Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:50:55

Non è servita a nulla la minaccia della magistratura che ha intimato alla popolazione iraniana di non utilizzare l’accaduto per indebolire il regime: la morte della ventiduenne Mahsa Amini, proveniente dal Kurdistan iraniano, ha scatenato un’ondata di indignazione e proteste. Manifestazioni che in breve tempo hanno visto comparire slogan come «morte a Khamenei» e «morte ai basij», nonostante la repressione violenta messa in atto dalle autorità e documentata da diversi video.

 

Amini, in visita a Teheran, era stata arrestata dalla polizia della moralità il 13 settembre scorso per non aver indossato correttamente il velo, obbligatorio sul territorio della Repubblica islamica. Dopo l’arresto, la ragazza è stata trasportata d’urgenza in ospedale, dove è poi deceduta. Secondo le autorità iraniane Mahsa Amini ha avuto un arresto cardiaco durante la detenzione, ma le immagini circolate che ritraggono Mahsa intubata in ospedale mostrano i segni delle percosse subite al capo.

 

Quelle di questi giorni sono tra le proteste più violente occorse nei 43 anni di vita della Repubblica Islamica, ha scritto Borzou Daragahi sull’Independent. Tuttavia, a caratterizzare queste manifestazioni non c’è solo la loro intensità. Vi è infatti una novità rispetto a quanto avvenuto in altre occasioni, per esempio con le proteste per la gestione delle risorse idriche nel Khuzestan: oggi a scendere in piazza non sono soltanto gli abitanti delle grandi città, ma anche quelli dei piccoli villaggi, provenienti da differenti strati sociali e di diverse appartenenze etniche, «dai curdi ai persiani fino agli azeri». Non solo: non manca chi, anche tra devoti musulmani e tra coloro che sono vicini al regime, inizia a mettere in dubbio tanto l’efficacia quanto l’idea stessa della legge che obbliga le donne a indossare il velo. Fatemeh, per esempio, è una donna religiosa di 53 anni che indossa il chador, è sposata con un membro dei Guardiani della Rivoluzione e il precedente marito è morto «da martire» durante la guerra Iran-Iraq. Credenziali, insomma, che non coincidono con l’idealtipo del manifestante. Eppure, come riporta il Financial Times, in seguito alla morte di Mahsa Amini, Fatemeh ha affermato che è necessaria «una modifica della legge sull’hijab. Le persone religiose come me dovrebbero soltanto avere fiducia in Dio e sperare che le donne scelgano da sole di indossare il velo». Altri, per esempio Ghazal, anche lei religiosa e praticante, vicina al regime, sottolineano come la morte di Amini porti le persone «a dire le peggiori cose riguardo alla nostra religione. La politica sta davvero danneggiando l’Islam».

 

Per di più Mahsa Amini non era un’attivista, non aveva precedentemente criticato il regime e non era impegnata politicamente. Era una cittadina ordinaria ed è proprio questo che potrebbe creare ulteriori problemi alla Repubblica Islamica, secondo Najmeh Bozorgmehr: le autorità islamiche hanno «spinto all’eccesso l’applicazione del dress code islamico nel tentativo di ostacolare la tendenza della modernità secolare». Il regime ha una tremenda paura delle giovani donne che esprimono in maniera potente il desiderio di cambiamento, ha affermato Hadi Ghaemi, direttore del Center for Human Rights in Iran, organizzazione basata a New York. In questi giorni le donne iraniane sono protagoniste delle manifestazioni in diverse città e nei campus universitari dove, in segno di protesta, si levano i copricapi e si tagliano i capelli.

In Kurdistan, zona a maggioranza sunnita da cui proveniva Mahsa Amini, molti negozi sono chiusi per sciopero. Sebbene le proteste si siano svolte in numerose città iraniane, gli scontri più duri sono avvenuti secondo al-Monitor proprio nella regione del Kurdistan da cui proveniva Mahsa.

 

Mentre le proteste e la repressione si intensificano (almeno undici persone hanno già perso la vita secondo Middle East Eye), e i Guardiani della Rivoluzione “invitano” la magistratura ad agire contro coloro che «diffondono notizie false», le autorità hanno temporaneamente bloccato l’accesso a internet. E anziché chiedersi il perché di tante manifestazioni, il governatore della provincia di Teheran ha preferito fare ricorso al solito registro: accusare le ambasciate straniere di fomentare le proteste.

