Ogni anno oltre due milioni di musulmani si ritrovano alla Mecca per compiere uno dei riti più solenni e partecipati dell’islam. Quali sono le origini e il significato di questa pratica? Quali gesti prevede? E che ruolo riveste per il Paese in cui si svolge, l’Arabia Saudita?
Ultimo aggiornamento: 03/06/2025 15:12:54
Lo Hajj, o grande pellegrinaggio, è il quinto pilastro dell’islam, ed è obbligatorio almeno una volta nella vita per ogni musulmano che ne abbia le possibilità fisiche ed economiche (Corano 3,97). Si svolge dall’ottavo giorno di Dhū l-Hijja, il dodicesimo e ultimo mese del calendario lunare islamico, e dura cinque o sei giorni (il sesto è facoltativo).
Prima di iniziare lo Hajj, i fedeli entrano nello stato di purità rituale (ihrām) osservando speciali norme di comportamento e abbigliamento, tra cui il divieto di tagliare i capelli e le unghie, di utilizzare profumi e di indossare abiti cuciti per gli uomini. Questi ultimi indossano soltanto due teli bianchi, a evocare l’uguaglianza di tutti i pellegrini davanti a Dio, mentre le donne vestono l’abaya, un abito lungo, che copre tutto il corpo fino ai polsi e le caviglie, ad eccezione del viso, che deve essere lasciato scoperto. Contrariamente a quanto si immagina, dunque, tipi di velo integrale come il burqa sono vietati durante il pellegrinaggio, un indizio forte del fatto che essi rappresentino delle innovazioni rispetto al costume dei primi musulmani.
Dopo aver indossato l’abbigliamento rituale, il fedele formula l’intenzione di compiere il pellegrinaggio recitando in arabo la talbiya: «Eccomi, o Dio, eccomi. Eccomi, tu non hai simili, eccomi. A te la lode, la grazia e la sovranità, tu non hai simili».
Con la sola eccezione di quanti abitano nel territorio sacro, lo Hajj deve sempre essere preceduto dalla ‘Umra, o piccolo pellegrinaggio, che si effettua a ridosso dell’inizio del grande pellegrinaggio[1]. Esso consiste nel compiere per sette volte in senso antiorario la circumambulazione (tawāf) della Ka‘ba, la struttura cubica posta al centro della Grande moschea della Mecca, e nel percorrere a passo veloce (sa‘ī) per sette volte il tratto che divide le colline di Safā e Marwa, in ricordo del gesto di Agar, che corse avanti e indietro tra le due alture per sette volte in cerca d’acqua per suo figlio Ismaele. È qui che sgorga la celebre fonte di Zamzam, che si vuole creata da Dio per placare la sete di Agar e suo figlio, tuttora considerata benedetta nella cultura islamica. Tra questi due riti i pellegrini possono fermarsi a pregare di fronte al Maqām Ibrāhīm, la pietra che, secondo la tradizione, conserva le impronte dei piedi che Abramo lasciò mentre costruiva la Ka‘ba.
L’ottavo giorno di Dhū l-Hijja è il primo giorno ufficiale dello Hajj: i pellegrini, rientrati in ihrām nel caso in cui ne siano usciti dopo la ʿUmra, si dirigono nella valle di Minā, dove trascorrono la giornata in preghiera. Questo giorno è chiamato “Yawm al-Tarwiya” (il giorno del dissetarsi), dall’antica consuetudine di procurarsi acqua in vista della giornata successiva. Il giorno seguente, il nono, i fedeli si spostano verso ‘Arafāt (o ‘Arafa), circa 20 km a est della Mecca, e sostano in preghiera seguendo l’esempio di Abramo. Questo è il momento cruciale del pellegrinaggio, quello in cui, le preghiere e le suppliche sono ritenute particolarmente efficaci. Un famoso hadīth insegna infatti: «Lo Hajj è ‘Arafa»[2].
