Approfittando degli ultimi mesi della presidenza Trump, gli israeliani avrebbero agito per impedire a Biden di rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano. Ma per il presidente eletto la strada è comunque più complicata di quanto potrebbe apparire

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:33

Per l’Iran il 2020 si è aperto con l’uccisione di Qassem Soleimani in Iraq e rischia di chiudersi con una nuova escalation in seguito all’uccisione dello scienziato nucleare e membro dei Guardiani della Rivoluzione Mohsen Fakhrizadeh, avvenuta il 27 novembre a circa 60 chilometri a est di Teheran. Il regime iraniano non ha tardato a definire “martire” Fakhrizadeh, ma soprattutto ad accusare Israele dell’assassinio. Lo Stato ebraico, del resto, non è nuovo ad azioni di questo tipo contro gli scienziati che lavorano al programma nucleare iraniano e nel 2018 il premier israeliano aveva pubblicamente annunciato il suo “interesse” per Fakhrizadeh durante una conferenza stampa («ricordatevi il nome» – aveva affermato Netanyahu).

 

Se diamo per assodata la responsabilità israeliana per l’uccisione di Fakhrizadeh e se possiamo ragionevolmente presumere che Washington ne fosse a conoscenza e non vi si sia opposta, la domanda che è naturale porsi è perché Netanyahu e Trump abbiano scelto di alzare il livello della tensione proprio ora, a poco meno di due mesi all’insediamento di Joe Biden e Kamala Harris alla Casa Bianca. Considerata la contrarietà di Trump all’accordo sul nucleare del 2015, la risposta più spesso invocata è che il presidente uscente (e il suo alleato israeliano) vogliano impedire in tutti i modi che Biden torni al tavolo negoziale con Teheran. L’innalzamento della tensione sarebbe funzionale a questo obiettivo: gli assassinii, ha scritto Mark Fitzpatrick, non bloccano il progredire degli armamenti iraniani (come l’uccisione nel 2011 di Hassan Tehrani Moghaddam non bloccò il progredire del programma missilistico), ma possono compromettere gli sforzi diplomatici.

 

Biden stesso non ha fatto mistero di voler riportare Washington all’interno del JCPOA. Il problema, però, è che se la volontà politica del presidente eletto è certamente un elemento necessario alla riapertura dei negoziati, non è affatto detto che sia anche un elemento sufficiente.

 

In una sintesi piuttosto spiccia potremmo affermare che l’accordo del 2015 prevedeva la limitazione delle attività nucleari iraniane in cambio della rimozione delle sanzioni verso Teheran, estremamente bisognosa di attrarre capitali e investimenti dall’estero. Fu così che, dopo la firma, sui media internazionali era tutto un susseguirsi di entusiasmo e notizie di contratti firmati per cifre astronomiche. Ma poco o nulla di quei contratti si è concretizzato: in un primo momento le sanzioni sono state rimosse solo parzialmente, poi sono state reintrodotte, e l’Iran non ha ottenuto dall’accordo i benefici economici sperati. Ma, soprattutto, l’8 aprile del 2019 il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato l’inserimento del corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniana nella lista delle organizzazioni terroristiche (aprendo la strada all’uccisione di Soleimani).

 

Il fatto potrebbe non sembrare immediatamente collegato ai piani di Biden di rilanciare il JCPOA. Tuttavia, la struttura del corpo dei Guardiani della Rivoluzione in Iran è tentacolare e include sia le attività prettamente militari, in patria e all’estero, sia una ramificata e pervasiva presenza nel mondo economico e finanziario iraniano. Difficilmente Biden potrebbe rivitalizzare l’accordo sul nucleare senza offrire a Teheran un concreto beneficio economico, ma questo dovrebbe necessariamente passare attraverso una reale rimozione delle sanzioni. Vale a dire che una grande azienda occidentale dovrebbe poter effettuare e ricevere pagamenti da e verso l’Iran senza il timore di incappare nelle sanzioni del Tesoro americano. Senza questa certezza, difficilmente potrebbe esserci un vero beneficio per l’economia iraniana. Ma cosa accadrebbe se si scoprisse in seguito che la controparte locale ha qualche legame con i Guardiani della Rivoluzione, così ramificati nell’economia del Paese? Avremmo un’azienda occidentale che fa affari con un un’organizzazione terroristica. Va da sé che nessuna compagnia si assumerebbe questo rischio. Perciò, se davvero Biden volesse ripristinare il JCPOA, dovrebbe anche togliere i pasdaran dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Questa, tuttavia, sarebbe una mossa estremamente rischiosa e con un costo politico elevatissimo: come potrebbe gestire la situazione Biden se dopo una simile mossa Hezbollah o una delle milizie sciite irachene attaccasse le forze americane presenti in Siria o Iraq? Si potrebbe dire che la via verso l’inferno (geopolitico) è lastricata di buone intenzioni.

 

Certo è che l’uccisione di Fakhrizadeh, che segue quella del numero due di al-Qaeda Abu Muhammad al-Masri avvenuta a Teheran in agosto, mostra tutte le falle della sicurezza iraniana ed evidenzia la capacità israeliana di sfruttarle, arrivando a condurre impunemente operazioni nella capitale. Un dato, questo, che mette in difficoltà sia la componente moderata-pragmatica legata al presidente della Repubblica, che subirà le pressioni delle componenti radicali più inclini a una reazione violenta, sia i pasdaran stessi, che non sono riusciti a garantire la sicurezza di un’importante figura iraniana e a impedire la formazione nel Paese di una vasta rete di agenti stranieri.

 

Ora la palla è nel campo iraniano: Teheran si riserva la possibilità di rispondere secondo tempi e modi che preferisce, come avvenuto dopo l’uccisione del generale Soleimani. Se dovesse prevalere la “pazienza strategica” adottata finora, Biden potrebbe riattivare il canale diplomatico. Se invece avesse la meglio una linea più intransigente – o se dovessero esserci nuove provocazioni israeliane – tutto sarà più complicato.

 

Nell’attesa di scoprire, nel 2021, chi sarà il presidente che sostituirà il moderato Hassan Rouhani a Teheran.

 

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