 

I mezzi di comunicazione vicini al corpo dei Guardiani della Rivoluzione hanno incominciato a minacciare i manifestanti. Secondo Ali Alfoneh (The Arab Gulf State Institute), questo lascerebbe presagire un inasprimento della repressione da parte del regime in coincidenza con il ritorno in patria di Ebrahim Raisi, che si trovava a New York per la riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Mentre un po’ tutti – come sempre – si chiedono se queste manifestazioni potranno portare alla caduta del regime, diversi ricercatori hanno sottolineato come in precedenza la conseguenza di eventi simili sia stata piuttosto un incremento della repressione e la marginalizzazione degli elementi più moderati interni al sistema. Inoltre, come ha spiegato il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar in un’intervista ad Atlantico France, la capacità repressiva maturata dai regimi totalitari o quasi-totalitari soprattutto dopo le rivoluzioni del 2011 impone ai manifestanti, se vogliono avere qualche chance di successo, di trovare nuove forme di protesta che non possano essere «previste» dai regimi. In questo contesto, lo studioso non crede a possibili aperture da parte del regime, che sarebbero colte come un segnale di debolezza e dunque lo metterebbero in pericolo. Khosrokhavar sottolinea anche come le donne siano ormai l’unico «attore sociale dissidente degno di questo nome».

 

A porre però un interrogativo sul futuro della Repubblica Islamica sono le usuali considerazioni sullo stato di salute di Khamenei. Sono anni che circolano voci sulla sua malattia e sul suo “imminente” passaggio a miglior vita. Tuttavia, fondate o meno che siano queste voci, il momento in cui l’Iran dovrà scegliere una nuova guida si avvicina e i nomi che circolano per la successione ora comprendono perfino Mojtaba Khamenei, figlio dell’attuale leader.

 

Abbiamo detto che questa settimana il presidente iraniano era a New York per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA). Tuttavia, , come ha riportato Amwaj Media, nonostante gli Stati Uniti abbiano concesso il visto alla delegazione iraniana non si è tenuto alcun incontro con Joe Biden. Inoltre, durante il discorso all’UNGA Raisi non ha fatto menzione di quanto sta avvenendo all’interno del Paese. Non ha però esitato a evidenziare una volta di più quanto la questione del velo sia un baluardo dei conservatori iraniani. L’occasione si è presentata con un’intervista che Raisi avrebbe dovuto concedere alla famosa giornalista della CNN Christiane Amanpour a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU. Immediatamente prima del colloquio, un assistente del presidente iraniano ha comunicato alla giornalista che Raisi avrebbe svolto l’intervista solo se Amanpour avesse indossato il velo. Cosa che naturalmente non è avvenuta.

 

Resta sempre in sospeso, poi, il negoziato sul nucleare. Prima dell’Assemblea Generale Raisi ha affermato di non avere alcuna fiducia nei confronti dell’amministrazione Biden. Gli ha fatto eco un funzionario del Dipartimento di Stato americano, citato da Reuters, secondo il quale i negoziati «sono a un punto morto» a causa della richiesta iraniana che l’AIEA cessi le investigazioni su alcuni siti nucleari non dichiarati da Teheran. Economicamente, l’Iran si trova poi a dover far fronte a una nuova sfida: le sanzioni alla Russia – alleata proprio di Teheran – hanno spinto Mosca a vendere il petrolio a prezzi scontati alla Cina, togliendo di fatto quote di mercato alla Repubblica Islamica, costretta anch’essa a considerare forti sconti pur di non perdere uno dei pochi clienti di cui dispone.

