’origine della diatriba risiede nel cosiddetto “sofagate” che ha coinvolto Erdogan, Charles Michel e Ursula von der Leyen, e ha catturato tutta l’attenzione della stampa. Ma di cosa si è parlato durante il summit? Come spiega Dorian Jones l’incontro serviva ad allentare le tensioni che nell’ultimo periodo hanno caratterizzato il rapporto turco-europeo, segnato dai problemi nel Mediterraneo orientale con Grecia e Cipro e dal giro di vite sulle libertà e i diritti civili. D’altro canto, come spiega lo IAI: l’Europa «da tempo considera la Turchia come un “gatekeeper” dei rifugiati nella regione [e] Ankara non vuole rinunciare ai sostanziosi fondi Ue di contributo per alleviare le condizioni dei quattro milioni di rifugiati siriani». Oltre ai migranti, sul tavolo l’unione doganale, il commercio e la questione sanitaria.

 

Un colpo di Stato in Giordania?

 

Sabato scorso circa 20 persone sono state arrestate in Giordania in seguito a quella che le autorità del Paese hanno chiamato una minaccia alla «sicurezza e stabilità» del Paese. Tra gli arrestati, con l’accusa di tramare per un colpo di stato, anche l’ex principe ereditario Hamzah bin Hussein, figlio di Re Hussein e della sua quarta moglie, la regina Noor. Secondo il Washington Post il complotto contro re Abdullah II coinvolgeva anche alcuni capi di tribù. Domenica pomeriggio il ministro degli esteri Ayman Safadi ha accusato direttamente l’ex principe ereditario di lavorare insieme a Bassem Awadallah, ex ministro delle finanze e consigliere del principe erediatrio saudita Mohamed bin Salman, e Sharif Hassan bin Zaid, ex inviato a Riyadh. Anche per questo motivo non sono mancati i riferimenti a «entità straniere» coinvolte nel piano. I media sauditi hanno però prontamente comunicato che MbS espresso il suo completo sostegno al re (NYT). Stessa cosa ha fatto Israele, scrive l’Associated Press, che tramite il ministro della Difesa Benny Gantz ha manifestato l’appoggio alla Giordania, riferendosi ad Amman come di un «alleato strategico» e chiamando quanto avvenuto «una questione interna giordana».

 

In seguito all’arresto il principe Hamzah ha rilasciato due video (BBC) in cui afferma di «non essere lui il responsabile del degrado della governance, della corruzione e dell’incompetenza […] nella struttura governativa negli ultimi 15-20 anni, […] della mancanza di fiducia che le persone hanno nelle proprie istituzioni». Il principe Hamzah ha denunciato l’assenza di libertà di espressione, affermando che in Giordania, un tempo al vertice nella regione per standard di libertà, oggi si può essere arrestati anche per aver criticato un minimo aspetto di una determinata politica. Come scrive Annelle Sheline (Responsible Statecraft), queste notizie giungono in un momento difficile per la Giordania, con la popolazione alle prese con la grave situazione economica e sempre più scontenta per la repressione governativa.

 

Ma chi è il principe Hamzah? Alla morte di Re Hussein, l’attuale sovrano Abdullah l’ha scavalcato nella linea di successione (è di 18 anni più vecchio), facendo però di Hamzah il principe ereditario. Carica che mantenne fino al 2004, quando Abdullah lo rimosse per far spazio a Hussein, suo figlio. Il principe Hamzah è popolare in Giordania grazie soprattutto agli stretti legami che intrattiene con le tribù giordane della East Bank, mentre l’esercito, scrive invece il Financial Times, è saldamente nelle mani di Abdullah. Inoltre, prosegue Sheline, anche a causa della moglie Rania, re Abdullah è visto da alcuni come troppo vicino alla causa palestinese. Riguardo la personalità di Hamzah circolano voci discordanti: dal palazzo reale trapela che Hamzah sia ossessionato dal trono, mentre il suo entourage lo descrive come preoccupato soprattutto del benessere della famiglia, riporta il FT.

