Nell’Africa saheliana, le giunte arrivate al potere con la promessa di contrastare l’estremismo religioso non solo non sono riuscite a contenerlo, ma hanno favorito i conflitti interetnici e la radicalizzazione. Le autorità religiose e tradizionali locali possono però svolgere un importante ruolo di mediazione

Ultimo aggiornamento: 22/12/2025 16:34:42

Intervista a Bakary Sambe, Direttore regionale del Timbuktu Institute di Dakar, Senegal. Realizzata da Chiara Pellegrino

 

In dieci anni il Sahel è cambiato radicalmente. I colpi di Stato in Mali, Burkina Faso, Niger e altrove, inizialmente presentati come risposte temporanee alla crisi di sicurezza, sembrano instaurare regimi autoritari permanenti. Al di là del rifiuto comune della presenza francese, queste nuove potenze militari faticano a formulare un progetto.

Credo che uno dei primi errori strategici commessi dai Paesi del Sahel sia stato esternalizzare la sicurezza. È vero che inizialmente il Mali non aveva scelta. L’intervento francese, con l’Operazione Serval e poi l’Operazione Barkhane, si è esteso al Mali, al Niger e al Burkina Faso. La presenza prolungata delle forze francesi nel Sahel però ha finito per creare attriti. Questo si è visto chiaramente durante i colpi di Stato, quando le nuove generazioni si sono rese conto che le politiche non riuscivano a risolvere i problemi della sicurezza e hanno ritenuto necessario prendere il potere, a volte con le armi. Questi colpi di Stato hanno acceso una grande speranza. Abbiamo persino visto dei giovani, che dieci anni prima avevano lottato a costo della vita per la democrazia, applaudire le giunte militari salite al potere. Questi regimi militari però hanno ripetuto gli stessi errori. Anche loro hanno esternalizzato la sicurezza rivolgendosi a Wagner e alla Russia. Poi ci siamo resi conto che i risultati non arrivavano. Oggi ci troviamo in una situazione paragonabile a quella del 2012 per il Mali, o del 2015-2016 per il Burkina Faso e il Niger. La cooperazione con la Russia non ha prodotto i risultati attesi. Anzi, ha creato molti più conflitti, in particolare con gli attacchi contro alcuni gruppi etnici, come i Peul. Siamo partiti con l’obiettivo di combattere il terrorismo e siamo finiti in una situazione in cui a questa minaccia si sono aggiunti i conflitti intercomunitari. I gruppi terroristi sfruttano questi conflitti per reclutare giovani emarginati che si uniscono al JNIM, il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, particolarmente attivo in Mali in questi ultimi tempi.

 

Nel corso degli anni, i gruppi jihadisti hanno raddoppiato le loro aree di influenza nel Sahel, colpendo il Mali, il Burkina Faso, il Niger e la Nigeria, e arrivano a minacciare i confini del Senegal. Quali sono le ragioni di questa recrudescenza del jihadismo nella regione?