 

Russia-Ucraina: mediazione turco-saudita

 

Il giorno dopo l’annuncio della mobilitazione parziale dei riservisti russi per la guerra in Ucraina è emersa la notizia di uno scambio di prigionieri tra i due Paesi belligeranti che ha coinvolto quasi 300 persone. Tra le figure rilasciate da parte russa vi sono anche foreign fighters britannici e americani, e i leader del battaglione Azov. Tra quelle liberate da Kiev figura invece l’oligarca pro-Putin Viktor Medvedchuk. Ancora una volta, un ruolo chiave l’ha svolto la Turchia: Ankara ha mediato tra Kiev e Mosca (tanto che l’accordo prevede che i comandanti del battaglione Azov rimangano in Turchia), ma questa volta non ha agito da sola. È stato infatti importante anche il ruolo svolto in prima persona da Muhammad bin Salman: l’Arabia Saudita ha partecipato alla mediazione, in particolare per la liberazione dei combattenti stranieri. Un ulteriore segnale della ricomposizione della frattura tra Paesi del Golfo e Turchia giunge dalla notizia secondo cui Ankara avrebbe venduto agli Emirati Arabi Uniti i suoi preziosi droni Bayraktar, mentre l’Arabia Saudita vorrebbe addirittura ospitare sul proprio territorio una fabbrica per produrli. 

In settimana Erdoğan ha anche rilasciato un’intervista alla PBS, durante la quale ha riferito di aver maturato la convinzione che Putin voglia terminare il prima possibile la guerra in Ucraina. Intanto, nonostante l’inflazione record, la Banca Centrale turca ha nuovamente tagliato i tassi d’interesse di 100 punti base.

 

Lapid vuole garanzie dai palestinesi

 

Durante il suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo ministro israeliano Yair Lapid ha attaccato duramente – come previsto – l’Iran. D’altro canto Lapid ha rilanciato il concetto secondo cui i palestinesi dovrebbero avere un loro Stato: è «la cosa giusta», ha affermato, ma per Israele è necessaria la garanzia che «Hamas e la Jihad Islamica non prendano il sopravvento sullo Stato palestinese». Dal canto suo Hamas ha appena riallacciato le relazioni con la Siria, interrotte oltre dieci anni fa in seguito allo scoppio delle Primavere arabe. L’accordo tra Hamas e Damasco è giunto grazie alla mediazione iraniana.

 

Erdoğan e Assad: la riconciliazione improbabile, ma non impossibile

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

Da mesi agenzie di stampa e media riportano notizie sulla ripresa di un dialogo tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo omologo siriano Bashar al-Assad. Dopo la politica di buon vicinato dei primi anni Duemila, Ankara ha sfruttato il conflitto scoppiato in Siria a seguito delle Primavere Arabe per creare una sfera di influenza nel Paese a scapito del regime di Damasco, finanziando l’opposizione e autorizzando l’esercito turco a occupare territori nelle province di Idlib, Aleppo e Hasakah. Negli ultimi giorni lo stesso Erdoğan ha ammesso che avrebbe parlato con Assad, se questi si fosse presentato al vertice di Samarcanda del 15-16 settembre. Il mancato incontro non ha però posto fine al negoziato informale e segreto fra le due parti, che fa preoccupare soprattutto i gruppi dell’opposizione in esilio, i quali hanno fissato la loro sede proprio a Istanbul, e naturalmente le sigle curde, minacciate dalle aggressioni turche e dai tentativi di riannessione del Rojava da parte del governo centrale. Per al-Quds al-‘Arabi «gli assi del negoziato» tra i due Paesi prevedono, da un lato, il ritiro dell’esercito di Ankara dalle province di Idlib e Aleppo, e la fine del sostegno turco alle opposizioni antiregime; in cambio, Damasco si impegnerebbe ad abrogare la legge n. 49 del 1980 che mise al bando la Fratellanza Musulmana. Una volta definiti i termini dell’accordo, l’intesa verrebbe sugellata da un incontro ufficiale, da tenersi con ogni probabilità in Turchia, che avrebbe di certo un grande impatto mediatico e diplomatico. «Ad ogni modo – conclude l’articolo – la questione siriana deve necessariamente essere affrontata in ambienti internazionali, ossia al di fuori dei “Paesi amici”; la coalizione di opposizione siriana è da anni lontana nel raggiungere queste condizioni».