 

Cosa si muove dietro queste dinamiche e chi potrebbe essere interessato a destabilizzare la Giordania? Difficilmente le monarchie del Golfo, Israele o gli Stati Uniti e per questo Annelle Sheline ipotizza che l’arresto sia in realtà legato a questioni politiche interne: arrestando il principe, alcuni esponenti dell’establishment come Awadallah, e membri della tribù Majali (storicamente insofferenti nei confronti del re), le autorità giordane pensavano di offrire all’opinione pubblica un facile capro espiatorio per le difficoltà in cui si trova il Paese. Si tratta di un’ipotesi in linea con le considerazioni di Ghaith al-Omari e Robert Satloff, i quali ricordano che in Giordania «tradizionalmente serie minacce interne […] tendono a produrre una dinamica di ‘rally round the flag’». Inoltre, alcuni aspetti non quadrano del tutto. Ad esempio, se davvero Hamzah avesse qualche ambizione, non avrebbe avuto senso intrattenere rapporti con Awadallah, che secondo quanto afferma Hassan Barari, professore di relazioni internazionali alla Qatar University al Financial Times, è estremamente impopolare in Giordania.

 

Grazie alla mediazione dello zio, il principe Hamzah ha poi firmato una lettera in cui riafferma la fedeltà al Re (Al Jazeera). Il caso è chiuso per ora, ma probabilmente non sarà l’ultimo capitolo del conflitto tra i due fratellastri. Soprattutto, le sottostanti cause di malcontento sono reali e si manifesteranno in seguito in qualche modo.

 

A Vienna nuovi negoziati sul nucleare iraniano

 

Questa settimana a Vienna si svolgono nuovi negoziati per valutare il rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano. I negoziati, come spiega il Guardian, si svolgono in un hotel dove si trovano i rappresentanti dei Paesi rimasti nell’accordo (Iran, Francia, Germania, Regno Unito, UE, Russia e Cina) che poi trasmettono i messaggi alla delegazione statunitense alloggiata nelle vicinanze. Oggi si dovrebbe sapere se durante la settimana sono stati fatti progressi sufficienti per giustificare la prosecuzione dei negoziati. Il nodo principale è definire due distinte checklists: quella iraniana, relativamente semplice, prevede un passo indietro rispetto alle decisioni prese in violazione dell’accordo. Si tratta di attività facilmente reversibili, tranne una, la ricerca sulla produzione di uranio metallico, che non può essere “disimparata”. I problemi sussistono piuttosto con la lista americana, ben più complessa: come avevamo suggerito dopo l’uccisione dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, Donald Trump ha lavorato per rendere estremamente complessa la rimozione delle sanzioni e soprattutto, come scrivono Tyler Cullis e Trita Parsi, il «sanctions wall» voluto dall’ex presidente rende la loro rimozione una scelta «proibitiva in termini di costo politico». Il tempo è poco – a giugno si terranno le elezioni presidenziali iraniane – e inoltre il clima in cui si svolgono i negoziati, avverte il Washington Post, è molto diverso da quello del 2015: ora sia Stati Uniti che Iran si attestano su posizioni massimaliste.

 

In breve

 

Durante i negoziati in Turchia il presidente afghano Ashraf Ghani proporrà una roadmap in tre fasi per i colloqui di pace con i talebani (Reuters).

 

Gli scavi archeologici in Egitto hanno portato alla luce Aten, una città risalente a 3000 anni fa. Secondo quanto riporta la BBC si tratta del più importante ritrovamento dalla tomba di Tutankhamun (BBC).

 

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha annunciato che entro il 2030 l’Arabia Saudita raggiungerà una capacità energetica derivante da gas e fonti rinnovabili per un valore equivalente a 1milione di barili di petrolio al giorno (The National).

 

Il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi si è recato in visita ufficiale negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita per rafforzare la cooperazione con questi Paesi (al-Monitor).

 

Il capo del Consiglio sovrano sudanese e il leader del Movimento popolare di liberazione del Sudan – Nord hanno trovato un accordo che apre la strada alla pacificazione del Paese (al-Monitor).

 

Le locuste hanno invaso Kenya, Etiopia e Somalia. Ma come spiega il New York Times un nuovo approccio tecnologicamente innovativo ha risolto il problema e potrebbe offrire una soluzione per altri disastri legati ai cambiamenti climatici.

 

Approfondimento dalla stampa araba: Un evento faraonico

A cura di Chiara Pellegrino

 

Sabato scorso al Cairo i corpi mummificati di 18 re e 4 regine dell’Antico Egitto sono stati trasferiti con una pomposa parata dal Museo Egizio di piazza Tahrir, che le ospitava da un secolo, al nuovo Museo Nazionale della Civiltà Egizia a Fustat, la parte più antica del Cairo. Com’era prevedibile, la cerimonia, trasmessa sulla televisione di Stato, ha generato un dibattito in tutto il mondo arabo. In generale, i quotidiani egiziani hanno celebrato il «viaggio dorato», come ha definito la parata il giornale filo-governativo al-Yawm al-Sābi. Il giorno successivo all’evento, sempre al-Yawm al-Sābi‘ ha titolato «L’Egitto affascina il mondo», riprendendo l’hashtag twittato migliaia di volte dagli account degli egiziani fieri «dei loro antenati». Uno degli intenti dell’evento, si legge, era «aprire la strada alla riformulazione dell’appartenenza nazionale secondo il senso espresso dalla cerimonia di trasferimento delle mummie».

