Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 24/04/2024 14:59:19

Nonostante gli sforzi della diplomazia internazionale, il Ramadan è iniziato senza ancora nessun accordo di tregua o di cessate il fuoco. La proposta più recente che Hamas ha presentato ai mediatori arabi e statunitensi prevede il rilascio degli ostaggi in cambio della liberazione di 700-1000 detenuti palestinesi, ma la risposta del premier israeliano Benjamin Netanyahu è stata lapidaria: «richieste ridicole e irrealistiche». Nel frattempo, lo Stato ebraico monitora la situazione a Gerusalemme e in particolare nella Moschea di al-Aqsa, luogo in cui Hamas ha chiamato i musulmani a radunarsi in segno di protesta contro la violenza e “l’occupazione sionista”. Il governo, in occasione della preghiera del primo venerdì di Ramadan, ha incrementato i controlli in tutta la Città Vecchia senza però imporre nuove restrizioni: decisione che – spiega la testata israeliana Haartez – pur non prevedendo restrizioni ad hoc di fatto scoraggia molti palestinesi a recarsi in moschea a causa dei «tormenti dei posti di controllo e dei ritardi». Middle East Eye fa però notare che nel primo venerdì di preghiera le autorità israeliane hanno impedito l’accesso a migliaia di fedeli, anziani inclusi, e persino al personale medico. I militari hanno inoltre posizionato delle barricate di ferro lungo le strade che conducono ad al-Aqsa, in modo da controllare e limitare il flusso delle persone.   

 

Le parole della giornalista di Gaza Eman Alhaj Ali pubblicate sul sito di Al Jazeera descrivono con efficacia il difficile momento che stanno vivendo i palestinesi, in netto contrasto con il clima nel resto del mondo islamico: «è iniziato il Ramadan. In tutto il mondo i musulmani compiono il digiuno, trascorrono il tempo con le loro famiglie e si dedicano alla preghiera. Ma per noi, musulmani di Gaza, questo mese sacro è pieno di dolore e lutto […]. Le famiglie si riuniscono non per salutarsi e festeggiare, ma per piangere insieme i morti. Con l’inizio del Ramadan, stiamo dando l’addio a un martire dopo l’altro».  

 

Come testimonia un reportage del New York Times, sono sempre più disperate le condizioni di vita nella città di Rafah, probabile obiettivo della campagna militare dell’esercito israeliano. La città al confine con l’Egitto, che prima del 7 ottobre contava trecentomila abitanti, sta ospitando adesso più di un milione di sfollati palestinesi. «Nella provincia di Rafah lo spazio è diventato un privilegio raro. Famiglie di sfollati riempiono le scuole, tendopoli si distendono negli spazi aperti e la gente affolla le strade. Il gas per cuocere cibi è così scarso che l’aria è impregnata dell’acre odore del fumo che esala dai fuochi alimentati con legname di recupero e mobili fatti a pezzi», scrive il giornale americano. L’inflazione è spaventosa: per fare un esempio, il Wall Street Journal sottolinea come la scarsità di molti beni di base abbia fatto salire i prezzi fino al 600%. 

 

Proprio a causa della crisi alimentare e del continuo deterioramento delle condizioni sanitarie, sociali ed economiche, gli attori internazionali si sono attivati per aumentare l’afflusso di aiuti umanitari alla popolazione della Striscia diversificando le modalità di distribuzione dei viveri. Gli Stati Uniti e i suoi alleati arabi hanno sperimentato la consegna via aria, paracadutando enormi pacchi di viveri. Tuttavia, osserva il Wall Street Journal in un altro articolo, non si tratta di un metodo molto efficace: «persino il più grande lancio aereo non va oltre le 16,5 tonnellate di viveri, equivalenti alla portata di un normale camion che fa la spola tra Gaza e l’Egitto, con la differenza che quest’ultimo costa il 90% in meno». L’altro progetto elaborato da Washington consiste nel creare un molo temporaneo a Gaza in modo da poterla rifornire via Mediterraneo. In ambito diplomatico, il segretario di Stato statunitense Antony Blinken ha chiesto a Israele di «aprire quanti più punti di accesso possibili» e di eliminare le «restrizioni superflue» che ostacolano l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza: nelle sue parole, la Striscia deve «essere inondata» di viveri. La testata libanese L’Orient-Le Jour spiega in dettaglio come funziona l’invio degli aiuti. Questi arrivano principalmente via nave nei porti egiziani di Port Said e al-‘Arish, dove vengono ispezionati attentamente dalle autorità israeliane. Una volta terminati i controlli, «le merci autorizzate a entrare vengono scaricate dai camion nella zona tra l’Egitto e Gaza e ricaricate a bordo di altri veicoli guidati dai palestinesi che lavorano per organizzazioni non governative». «A parte i valichi meridionali di Rafah e Kerem Shalom – prosegue l’articolo – non ci sono altri punti di accesso: raggiungere il nord della Striscia è molto complicato per via delle distruzioni belliche e dei combattimenti». Proprio a causa delle reiterate pressioni della comunità internazionale, il 13 marzo Israele ha infine acconsentito ad aprire una nuova linea di aiuti nel nord della Striscia. Quello stesso giorno, però, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno deliberatamente colpito un magazzino dell’UNRWA – l’agenzia dell’ONU creata ad hoc per fornire aiuto e assistenza ai palestinesi ma accusata da Tel Aviv di sostenere Hamas – uccidendo un dipendente e altre ventidue persone, tra le quali figurerebbe secondo lo Stato ebraico anche un miliziano di Hamas. Il giorno seguente si è registrato un nuovo incidente nel nord di Gaza, dove un elicottero delle IDF ha aperto il fuoco su una folla di palestinesi che era in attesa di ricevere gli aiuti umanitari, uccidendo e ferendo decine di persone.

