Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:09

Dopo essere stato arrestato da alcuni militari dell’esercito e aver presentato le proprie dimissioni, martedì sera l’ormai ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita (IBK), ha lasciato il posto a una giunta militare che ha assunto il controllo del Paese con il nome di Comité National pour le Salut du Peuple (Comitato nazionale per la salvezza del popolo, CNSP).

 

L’esperto di questioni saheliane Alexander Thurston spiega che non sono stati tanto i più alti ufficiali dell’esercito ad aver preso il potere, quanto delle figure intermedie nella gerarchia militare. Non è chiaro se il colpo di stato sia stato programmato con largo anticipo, così come non si può ancora sapere se il CNPS rappresenti tutte le forze dell’ordine del Mali o solo una parte. Finora non ci sono state ulteriori reazioni militari al colpo di Stato, ma sono ancora molti gli interrogativi sul futuro del Paese.

 

A essere certo è che da tempo la situazione era instabile in Mali. L’opposizione, una coalizione eterogenea che ha preso il nome di M5-RFP (a volte solo M5, che sta per Movimento del 5 giugno, data in cui sono cominciate le proteste contro il governo, e RFP, raduno delle forze patriottiche), ha accolto positivamente il colpo di Stato e si è dichiarata a favore di una «transizione politica civile», scrive RFI. L’imam Mahmoud Dicko, invece, ex alleato del presidente che era riuscito a compattare l’opposizione e a guidare il movimento di protesta è finora rimasto in disparte, mentre anche le Nazioni Unite giovedì hanno fatto eco ad analoghi appelli internazionali condannando la presa di potere da parte dei militari e chiedendo il ritorno all’ordine costituzionale.

 

Le proteste degli ultimi mesi lamentavano l’inefficace risposta alla pandemia da parte del governo, ma alla base ci sono l’elevato tasso di disoccupazione (che a livello giovanile è intorno al 15%, con un aumento del 7% rispetto a quando nel 2013 Keita salì al potere), la povertà in crescita che oggi affligge quasi metà della popolazione, la violenza da parte di gruppi estremisti affiliati ad al-Qaeda o allo Stato islamico, scrive Foreign Policy. Paese chiave nel Sahel centrale che collega il Nord Africa all’Africa occidentale, nel 2012 un altro colpo di Stato militare aveva deposto l’allora presidente Amadou Toumani Touré, colpevole di non essere  riuscito a gestire la ribellione tuareg scoppiata nel nord del Mali e nella quale si erano inseriti diversi gruppi jihadisti che ancora oggi continuano a perturbare la sicurezza del Sahel. Per questa ragione dal 2013 sono presenti nella regione missioni internazionali.

 

Il CNSP ha promesso future elezioni in un arco di tempo ragionevole e ha garantito che continuerà la cooperazione con le forze straniere (africane e occidentali) presenti nel Paese. Si tratta della missione MINUSMA delle Nazioni Unite, l’operazione francese Barkhane, il G5 Sahel e la Task Force Takuba. Nell’ambito di quest’ultima saranno dispiegati 200 soldati italiani delle forze speciali, ricorda Andrea de Georgio su Internazionale, dopo l’approvazione del decreto missioni da parte del Parlamento il 16 luglio scorso. Le tempistiche del dislocamento e altre questioni fondamentali non sono ancora state rese note.

 

La vicenda è stata letta alternativamente come una sconfitta e una lezione per Parigi. Scrive Le Monde che da parte francese ci sarà sicuramente un tentativo di promuovere il dialogo politico tra gli attori di Bamako, ma è delicatissimo il ruolo della Francia, «che deve evitare di apparire come l'ex potenza coloniale che cerca ancora di tirare le fila, ma che soprattutto non vuole rischiare di mettere a repentaglio, in questa sequenza volatile, i risultati di sette anni di lotta al terrorismo».

 

L’implosione del Mali, che secondo Foreign Policy è all’orizzonte, rischia di essere un regalo ai gruppi terroristici della regione. Secondo la rivista americana i militari devono ritirarsi per lasciare spazio a negoziazioni politiche che identifichino un presidente e un primo ministro ad interim. Non dovrebbe esserci una corsa alle elezioni, al contrario il Paese e la regione dovrebbero prima essere stabilizzati e resi liberi dalla minaccia jihadista.

 

Al momento queste soluzioni però appaiono utopistiche: infatti, come ricorda ISPI, nonostante l’aumento della presenza militare negli anni, il contesto securitario è andato deteriorandosi: «Per citare solo un dato, negli ultimi dodici mesi i conflitti nella regione (in gran parte legati all’insurrezione jihadista) hanno causato quasi 6.600 vittime, di cui il 40% nel solo Mali e i restanti in Burkina Faso e Niger. Si tratta di un aumento del 60% rispetto al numero di vittime registrato nei dodici mesi precedenti».

 

Lo Stato islamico in Mozambico

 

Il 12 agosto dei combattenti dello Stato islamico hanno preso il controllo del porto di Mocimboa da Praia, una città nel nord del Mozambico di importanza strategica. Nell’area sono presenti la compagnia francese Total, che sta costruendo degli impianti di estrazione del gas a 60 km a nord dalla città, e l’americana ExxoMobil, ma anche ENI ha degli interessi nella regione, che grazie allo sviluppo di progetti di sfruttamento del gas naturale potrebbe trasformarsi, secondo alcuni, in un «Qatar africano». Ma è la crisi umanitaria a preoccupare il vescovo di Pemba, mons. Luiz Fernando Lisboa. 250.000 sono gli sfollati nella regione di Cabo Delgado e il vescovo ha lanciato un appello alla comunità internazionale: «Il nostro popolo ha urgente bisogno di pace perché questa crisi ha completamente destabilizzato la nostra provincia».