Qui, nella moschea di al-Namira, si pregano insieme le preghiere del mezzogiorno e del pomeriggio, a cui segue il sermone. Per molti anni, questa preghiera è stata guidata dallo shaykh ‘Abdulaziz bin ‘Abdullah Al al-Shaykh, attuale Gran mufti dell’Arabia Saudita, membro di una delle famiglie conservatrici più importanti del Regno, discendente da Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab, ma dal 2016 questa consuetudine è cambiata e re Salman affida l’incarico ogni anno a una persona diversa. Questo è anche il giorno in cui i musulmani di tutto il mondo digiunano, mentre i pellegrini sono esentati dal digiuno, dovendo far fronte alle fatiche fisiche del pellegrinaggio. Al tramonto, i fedeli si dirigono a Muzdalifa, dove trascorrono la notte dormendo all’aperto. Il decimo giorno, quello della grande festa del Sacrificio, tornano a Minā per compiere il rito della lapidazione di Satana, lanciando i ciottoli raccolti la sera prima a Muzdalifa contro la colonna più grande delle tre presenti, a memoria del modo in cui Abramo rispose alla tentazione. Lo stesso giorno i fedeli ritornano alla Mecca per compiere i riti che concludono il pellegrinaggio: la circumambulazione conclusiva della Ka‘ba (tawāf al-ifāda), e la corsa per sette volte tra le colline di Safā e Marwa. I pellegrini escono poi dallo stato di purità radendosi i capelli (gli uomini) o tagliandosi una ciocca (le donne), e offrendo in sacrificio rituale un agnello o un altro animale. Questo sacrificio è compiuto anche da tutti i musulmani del mondo, ovunque si trovino, e rappresenta il cuore della festa di al-Adhā (“dei sacrifici”), la più importante del calendario islamico.
L’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo giorno (quest’ultimo facoltativo) il pellegrino ritorna a Minā, dove getta sette sassolini contro le tre colonne che simboleggiano Satana, e dunque il rifiuto del male. In questo periodo di festa è vietato digiunare.
I riti descritti finora rispecchiano la tradizione sunnita, ma i musulmani sciiti compiono gli stessi rituali, negli stessi luoghi e negli stessi giorni. Le differenze tra i due gruppi sono minime e riguardano principalmente alcune modalità di esecuzione della preghiera, le formule invocative durante il ṭawāf e il sa‘ī, e l’interpretazione simbolica di alcuni gesti. Ad esempio, la lapidazione delle colonne da parte degli sciiti assume anche un significato politico e morale, come atto di condanna dell’oppressione e dell’ingiustizia, elementi centrali nella loro teologia.
Dalla Mecca preislamica a Muhammad
In generale, il Corano fornisce pochi dettagli sui riti previsti durante il pellegrinaggio, ragion per cui i musulmani si affidano soprattutto alla tradizione di Muhammad, che pochi mesi prima della sua morte compì l’ultimo Hajj, noto appunto come “Pellegrinaggio dell’Addio”. Le pratiche da lui seguite sono state tramandate nel tempo e costituiscono ancora oggi il modello rituale per milioni di fedeli.
Il pellegrinaggio alla Mecca, tuttavia, è una pratica che precede l’islam. Il Corano, infatti, fin dalle sue sure più antiche, non contesta mai la nozione della sacralità della Mecca. Esso inoltre allude ad alcuni riti di pellegrinaggio, dandoli per noti ai propri ascoltatori.
La letteratura di hadīth ha precisato questi dati affermando che in epoca preislamica, le tribù arabe politeiste usavano già recarsi alla Ka‘ba, per venerare diverse divinità e svolgevano riti che ricordano in parte quelli che poi avrebbero caratterizzato il nascente islam, tra cui la circumambulazione per sette volte, la corsa tra le colline di Safā e Marwa, e le tappe ad ‘Arafāt, Muzdalifa e Minā. Se dunque prestiamo fede a questa letteratura, che è tuttavia più tarda rispetto al Corano e a volte sembra essere nata con lo scopo di spiegare il testo sacro, il pellegrinaggio si concludeva in quest’ultima località, dove le tribù arabe si radunavano per celebrare le glorie dei loro antenati recitando poemi elogiativi delle rispettive genealogie. Con l’avvento dell’islam, la recita dei poemi fu sostituita dal dhikr (la rammemorazione del nome di Dio), una pratica che avrebbe finito per essere associata primariamente alla spiritualità sufi, e da preghiere di ringraziamento e lode a Dio, ponendo così fine a ogni forma di vanto basato sulle origini e il lignaggio.