 

Anche l’Unione Europea si è attivata per fornire maggiore assistenza ai palestinesi. Stando a quanto riporta Politico, in vista del prossimo vertice del Consiglio europeo i leader dell’Unione Europea stanno redigendo una bozza in cui, oltre alla ferma condanna dell’attacco terroristico di Hamas, si esprime viva preoccupazione per la «catastrofica situazione di Gaza e il concreto rischio di carestia» e si chiede al governo israeliano di annullare l’operazione militare su Rafah. Inoltre, l’8 marzo la Commissione Europea ha annunciato, insieme a rappresentanti ciprioti, statunitensi, inglesi, emiratini e qatarioti l’apertura di un nuovo corridoio umanitario marittimo tra Cipro, il territorio dell’Unione più vicino al Medio Oriente, e Gaza. L’iniziativa europea è stata accolta in maniera piuttosto tiepida. «Il piano – scrive il giornale israeliano Haaretz – è quello di trasferire i viveri su piccole imbarcazioni e chiatte che verranno rimorchiate dalle navi in modo da attraccare sulla costa di Gaza. Non è però chiaro chi li scaricherà, dove verranno conservati gli aiuti, chi li distribuirà e chi li sorveglierà». Senza contare che costruire un molo richiede tempo, «tempo che i palestinesi che rischiano la morte per inedia, non hanno». Salama Marouf portavoce dell'ufficio stampa del governo di Hamas a Gaza, ha già fatto sapere che la rotta marittima è inadeguata («non è ancora noto dove e in che modo attraccheranno» le navi) e sarà comunque sottoposta ai controlli degli israeliani. Il governo turco ha invece considerato positivamente l’idea di soccorrere i palestinesi inviando loro aiuti via aria e mare, aggiungendo però che queste misure sono «palliative» e non potranno risolvere il nocciolo del problema. 

 

M’ama, non m’ama. Il rapporto tra USA e Israele alla prova di Netanyahu [a cura di Claudio Fontana]

 

La prosecuzione delle violenze a Gaza ha diverse conseguenze politiche. Due di queste sono emerse con forza nelle ultime settimane: la prima è l’aumento delle pressioni subite dallo Stato ebraico, e la seconda è l’aggravarsi della crisi dei rapporti tra Israele e il resto del mondo. È quanto ha efficacemente sintetizzato Thomas Friedman in un editoriale pubblicato dal New York Times: «con nemici come Hamas, Hezbollah, gli Houthi e l’Iran, Israele dovrebbe beneficiare della simpatia di gran parte del mondo. Ma non è così. A causa del modo in cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e la sua coalizione estremista hanno condotto la guerra a Gaza e l’occupazione della Cisgiordania, Israele sta diventando radioattivo». Diversi eventi sostanziano l’opinione di Friedman, il quale ha comunque specificato come Israele abbia tutto il diritto di difendersi. Il primo è naturalmente il modus operandi dello Stato ebraico, che ha causato più di 30.000 morti, «dei quali un terzo combattenti», ha scritto Friedman (corsivo nostro). Ma ce ne sono altri, come i giornalisti presi di mira soprattutto nella prima fase della guerra, alcuni giornalisti. Eclatante il caso dei reporter di al-Jazeera uccisi, ma negli ultimi giorni l’attenzione è tornata sulla troupe di Reuters colpita al confine con il Libano: i risultati di un’indagine condotta dalla missione UNIFIL, hanno stabilito che i giornalisti erano chiaramente identificabili come tali e, nei 40 minuti precedenti alla loro uccisione ad opera di un carro armato israeliano, non c’era stato alcuno scontro a fuoco nella zona che potesse giustificare un fraintendimento.