 

Secondo i dati dell’organizzazione non governativa ACLED, dal 2017 sono morte quasi 1.500 persone a causa dell’insorgenza jihadista, mentre quello della settimana scorsa è stato l’ennesimo attacco quest’anno contro la città di Mocimboa da Praia da parte del gruppo che si fa chiamare Ahlu Sunna wa-l-Jama’a, che in Mozambico esiste dal 2015 ed è affiliato al sedicente Stato islamico.

 

Ci sono voluti diversi giorni affinché prendessero il controllo del porto, racconta il Guardian, ma anche in questo caso le origini del conflitto, che risalgono a tre anni fa, hanno radici lontane: «Il governo centrale non è riuscito a distribuire equamente i guadagni derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali della regione, oltre a una serie di storici rancori. Il malcontento è stato acuito dalla corruzione endemica, dalle espulsioni per consentire alle imprese straniere di investire nel progetto del gas e da una incontrollata risposta militare alla violenza». Il Post spiega più nel dettaglio le origini del gruppo, mentre sul Foglio leggiamo che «la presa di Mocimboa da Praia è un pessimo segnale, come nel 2014 lo fu la conquista di Mosul nel nord dell’Iraq».

 

La situazione rischia quindi di complicarsi, come spiega bene Jeune Afrique: finora il governo ha fatto affidamento su società di sicurezza private che non sono riuscite a porre fine agli attacchi, e non è difficile immaginare come l’estremismo possa propagarsi nel resto dell’Africa australe. Una potenza regionale come il Sudafrica potrebbe intervenire, ma questo servirebbe a poco se in parallelo non venissero affrontati anche «il sottosviluppo e le frustrazioni delle popolazioni che alimentano i gruppi jihadisti».

 

Una sentenza che non soddisfa

 

Per il Tribunale speciale per il Libano non ci sono prove che Hezbollah fosse coinvolto nell’assassinio dell’ex primo ministro Rafik al-Hariri avvenuto nel 2005. «La Corte ritiene che la Siria ed Hezbollah possano aver avuto ragioni per eliminare Hariri ed i suoi alleati politici, tuttavia non ci sono prove che la leadership di Hezbollah sia coinvolta nell'omicidio di Hariri e non ci sono prove dirette di un coinvolgimento siriano», ha detto il giudice David Re. Dei quattro militanti di Hezbollah processati in contumacia, tre sono stati assolti e solo Salim Ayyash è stato ritenuto colpevole poiché coinvolto nell’assassinio. Il processo ha fatto emergere che Ayyash ha organizzato l’attentato per conto di altri, ma è su questi ultimi, sui gradi più alti di Hezbollah, che non ci sono prove.

 

Una sentenza che non convince l’opinione pubblica libanese, scrive Al Jazeera, e che non farà altro che generare pressioni sul partito di Dio e tensioni nel resto del Paese, che continua a vivere una situazione drammatica. D’altronde l’indagine era destinata a fallire, perché il Tribunale fin dall’inizio si è mosso con cautela per cercare di non esacerbare il conflitto confessionale, spiega il Carnegie Endowment for International Peace. Nel 2007 Assad, incontrando l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, aveva espresso le proprie rimostranze riguardo all’istituzione di un tribunale che avrebbe potuto causare «una guerra civile», ammettendo implicitamente il coinvolgimento di Hezbollah nell’assassinio.

 

Ora in Libano «c’è anche un senso di sconfitta», scrive Foreign Policy. «Non possiamo fare niente, Hezbollah ha il Paese e ha le armi». L’organizzazione sciita ha bollato il verdetto come una cospirazione internazionale per indebolire “la resistenza”, mentre molti libanesi continuano a essere convinti che anche dietro all’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto ci fosse Hezbollah.

 

Il quotidiano tedesco Welt invece scrive che nel periodo tra il 2013 e il 2014, quando cioè dovrebbe essere arrivato il nitrato di ammonio al porto di Beirut, le Guardie della rivoluzione islamica iraniane stavano consegnando centinaia di tonnellate di nitrato di ammonio a Hezbollah via mare, terra e aria. Tuttavia non ci sono prove che colleghino il nitrato di ammonio presente al porto di Beirut con Hezbollah.

 

In una frase

 

Dopo l’accordo tra Israele ed EAU, l’Arabia Saudita non ha rilasciato dichiarazioni; secondo Madawi Al-Rasheed difficilmente MbS seguirà la strada del suo omonimo emiratino Muhammad bin Zayed (Middle East Eye).

 

Riham Yaqub, medico e attivista, è stata uccisa mercoledì a Basra, in Iraq, durante le proteste anti-governative, ricominciate dopo uno stop a causa del coronavirus (BBC).

 

Lunedì la Turchia, il Qatar e il GNA hanno siglato un accordo che concede ad Ankara il porto di Misurata, in Libia, come base navale per le operazioni militari nel Mediterraneo orientale (Agenzia Nova).

 

Perché Emirati e Israele litigano sugli F-35? (Formiche.net).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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