L’islam pone evidentemente fine anche al culto degli idoli. Sempre secondo la letteratura islamica sulle origini, particolarmente venerate in epoca preislamica erano Allāt, al-‘Uzzā e Manāt, una triade di divinità femminili a cui erano dedicati dei santuari simili alla Ka‘ba nella forma, dislocati in altre città della penisola arabica. Il Corano in effetti condanna esplicitamente il culto di queste tre divinità (53,19-23), definendole semplici nomi privi di potere reale. Dopo la conquista islamica della Mecca, il tempio dedicato ad Allāt a Tā’if fu abbattuto da al-Mughīra ibn Shu‘ba, uno dei comandanti del profeta. Tuttavia, tracce del culto di Allāt sopravvivono fino a oggi: a Hegra, l’antica città nabatea patrimonio dell’Unesco dal 2008, si possono ancora vedere le nicchie scavate nella roccia che un tempo ospitavano delle statuette votive dedicate a questa divinità.
Nella predicazione di Muhammad, il pellegrinaggio assume un significato nuovo e viene posto in collegamento con la figura di Abramo, considerato dai musulmani un profeta e modello per eccellenza della fede monoteista originaria (Cor. 3,67). Peraltro, alcuni versetti coranici del periodo medinese attribuiscono la costruzione della Ka‘ba proprio ad Abramo e a suo figlio Ismaele (Cor. 2,125 e 128; 22,26–29).
Il 624 in particolare è un anno importante per la formazione dell’identità islamica: Muhammad istituisce l’obbligo del pellegrinaggio e del Ramadan, e ordina di cambiare la direzione della preghiera (qibla), da Gerusalemme alla Mecca. In questo periodo l’islam si consolida come religione autonoma, distinguendosi dall’ebraismo e dal cristianesimo. La città di Medina conserva ancora il retaggio di questa antica eredità nella Moschea al-Qiblatayn (letteralmente la moschea delle due direzioni), dove, secondo la tradizione islamica, il profeta avrebbe ricevuto l’ordine divino di pregare rivolgendosi alla Ka‘ba anziché verso Gerusalemme. Fino a pochi anni fa all’interno della moschea erano presenti entrambe le nicchie (mihrāb) a indicare la direzione delle due città, ma nel corso della ristrutturazione del 1987 quella rivolta verso Gerusalemme fu rimossa. Anche il recupero dello Hajj preislamico si colloca nella stessa linea e rappresenta un modo per la nascente comunità di affermare, al tempo stesso, la propria indipendenza rispetto all’Ebraismo e alla sua città santa, e il proprio radicamento arabo.
Dal saccheggio dei Carmati al Covid-19: quando lo Hajj fu sospeso
Il rito del grande pellegrinaggio si ripete, sempre uguale, da 1400 anni. Nel corso della storia, tuttavia, ci sono stati dei momenti in cui esso è stato sospeso a causa di guerre, pestilenze, condizioni naturali avverse o mancanza di sicurezza. Uno degli episodi più drammatici si verificò nel 908 d.C., quando la setta ismailita dei Carmati, sorta verso la fine del IX secolo nell’attuale Bahrein, attaccò la Mecca durante la stagione del pellegrinaggio. Fingendosi pellegrini, i carmati entrarono in città e massacrarono 30.000 persone, gettandone i corpi nel pozzo di Zamzam. Saccheggiarono la Ka‘ba e rubarono la Pietra nera portandola in Bahrein, dove rimase fino al 951, quando fu restituita dopo lunghe trattative con il califfato abbaside, che pagò un grande riscatto.