 

Secondo l’editorialista del New York Times un altro elemento potrebbe peggiorare ulteriormente l’immagine di Israele: lo stato in cui quest’ultimo lascerà Gaza al termine delle operazioni militari. Con ciò non s’intende solamente il livello di distruzione causato, già elevatissimo, ma il vuoto politico che si rischia di generare: lo Stato ebraico non ha una chiara strategia sulla gestione della Striscia post-Hamas – e lo si diceva fin dall’inizio del conflitto. Non si può quindi escludere che in futuro ci troveremo davanti a una Gaza dove nessuno esercita l’autorità e sia in grado di gestire la sicurezza. Lo scenario previsto da Friedman è quello della Somalia governata dai signori della guerra. Un vero e proprio incubo in primis per i palestinesi, ma anche per Israele. D’altro canto, però, sostiene Bret Stephens in un altro editoriale, Tel Aviv non può che continuare a combattere. Se interrompesse le ostilità, Hamas manterrebbe «diversi battaglioni intatti», con almeno quattro conseguenze: primo, «sarebbe impossibile istituire a Gaza un’autorità politica diversa da Hamas»; secondo, il movimento islamista ricostruirebbe appieno le proprie forze, come ha fatto Hezbollah dopo la guerra del 2006; terzo, «gli ostaggi israeliani sarebbero bloccati nella loro terribile prigionia a tempo indeterminato»; quarto, e ultimo, non potrebbe mai esserci uno Stato palestinese, perché «nessun governo israeliano accetterà uno Stato palestinese in Cisgiordania se [questo] rischierà di assomigliare a Gaza». È però vero, aggiungiamo, che l’attuale leadership israeliana ha apertamente rifiutato la possibilità di esistenza di uno Stato palestinese, quale che sia l’attore politico incaricato di gestirlo. Anche il presidente americano Joe Biden non sembra della stessa idea di Stephens, tanto che molti commenti pubblicati dalla stampa americana di questa settimana si sono concentrati sulla frattura crescente tra Stati Uniti e Israele.

 

La polemica tra Netanyahu e Biden coinvolge diversi aspetti, dalla strategia militare alle questioni politiche. Nell’ultimo periodo, però, il nervo scoperto è quello che riguarda l’offensiva israeliana su Rafah, che il primo ministro israeliano è deciso a compiere nonostante la contrarietà della Casa Bianca. Per l’establishment israeliano è cruciale avanzare su Rafah per eliminare i tre battaglioni di Hamas dislocati in quella città. Al contrario, per il presidente americano «Rafah è una linea rossa», come ha dichiarato lui stesso nel corso di un’intervista alla MSNBC. Il problema è che, di nuovo, il Presidente non ha specificato cosa intendesse con “linea rossa”. Durante la stessa intervista Biden si è spinto ad affermare che Netanyahu sta facendo del male a Israele, pur ribadendo – ha ricordato la CNN – la legittimità della difesa israeliana. Secondo alcuni funzionari governativi intervistati dalla BBC la politica estera statunitense, esemplificata da queste dichiarazioni di Biden, è incoerente: Washington «arma Israele e allo stesso tempo lo esorta, senza successo, a consentire che un numero maggiore di aiuti raggiunga attraverso le sue linee militari le vittime civili della guerra».

 

La risposta di Netanyahu alle affermazioni di Biden non si è fatta attendere: anche io, ha affermato il leader del Likud, ho delle linee rosse e la mia linea rossa è impedire che un attacco come quello del 7 ottobre si ripeta. Se però consideriamo che l’invasione di Rafah avverrà, probabilmente, solo dopo aver ricevuto una qualche forma di assenso dall’amministrazione americana, emerge come non sia questo il vero punto di conflitto tra Biden e Netanyahu, sebbene sia al momento il più rilevante mediaticamente. La tesi di David Ignatius  è che ci sia un profondo «disaccordo sul fatto se Netanyahu e il suo governo di destra abbiano davvero unito il Paese dietro a una chiara strategia per il conflitto». Da questo punto di vista è significativo quanto emerso da un recente report dell’intelligence americana (concepito per essere divulgato) che in maniera alquanto inusuale si sofferma sul futuro politico di un alleato come Israele: «la sopravvivenza di Netanyahu come leader e della sua coalizione di governo, composta da partiti di estrema destra e ultraortodossi che hanno perseguito politiche radicali sulla questione palestinese e sulla sicurezza, è in pericolo. […] La sfiducia nella capacità di Netanyahu di governare si è approfondita e ampliata nell’opinione pubblica, rispetto ai livelli già elevati prima della guerra, e ci aspettiamo grandi manifestazioni per chiedere le sue dimissioni e nuove elezioni». Un governo «diverso e più moderato è una possibilità», ha concluso l’intelligence americana. Dopo il viaggio alla Casa Bianca da parte di Benny Gantz, ecco un altro modo con cui gli Stati Uniti hanno scelto di mostrare la loro insofferenza nei confronti di Netanyahu.