Il JNIM ha moltiplicato per sette il numero dei suoi attacchi. Tra il 2020 e il 2024, solo nella regione di Kayes, nel Mali occidentale, abbiamo assistito a un’avanzata del gruppo che ormai estende il suo raggio d’azione verso ovest, fino ai confini del Senegal e della Mauritania. Credo che la ragione principale dell’espansione dell’area operativa dei gruppi terroristi sia il fatto di non aver affrontato il problema alla radice. Finora abbiamo dato priorità alle soluzioni militari, e non abbiamo imparato dalle esperienze passate. Gli americani sono rimasti più di vent’anni in Afghanistan con le armi più sofisticate e i talebani sono ancora là. La Francia è rimasta nel nord del Mali per molto tempo, e i gruppi che il suo esercito ha cercato di sradicare non sono scomparsi: si sono moltiplicati. È mancato un approccio olistico. L’azione militare è stata sicuramente necessaria per gestire le emergenze sicuritarie, ma non ha affrontato le cause strutturali. Gli studi che abbiamo condotto al Timbuktu Institute mostrano che le sacche di radicalizzazione violenta, che fungono da terreno di reclutamento, si trovano all’intersezione di tre fattori. In primo luogo, una scarsa capacità di inclusione socio-economica, legata a problemi di governance; in secondo luogo, lo stigma, le frustrazioni e il loro sfruttamento da parte dei gruppi armati; e infine, il potere della narrazione dei gruppi terroristi che reclutano un numero sempre maggiore di giovani. Questo è esattamente ciò che è accaduto quando il terrorismo si è spostato dal Mali settentrionale al centro del Paese. I Peul della Katiba Macina sono stati ostracizzati e la creazione di milizie di autodifesa su base etnica, come i Dogon del gruppo Dan Na Ambassagou, non solo non è riuscita a frenare il terrorismo, ma ha innescato conflitti intercomunitari tra i Peul e i Dogon, due popolazioni che avevano vissuto in armonia per generazioni. Le stesse dinamiche sono in atto con l’espansione delle attività della Katiba Macina nella regione di Kayes, che fino a ora aveva dimostrato una notevole resilienza economica, in gran parte dovuta alle rimesse dei migranti, facendo di essa una delle aree meno povere del Paese. In questa regione, la Katiba Macina sta avanzando all’interno del JNIM e costituisce una minaccia per Paesi come il Senegal, in particolare dopo i sette attacchi perpetrati in Mali nel luglio 2025, tra cui uno a Diboli, a soli 1,3 km dal confine senegalese. Il Senegal, a lungo considerato un’isola di stabilità in questo oceano di instabilità, si trova ad affrontare questa minaccia lungo il suo confine orientale. In Mauritania stanno iniziando ad affluire molti rifugiati dal Mali, ciò che crea delle zone di instabilità, in particolare nella regione di Mberra e nelle regioni di Hodd al-Chargui e Assaba, nel sud del Paese.

 

Il JNIM controlla una parte del Mali e ha imposto un blocco attorno a Bamako, interrompendo le forniture di carburante alla capitale. Questo movimento jihadista cerca di affermarsi come alternativa alle autorità militari. Qual è lo stato di salute della giunta guidata da Goïta?

Io penso che il problema principale che il JNIM pone alle autorità militari di Bamako sia che queste ultime sono arrivate al potere con la promessa di garantire la sicurezza. Il fatto che il JNIM, con i suoi 8.000 uomini all’incirca, sia riuscito a imporre un blocco a Bamako per oltre due settimane, privando la capitale dell’approvvigionamento di carburante, dimostra che questa promessa non è stata mantenuta. Nonostante l’intervento dei russi, prima con la Wagner, ora sostituita dall’Afrika Korps, il Mali non riesce a garantire la propria sicurezza. La cooperazione con la Russia si è rivelata un fallimento, soprattutto perché le forze russe hanno aggravato la situazione commettendo massacri, atrocità e flagranti violazioni dei diritti umani sia nel nord che nel centro del Paese. Le giunte militari si trovano quindi di fronte a un dilemma: come proseguire la cooperazione con la Russia, considerata un’alternativa alla Francia e all’Occidente, e allo stesso tempo cercare di convincere la popolazione della sua efficacia, se le milizie russe sono pagate con lo sfruttamento dell’oro e dei minerali? La situazione è molto delicata perché l’insicurezza, prima limitata alla periferia di Bamako e ad altre regioni, ora viene percepita anche nella capitale a causa del blocco. Resta la domanda emersa nelle ultime settimane: il JNIM è in grado di prendere Bamako? Ho sempre risposto di no. Il JNIM non ha mai avuto intenzione di lanciare un assalto finale a Bamako, come hanno fatto i talebani a Kabul. Il suo obiettivo non è conquistare la capitale, ma provocarne il collasso dall’interno attraverso un blocco economico, un jihad economico, che alimenterà la frustrazione e il malcontento tra la popolazione. Il JNIM è entrato in una fase di politicizzazione: vuole diventare un movimento politico alternativo. Il suo obiettivo non è governare il Mali da solo, ma svolgere un ruolo importante nel governo del Paese. Oggi siamo in una situazione caratterizzata dall’impossibilità di una neutralizzazione reciproca: l’esercito maliano non vuole più neutralizzare il JNIM, e il JNIM non cerca di sconfiggere l’esercito maliano. Il JNIM spera di aprire la strada ai negoziati per suonare il suo spartito e affermarsi come attore politico a pieno titolo. È in questo contesto che vediamo emergere nuove figure all’interno della sua struttura, come Bina Diarra, tra gli altri. L’obiettivo è dimostrare che il JNIM, e in particolare la Katiba Macina, non è solo un movimento insurrezionale peul, ma rivendica una rappresentanza più ampia, che comprende diverse componenti della società maliana. Il JNIM aspira a diventare un movimento politico, capace di proporsi come un’alternativa.