 

Per al-‘Arabi al-Jadid il tema della normalizzazione siro-turca si lega inevitabilmente all’invasione russa dell’Ucraina, crisi geopolitica di proporzioni globali di cui Erdoğan vuole proporsi mediatore. Se, come sembra, Mosca non vincerà rapidamente il conflitto, sarebbe obbligata a ridefinire la sua alleanza con Damasco, magari riducendo il suo impegno nel teatro mediorientale e, di conseguenza, lasciando ampi margini di manovra ad altri attori regionali, come Iran, Israele e la stessa Hamas che il 15 settembre ha annunciato il ripristino delle relazioni con al-Assad. «La sconfitta di Mosca sarà ancora più pesante nel caso in cui la Siria si rifiuti di avviare un dialogo con la Turchia» ipotesi che, però, non sembra così remota, data la storica ritrosia di al-Assad a promuovere riforme in politica interna. Le conclusioni dell’articolo sono alquanto pessimiste: «il regime non accetterà normalizzazioni o intese; di conseguenza, la Siria si avvia verso crisi maggiori, forse verso la spartizione [definitiva], come affermato dallo stesso presidente turco». In un altro articolo della testata, si fa notare come l’attivismo di Erdoğan nello scenario regionale e internazionale agisca in funzione della campagna elettorale del prossimo anno e della gestione dei migranti siriani nel Paese; significativa, a tal proposito, la vignetta di apertura che raffigura la mezzaluna della bandiera turca da cui spuntano diverse “manine” che stringono intese con una moltitudine di stelle – quella a sei punte di David (Israele), le dodici che simboleggiano l’Unione Europea, la stella “rossa” di Mosca – e con dei punti interrogativi ed esclamativi, a indicare l’imprevedibilità delle future mosse del reis.   

 

Samarcanda: una via d’oro che non porta da nessuna parte

 

Il vertice di Samarcanda e i recenti avvicinamenti e mediazioni tra Russia, Siria e Turchia costituiscono il punto di partenza per analisi più ampie sull’ordine mondiale. Interessante, per esempio, l’editoriale di al-Sharq al-Awsat a firma dell’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, direttore del dipartimento di scienze umane dell’“Università Muhammad bin Zayed” di Abu Dhabi, e intitolato “Dove va il sistema internazionale?”. Per l’autore, i protagonisti del nascente sistema multipolare, Cina e Russia, pur sottolineando la necessità di «creare un mondo più giusto ed equilibrato», hanno in realtà reso più complicata la risoluzione di crisi e conflitti regionali, anteponendo la ragione di stato e le ambizioni geopolitiche al diritto internazionale e al rispetto dei diritti umani. E quindi la risposta di al-Sayyid alla domanda iniziale è: «né cinesi né russi sono pronti allo sviluppo e a far uscire il mondo dal dominio imperialista! Quindi il sistema internazionale non va da nessuna parte; le grandi potenze sono dirette verso lo scontro violento». Anche Amir Tahiri, giornalista e autore iraniano, scrive per la stessa testata come i partecipanti del summit avessero più a cuore i loro interessi che i grandi piani di pace e cooperazione e cita un passo dell’opera teatrale “La via d’oro per Samarcanda” di James Elroy Flecker: «noi non viaggiamo solo per commerci, ma percorriamo la dorata via per Samarcanda con i cuori sospinti dai più caldi venti, per soddisfare il nostro desiderio di conoscere ciò che non dovremmo conoscere».

 

Su un altro tema, è interessante la riflessione di Al-Quds al-‘Arabi, che si chiede se il mondo arabo si trovi di fronte a una “nuova Nahda”, il vasto movimento intellettuale riformista prodottosi tra la metà del XIX e gli inizi del XX secolo. Secondo l’articolo, le premesse ideologiche e culturali per rifondare il pensiero arabo devono prescindere dalla dicotomia novecentesca “laicismo contro islamismo”, per concentrarsi, invece, sulla definizione di una metodologia idonea alla comprensione delle sfaccettature del mondo contemporaneo: «il problema non è che i riformisti siano privi di una visione intellettuale, il vero problema è che le stesse idee e pensatori sono diventati merce rara [letteralmente “moneta rara”] nel mondo arabo-islamico, e quei pochi che ci sono si trovano in fondo alla piramide sociale».    

 

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