 

Tuttavia, sebbene effettivamente gli Stati Uniti e Israele siano ai ferri corti, è improbabile che «nel quadro generale […] abbandonino le loro strategie di sicurezza regionale più ampie», ha scritto Brian Katulis sul sito del Middle East Institute. Perciò, la richiesta da parte di alcuni esponenti del Partito Democratico americano di sospendere le forniture di armi allo Stato ebraico (ne ha parlato, tra gli altri L’Orient Le Jour) difficilmente avrà successo. E molto probabilmente, anche qualora gli Stati Uniti limitassero il sostegno militare a Israele, ciò non porterebbe alla fine della guerra, ha sostenuto Anshel Pfeffer su Haaretz: Reagan fece qualcosa di simile negli anni ’80 ma ciò non dissuase Menachem Begin dall’invadere il Libano nel 1982.

 

Quello che però Israele rischia, e sono mesi che Biden avverte Netanyahu a questo proposito, è perdere il sostegno occidentale da cui ha sempre tratto grande profitto. Un esempio, per quanto parziale, di questa dinamica arriva proprio dall’Italia: un tribunale ha rifiutato l’estradizione in Israele di Anan Kamal Afif Yaeesh, uno dei tre palestinesi arrestati in Italia con l’accusa di pianificare un attacco. Il motivo? Secondo il tribunale Yaeesh rischierebbe di subire «trattamenti crudeli, inumani o degradanti» una volta giunto in Israele. Se ci spostiamo oltreoceano un altro caso esemplificativo è quello dell’AIPAC, una delle lobby pro-israeliane più influenti di Washington che, secondo quanto scritto dal New York Times, fatica sempre più a mantenere vivo il sostegno bipartisan nei confronti di Israele tra la classe politica americana .

 

Me ne vado, anzi resto. Gli Usa e il Medio Oriente [a cura di Claudio Fontana]

 

Bloomberg lo ha detto senza mezzi termini: la guerra iniziata da Hamas con l’attacco del 7 ottobre non ha soltanto sconvolto Israele, Gaza e i Paesi più prossimi, ma ha mandato «in pezzi la visione di Washington per un Medio Oriente in cui l’economia e la sicurezza [avrebbero legato] Israele e i suoi vicini arabi». Lo aveva già detto il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi: la guerra ha azzerato «30 anni di sforzi per normalizzare l’idea della pace con Israele nel mondo arabo». Ne è un esempio la sospensione delle trattative per l’acquisto da parte di BP e ADNOC (compagnia petrolifera di Abu Dhabi) del 50% dell’israeliana NewMed Energy, che controlla la maggioranza del giacimento gasiero Leviathan, al largo della costa israeliana. L’operazione, che avrebbe avuto un valore di circa 2 miliardi di dollari, è stata ufficialmente sospesa per via «dell’incertezza generata dal contesto esterno», senza che nel comunicato venisse fatto alcun esplicito riferimento alla guerra a Gaza. Tuttavia, tanto il Financial Times, quanto Bloomberg e al-Monitor collegano la sospensione delle trattative alla difficoltà crescente per i Paesi arabi di mantenere relazioni con Israele mentre Tel Aviv bombarda Gaza.

 