Nei secoli successivi, epidemie e calamità naturali causarono nuove interruzioni. Nel 967 il pellegrinaggio fu annullato a causa della peste. Nel 1048, una prolungata siccità spinse il sovrano fatimide, che all’epoca controllava i luoghi santi, a chiudere tutte le rotte carovaniere terrestri.
Il colera, in particolare, fu un flagello ricorrente: nel 1814 uccise 8.000 persone alla Mecca, e tra il 1837 e il 1892 si verificarono diverse ondate epidemiche. Le rotte del pellegrinaggio, che collegavano l’India, l’Africa e il Medio Oriente, contribuirono alla diffusione del contagio anche in Europa. In epoca contemporanea, invece, il pellegrinaggio è stato ridimensionato durante la pandemia di Covid-19. Nel 2020, per contenere la diffusione del virus, le autorità saudite hanno deciso di sospendere gli arrivi dall’estero, consentendo solo a poche migliaia di residenti in Arabia Saudita di prendere parte al pellegrinaggio. Anche nel 2021 sono state imposte severe restrizioni, con un limite di partecipanti fissato a 60.000 persone, tutte residenti e vaccinate. Soltanto nel 2022 la Mecca è tornata ad accogliere i pellegrini stranieri.
In passato, alle epidemie spesso si aggiungeva l’insicurezza dovuta al banditismo. Nel 1757, una carovana di pellegrini proveniente dalla Siria e dall’Anatolia fu assalita da bande beduine nei pressi di Tabuk, città nel nord dell’attuale Arabia Saudita. Le autorità ottomane, per evitare simili episodi, erano solite pagare tributi alle tribù locali, che in cambio garantivano la sicurezza delle carovane, ma in caso di mancato pagamento, i pellegrini erano esposti alle aggressioni.
Lo Hajj, strumento della diplomazia religiosa del Regno
Per l’Arabia Saudita l’islam rappresenta un elemento fondamentale dell’identità del Paese. Non a caso dal 1986 il re si fregia del titolo di “Custode dei due luoghi santi” e dal 1927, subentrando all’Egitto, finanzia ogni anno la kiswa, il prezioso drappo nero che ricopre la Ka‘ba e che viene sostituito il primo giorno del mese di Muharram, a significare il suo legame profondo con la Mecca e Medina.
Nonostante la progressiva presa di distanza dal wahhabismo, l’attuale erede al trono e uomo forte di Riyad Muhammad Bin Salman continua a insistere sulla centralità dell’islam. In un passaggio della Vision2030, ad esempio, il piano di riforme lanciato nel 2016 per diversificare l’economia del Paese e ridurre la dipendenza dal petrolio si legge:
Siamo orgogliosi di ciò che rende eccezionale la nostra nazione: la fede islamica e la nostra unità nazionale. La nostra nazione è il nucleo del mondo arabo islamico e rappresenta il cuore dell’islam. Se Dio vuole, costruiremo un futuro più luminoso, fondato sui principi islamici[3].
Lo Hajj e la ‘Umra rappresentano inoltre una leva importante per lo sviluppo economico del Paese. Come recita un proverbio arabo, al-Hājj hāja, “il pellegrinaggio è un bisogno” – spirituale per i fedeli, economico per il Paese. Uno degli obbiettivi della Vision2030 è aumentare il numero di pellegrini da 8 a 30 milioni l’anno per la ‘Umra, e da 2 a 4-5 milioni per lo Hajj entro il 2030. Per raggiungere questi numeri, l’Arabia Saudita ha avviato una serie di mega progetti infrastrutturali. Tra questi figurano l’ampliamento dello Hajj Terminal dell’aeroporto di Gedda, progettato per accogliere milioni di fedeli ogni anno, e il potenziamento della linea ferroviaria ad alta velocità al-Haramein, che collega Gedda, Mecca e Medina. È inoltre in fase di progettazione la costruzione di quattro linee della metropolitana alla Mecca che collegheranno i siti principali del pellegrinaggio, come Minā, ‘Arafat e Muzdalifah, per ridurre il traffico e migliorare la mobilità durante i riti. Ma soprattutto è in corso il terzo ampliamento della Grande moschea della Mecca, volto ad aumentarne la capacità ricettiva. Parallelamente il governo sta investendo nello sviluppo di servizi digitali avanzati, come il visto elettronico e App per la gestione logistica e il monitoraggio dei flussi di pellegrini.