 

Effettivamente, nei giorni successivi all’evento la stampa e la tv araba sono state inondate da riflessioni sul nazionalismo e sulla formazione dell’identità araba, in risposta anche ai salafiti e agli islamisti egiziani, piuttosto infastiditi dalla rievocazione dei fasti dell’Egitto pre-islamico e dall’ostentazione di potere da parte del Presidente ‘Abdel Fattah al-Sisi.

 

Sul quotidiano londinese (ma di proprietà qatariota) al-‘Arabī al-Jadīd, il giornalista egiziano Mohammad Tolba Radwan risponde agli islamisti, secondo i quali la parata rappresenta un pericolo per l’identità islamica del Paese. L’autore ripercorre la storia moderna del dibattito sull’identità araba, iniziato due secoli fa, e individua quattro momenti peculiari: la fase in cui i critici dell’Impero ottomano si appellavano all’arabismo in funziona anti-turca; il momento in cui la discussione sull’identità si sposta dal piano politico a quello culturale con le riflessioni dei primi fautori del nazionalismo egiziano moderno, per arrivare agli anni ’80 del Novecento con una nuova generazione di nazionalisti e islamisti secondo i quali lo Stato-nazione è un prodotto della civiltà islamica. Un’identità, dunque, non esclude l’altra: si può essere nazionalisti, panarabisti e religiosi allo stesso tempo. Oggi, continua l’articolo, il mondo arabo è entrato in una nuova fase in cui la questione dell’identità islamica viene affrontata più sul web che sulla carta stampata, e in cui si tende a contrapporre l’Islam a tutto il resto. Secondo il giornalista, pensare che il nazionalismo, l’arabismo, le civiltà antiche e le idee moderne siano espressione della Jāhiliyya, l’epoca dell’ignoranza pre-islamica, al punto da voler «islamizzare la barbarie» è il segno del fallimento delle rivoluzioni arabe. E conclude dicendo che la civiltà islamica «non è altro che la capacità dell’Islam di insufflare il suo spirito nelle “mummie” delle civiltà che l’hanno preceduto per operare una creazione nuova».

 

Sull’identità egiziana, ma da una prospettiva diversa, riflette anche un altro editorialista di al-Arabī al-Jadīd, Wā’il Qandīl, secondo il quale l’evento faraonico ha favorito la diffusione di «uno spaventoso sciovinismo, che si nutre dell’invenzione secondo la quale esiste una contraddizione […] tra l’Egitto, l’arabismo e l’Islam» e che concretamente si declina nella tendenza a «nascondersi in un guscio faraonico sbarrando tutte le porte e rompendo i legami con qualsiasi appartenenza alla civiltà e alla cultura araba». Per il giornalista, innescare le battaglie d’identità alimentando le tendenze scioviniste è un segno della decadenza politica e culturale in cui versa oggi l’Egitto: per un tiranno che ha fallito sui fronti importanti è facile fuggire il presente e rifugiarsi nelle glorie passate.

 

Fiero nazionalista e tra i più popolari giornalisti egiziani, Ibrāhīm ‘Issā, conduttore del programma TV «Hadīth al-Qāhira», ha definito quello della parata un «giorno glorioso nella vita dell’Egitto, uno spartiacque nella vita di ogni egiziano», reso possibile dal «30 giugno», in riferimento al 2013 quando i manifestanti scesero in piazza per protestare contro il governo dei Fratelli Musulmani, rovesciato tre giorni dopo dall’esercito. ‘Issā ha affermato che «la religione non è un’identità e lo Stato non abbraccia una religione. La società egiziana oggi vive un pieno nazionalismo e ciò lo dobbiamo a Hosni Mubarak che durante il suo mandato ha gettato le basi di tutto questo».   

 

Il dibattito ha interessato anche le istituzioni religiose, tra cui la moschea-università dell’Azhar che ha preso ufficialmente posizione sulla vicenda del trasferimento delle mummie. Sul settimanale Sawt al-Azhar, il grande imam Ahmad al-Tayyib ha ribadito che «le antichità sono un’eredità culturale che fa conoscere la storia delle comunità e delle civiltà. Esse non sono né idoli né feticci […]. Sono proprietà di tutte le generazioni e sono amministrate dallo Stato».

 

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