 

Si direbbe che stiano cercando di seguire l’esempio di Ahmed al-Sharaa in Siria, con il tentativo di trasformare il movimento jihadista in attore politico…

Molti pensano effettivamente a un modello siriano, anche perché alcune fonti riferiscono di contatti tra elementi del JNIM e membri di HTS in Siria. Ma il contesto è molto diverso. La Siria è nel mondo arabo, che è caratterizzato da una presenza di lunga data dell’ISIS e da dinamiche specifiche del Levante. Nel Sahel la situazione è diversa. Io non penso che il JNIM correrà il rischio d’imporre un governo islamico rigido, come hanno fatto i Talebani. Punterà piuttosto a ottenere una forma di non aggressione, quote di potere locale all’interno del governo e negoziare con gli islamisti moderati e persino con alcuni segmenti della società civile. L’obiettivo sarà stabilire un governo misto, che consenta loro di affermarsi come attore politico legittimo, e non più esclusivamente attraverso la violenza.

 

Quali ripercussioni potrebbe avere questa situazione sui Paesi vicini come il Senegal, la Costa d’Avorio, il Benin, il Togo o il Ghana?

Credo che uno degli errori strategici degli ultimi anni, anche con i nostri partner europei, sia stato quello di cercare di isolare il Sahel centrale dal resto dell’Africa occidentale. Pensavamo di poter sconfiggere il terrorismo concentrandoci esclusivamente sul G5 Sahel – Mauritania, Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger. Abbiamo dimenticato che tra questi Paesi e il resto dell’Africa occidentale esistono scambi e continuum socio-culturali. Non abbiamo capito fino in fondo quanto queste aree siano interconnesse tra loro. Oggi ci rendiamo conto che la minaccia si sta estendendo nel Benin settentrionale con la Katiba Hanifa del JNIM, ma anche nel nord del Togo, nella regione delle Savane, in Ghana, nel Mali occidentale e verso il Senegal. La Costa d’Avorio, finora lontana dall’epicentro del jihadismo, è già stata colpita in zone come Kafolo. Ciò dimostra che nessuno Stato dell’Africa occidentale è al sicuro senza l’attuazione di misure di cooperazione transnazionale e transfrontaliera. Il problema è che questa cooperazione sta diventando sempre più difficile in un contesto di divergenze tra la CEDEAO e l’ESA [Alleanza degli Stati del Sahel], mentre i jihadisti hanno compreso l’importanza di coordinare i propri sforzi oltre i confini nazionali. Oggi, il Benin non può sconfiggere il terrorismo senza collaborare con il Niger e viceversa. Questo dimostra che è urgente ripensare l’architettura della sicurezza regionale: aprire canali di dialogo; e, sebbene nell’immediato un ritorno dei tre Paesi dell’ESA nella CEDEAO appaia improbabile, avviare una cooperazione bilaterale e gestire la sicurezza come una questione regionale, sfruttando potenziali sinergie nonostante le tensioni diplomatiche esistenti.

 

Poi c’è la Nigeria, che lo scorso novembre è stata teatro di tre rapimenti di massa nell’ovest e nel nord-ovest del Paese, tra cui quello di oltre 300 studenti di una scuola cristiana. Questi attacchi minano ulteriormente l’autorità del presidente.

Sì, assolutamente. Sebbene il fenomeno Boko Haram si sia un po’ attenuato di recente, la recrudescenza degli attacchi mette in luce le carenze nella gestione della sicurezza. Fino a poco tempo fa, il terrorismo era concentrato principalmente nel nord-est del Paese, ma ora la minaccia si sta diffondendo anche nel nord-ovest, con lo sviluppo di collegamenti tra Borgou, in Benin, e questa regione della Nigeria. Sono segnali che non vanno sottovalutati. Sebbene negli ultimi anni la Nigeria sia riuscita, con il supporto della forza multinazionale, a contenere la minaccia di Boko Haram, si profila ora una nuova sfida sicuritaria, in particolare per il nuovo presidente che ha promesso di garantire la sicurezza.

 

Questa recrudescenza degli attacchi jihadisti e la crescente instabilità rischiano di provocare delle crisi umanitarie senza precedenti.