Oltre a rappresentare una leva economica strategica, il pellegrinaggio costituisce per l’Arabia Saudita un potente strumento di soft power, attraverso il quale il Regno proietta la propria influenza in tutto il mondo islamico. Allo stesso tempo, le politiche legate allo Hajj rivelano equilibri e tensioni geopolitiche. Per motivi legati alla sicurezza e alla logistica, l’accesso alla Mecca durante il mese del pellegrinaggio è limitato a un numero massimo di persone. Ogni anno, il Ministero dello Hajj e della ‘Umra assegna a ciascun Paese una quota di partecipanti, calcolata in base alla popolazione musulmana residente (un pellegrino ogni mille musulmani). Questo sistema ha talvolta generato tensioni diplomatiche, soprattutto con i Paesi rivali, che hanno accusano l’Arabia Saudita di politicizzare l’accesso ai luoghi sacri e di usarlo come leva nelle relazioni internazionali.
I contrasti più significativi hanno coinvolto l’Iran. Nel corso Novecento e dei primi anni Duemila sono stati diversi gli episodi di discriminazione e restrizioni che hanno ostacolato la partecipazione degli sciiti allo Hajj. Un caso emblematico risale al 1927, quando l’Iran vietò ai propri cittadini di compiere il pellegrinaggio per quattro anni, in segno di protesta contro la distruzione del cimitero di al-Baqī‘, avvenuta l’anno precedente per ordine delle autorità saudite. Il cimitero, adiacente alla Moschea del Profeta a Medina, era un luogo di grande rilevanza per gli sciiti duodecimani: vi si trovavano originariamente le tombe di Fatima, figlia del Profeta, e di quattro degli imam da loro venerati – al-Hasan ibn ‘Alī (secondo imam, figlio di Fatima e dunque nipote di Muhammad), il quarto imam ‘Alī Zayn al-‘Ābidīn, Muhammad al-Bāqir e Ja‘far al-Sādiq, rispettivamente quinto e sesto imam. Tradizionalmente, i pellegrini sciiti si recavano a pregare su queste tombe, invocando l’intercessione degli imam. I wahhabiti, promotori di una visione rigorista dell’islam che considera l’intercessione dei santi una forma di idolatria, avevano già distrutto gran parte delle tombe nel 1806, durante una precedente occupazione di Medina. Le tombe e i mausolei erano poi state ricostruiti a fine Ottocento, ma nel 1926, dopo la conquista definitiva della città da parte di ‘Abdulaziz ibn Saud (fondatore della moderna Arabia Saudita, nonno di MbS), furono nuovamente demolite. In risposta, Teheran si rifiutò di riconoscere l’autorità dei Saud su Medina, avanzò la proposta di istituire un’assemblea musulmana internazionale per amministrare i luoghi santi e decise di sospendere la partecipazione dei propri cittadini allo Hajj. Oggi del cimitero di al-Baqī‘ rimane solo una spianata di terra battuta, punteggiata da poche lapidi prive di identificazione. La distruzione del sito ha lasciato una ferita ancora aperta tra i fedeli sciiti, che ogni anno, l’8 del mese di Shawwāl, ne commemorano la demolizione come una profanazione della memoria sacra degli imam e della famiglia del Profeta.