Sì, la situazione umanitaria è drammatica. Dopo anni di conflitto, molte persone sono state costrette a fuggire dalle loro terre. A ciò si aggiungono le persistenti tensioni tra pastori e agricoltori, che hanno innescato altri conflitti. Tutti gli sforzi intrapresi sotto la presidenza di Muhammadu Buhari per rilanciare l’agricoltura sono stati in parte vanificati dai conflitti legati alla gestione delle terre. È quindi fondamentale mobilitarsi per evitare che la Nigeria sprofondi in una grave crisi alimentare, soprattutto perché la situazione rimane fragile, soprattutto per quanto riguarda la convivenza interreligiosa in zone come Jos, dove continuano i massacri tra comunità cristiane e musulmane.

 

Prima di iniziare questa intervista, mi hai parlato del lavoro di dialogo interreligioso che il Timbuktu Institute conduce con i capi religiosi degli altri Paesi. Quale ruolo svolge questo dialogo nel contesto regionale attuale?

Di fronte al collasso dei governi e alla delegittimazione degli attori politici, ho sempre sostenuto che sia importante riconoscere e valorizzare le figure religiose tradizionali. Queste svolgono un ruolo cruciale per la stabilità sociale. Penso, ad esempio, alle confraternite sufi in Senegal, agli imam, al sultano di Zinder in Niger o al Mogho Naba in Burkina Faso, che gode di grande rispetto. Anche durante le crisi più acute, come alcuni colpi di Stato, il loro intervento contribuisce ad allentare le tensioni. L’Istituto Timbuktu, in collaborazione con l’Ufficio delle Nazioni Unite per l’Africa Occidentale e il Sahel (UNOWAS), ha proposto un incontro a Dakar in cui si sono riunite tutte queste autorità religiose e tradizionali, tra cui l’imam Dicko e altre figure. Durante l’incontro, durato alcuni giorni, questi attori hanno offerto spunti di riflessione sul ruolo di mediazione che avrebbero potuto svolgere. Non si può risolvere la crisi maliana senza l’intervento di figure religiose come l’imam Diko, il capo di Nioro, sheikh Ousmane Madani Haïdara – attuale presidente dell’Alto Consiglio Islamico, l’imam di Timbuktu e altri. La stessa logica si applica al Niger, i cui sultani e leader religiosi svolgono un ruolo centrale, e al Senegal, dove le confraternite sufi esercitano un’influenza significativa. Credo che il dialogo interreligioso sia un importante fattore di resilienza contro l’estremismo violento. Al di là del semplice dialogo, è diventato fondamentale concettualizzare una diplomazia religiosa regionale: mobilitare gli attori religiosi nella mediazione. Il dialogo interreligioso deve superare la dimensione di semplice incontro tra rappresentanti delle religioni, diventando una risorsa vera per la mediazione e la riconciliazione.

 

Per ora il Senegal resta un’isola di pace. Qual è la sua peculiarità, il suo antidoto contro la violenza?

Il Senegal è spesso descritto come un’isola di stabilità in un oceano di instabilità. Il primo fattore di questa resilienza è il sentimento di appartenenza a una nazione forte. In Senegal, la dimensione etnica non influenza le scelte politiche: la via del regionalismo etnicista non ha ragion d’essere nella geopolitica del Paese. C’è un forte senso di appartenenza comune a una nazione. Il secondo fattore è il ruolo delle confraternite sufi, che godono di una legittimità storica. Esse hanno svolto un ruolo centrale durante la colonizzazione e dopo la distruzione delle entità politiche precoloniali, hanno creato dei poli di socializzazione e forgiato legami che trascendevano le etnie e le appartenenze regionali. Ciò ha rafforzato il senso di appartenenza a una nazione senegalese. Il problema però è che nelle regioni di confine con il Mali e nelle zone più esposte alle minacce, le confraternite sufi non sono una realtà. Sono potenti soprattutto nel Senegal centrale, ma non in Casamance o nell’est del Paese. Pertanto, è necessario rafforzare il lavoro sul campo e collaborare con i capi religiosi e tradizionali di queste regioni per estendere il ruolo positivo delle confraternite. Non si può però ignorare l’ascesa delle correnti cosiddette riformiste, alcune delle quali si identificano con l’islam globale. Il Senegal non può rimanere avulso dalle attuali evoluzioni religiose, segnate da una sorta di globalizzazione dei modi di credere che le confraternite devono fare proprie per continuare a svolgere appieno il loro ruolo nel rafforzamento della resilienza ideologica contro gli estremismi.