Le tensioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran sono continuate anche nei decenni seguenti. Dai primi anni ’70 fino alla fine degli anni ’80, il pellegrinaggio alla Mecca e Medina divenne spesso teatro di manifestazioni politiche da parte dei pellegrini iraniani. Incoraggiati dalle autorità religiose sciite, e in particolare dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini, molti pellegrini approfittavano dello Hajj per lanciare slogan contro gli Stati Uniti e Israele. Le tensioni culminarono nel 1987, quando durante una manifestazione alla Mecca organizzata dai pellegrini iraniani, violenti scontri con le forze di sicurezza saudite provocarono la morte di oltre 400 persone. L’episodio suscitò un’ondata di indignazione in Iran. A Teheran, una manifestazione “spontanea” sfociò in un attacco all’ambasciata dell’Arabia Saudita. Lo stesso giorno, Khomeini lanciò un appello al popolo saudita, incitandolo a rovesciare la monarchia come atto di giustizia per le vittime. Di fronte all’escalation, l’Arabia Saudita ruppe le relazioni diplomatiche con l’Iran e ridusse drasticamente la quota di pellegrini iraniani ammessi allo Hajj, da 150.000 a 45.000. L’Iran rispose con un boicottaggio del pellegrinaggio che durò tre anni, dal 1988 al 1990. Le relazioni tra i due Paesi furono ristabilite solo nel 1991, grazie a un accordo che permise la ripresa del pellegrinaggio iraniano con una quota annuale fissata a 115.000 fedeli.
Anche in tempi recenti, lo Hajj è stato un termometro delle relazioni bilaterali. Un episodio significativo si è verificato nel 2016, quando l’Iran decise di non inviare pellegrini a causa delle forti tensioni con l’Arabia Saudita, scoppiate in seguito alla morte di 460 iraniani nella calca di Minā nel 2015. A peggiorare ulteriormente i rapporti fu l’esecuzione dello shaykh Nimr al-Nimr nel gennaio 2016, importante voce della minoranza sciita interna all’Arabia Saudita, evento che scatenò l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran e portò a una nuova interruzione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.
Più recentemente, nel 2022, l’Arabia Saudita ha negato il visto al rappresentante degli affari per il pellegrinaggio iraniano, Abdul Fattah Nawab, ufficialmente per motivi legati all’età e alla sicurezza. Era il primo anno, dopo la pandemia, in cui il pellegrinaggio veniva riaperto anche ai fedeli provenienti dall’estero, ma con nuove regole: tra queste, il limite di età fissato a 65 anni, soglia che Nawab aveva da poco superato. La decisione ha suscitato dure reazioni da parte iraniana, che ha visto in questa misura un affronto. Solo nel 2024 si è assistito a segnali di distensione, con la ripresa della ‘Umra per i cittadini iraniani.
Nel corso degli anni i problemi hanno riguardato anche i fedeli sunniti. La crisi del Golfo (2017-2021), che vide Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Bahrein isolare il Qatar, ha avuto un impatto diretto sullo Hajj: fino al 2021 i qatarioti hanno avuto difficoltà a ottenere i visti per il pellegrinaggio.
Analogamente riscontrano gravi problemi le minoranze musulmane che vivono in Stati a loro ostili, come gli Uiguri dello Xinjiang, nella Cina occidentale, e i Rohingya del Myanmar, per i quali l’accesso allo Hajj è estremamente difficile o quasi impossibile.
Il pellegrinaggio alla Mecca continua a rappresentare uno dei momenti più intensi e significativi per milioni di musulmani nel mondo. Ogni anno vi si materializza l’unità della comunità musulmana dispersa nel mondo. Ma al di là del suo significato spirituale, esso è anche un termometro dei rapporti di potere che attraversano il mondo islamico.
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[1] Nella forma detta hajj al-tamattu‘, che è la più praticata, la ‘Umra può precedere anche di parecchi giorni o settimane l’inizio del Hajj. Per questo motivo, tra la ‘Umra e lo Hajj lo stato di purità rituale viene spesso interrotto tagliando una ciocca di capelli (le donne) o radendoli completamente (gli uomini).
[2] Al-Tirmidhī, Sunan, nn. 889-891. Per un’interpretazione antropologica di questa affermazione si veda Martino Diez, “In them ye have benefits for a term appointed” (Q. 22:33). A Girardian perspective on the origin of Islam, in Peter Casarella and Gabriel Reynolds (eds.), The Whole is Greater than its Parts, Crossroads Publishing Company, New York 2020, pp. 305-328.
[3] Vision 2030, pp. 16 e 17.