A essere andata in frantumi è dunque l’idea americana di un completo riassetto della regione, basato sull’estensione degli Accordi di Abramo a un numero crescente di Paesi e sull’approfondimento dei legami tra i Paesi firmatari. Come evidenziato anche dall’incapacità americana di influenzare il comportamento israeliano, di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo, l’intero Medio Oriente risente dei cambiamenti in atto a livello globale, con gli Stati Uniti che in parte si disimpegnano dall’area e in parte tentano ancora di dirigere il corso degli eventi. Secondo Sylvie Kauffmann, editorialista di Le Monde, questo è «lo stato del mondo nel 2024: un mondo in cui diverse grandi potenze vivono fianco a fianco, si controllano a vicenda, competono, si scontrano o cooperano a seconda della posta in gioco, ma in cui nessuna è in grado di imporre l’ordine». Nell’arco di 10 anni o poco più è ulteriormente diminuito il ruolo americano nella regione del Mediterraneo allargato: durante l’attacco alla Libia nel 2011 Barack Obama coniò l’espressione leading from behind, un modo per lasciare ampio margine di manovra a Francia e Regno Unito, interessati alla caduta di Gheddafi. Oggi – ha scritto Kauffmann – gli Stati Uniti non conducono più da dietro le quinte: semplicemente «non conducono affatto». Tuttavia, sebbene Washington non riesca a raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi regionali, secondo Daniel Byman (Foreign Affairs) la presenza americana in Medio Oriente, per quanto problematica e in declino, è necessaria per «mitigare» il rischio che la regione diventi «ancora meno stabile e generi più conflitti civili, proliferazione nucleare, interventi pericolosi e altre gravi minacce». Per esempio, ha scritto Byman, gli sforzi americani sono risultati cruciali per evitare che il conflitto a Gaza si trasformasse rapidamente in una guerra regionale. Il Medio Oriente ha ancora bisogno degli Stati Uniti, si legge sulla prestigiosa rivista americana, e un ritiro completo lascerebbe un vuoto che Russia, Cina e altri attori cercherebbero di riempire. Cercherebbero di riempire, o stanno riempiendo? Le esercitazioni congiunte delle marine militari di Russia, Cina e Iran nel Golfo di Oman farebbero propendere per la seconda opzione, anche se l’entità e il significato di queste iniziative non vanno sopravvalutati.

 

Per ora, comunque, pur all’interno di una tendenza generale al ribasso, gli Stati Uniti restano impegnati nella regione: il Financial Times ha rivelato che a gennaio, grazie alla mediazione omanita, gli americani hanno avuto colloqui indiretti con l’Iran nel tentativo di convincere Teheran a limitare gli attacchi degli Houthi. Le notizie di questi mesi ci dicono però che né l’approccio diplomatico né quello militare sono al momento riusciti a dissuadere il gruppo yemenita, anche perché gli iraniani hanno ribadito che non esercitano un’influenza così marcata sugli Houthi, a differenza, per esempio di quanto avviene con Hezbollah in Libano. È nel Paese dei Cedri che il rischio di un conflitto continua a crescere. Israele ha nuovamente colpito in profondità, raggiungendo la città nord-orientale di Baalbek; in risposta Hezbollah ha lanciato la più consistente salva di razzi verso lo Stato ebraico dall’inizio della guerra il 7 ottobre scorso. Ciononostante, secondo la ricostruzione di Mounir Rabih pubblicata dal quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, «Hezbollah continua a escludere la possibilità di un’operazione israeliana su larga scala», eventualità scartata anche dal ministro degli Esteri del Libano, Abdallah Bou Habib, il quale ritiene che Israele non azzarderà un’invasione terrestre oltre al suo confine settentrionale perché «sa che non sarebbe una passeggiata». Tuttavia, prosegue Rabih, «il fatto che il partito sciita minimizzi la minaccia israeliana è visto da alcuni come una negazione della realtà – che deriva da una lettura errata degli eventi, in particolare in Israele – o come un atteggiamento basato sulle assicurazioni ricevute, o come un modo per dire che si sta preparando ad accettare un accordo globale», che potrebbe prevedere l’allontanamento delle forze sciite dal confine con Israele.

 

Contro il “Terroristan”. Erdoğan e l’intesa con Baghdad [a cura di ​​​​​​​Mauro Primavera]

 

La Turchia rafforza le relazioni con l’Iraq in funzione anti-curda. Giovedì 14 marzo una delegazione turca composta dal ministro degli esteri Hakan Fidan, dal ministro della difesa Yaşar Güler e dal capo dei servizi segreti Ibrahim Kalın si è recata a Baghdad per incontrare alti funzionari iracheni. I colloqui vertevano su due questioni principali: una energetica, in particolare la riattivazione dell’oleodotto che permette all’Iraq di esportare greggio in Turchia, e l’altra securitaria, legata alla minoranza curda in Turchia. A tal proposito, i rappresentanti dei governi turco e iracheno hanno approvato un memorandum di intesa riconoscendo che il PKK, la più importante formazione curda in Turchia, rappresenta una “minaccia comune” sia per Ankara che per Baghdad («non permetteremo in nessun modo la formazione di un “Terroristan” lungo le nostre frontiere meridionali» ha dichiarato il presidente Erdoğan). Gli effetti dell’intesa sono stati immediati: al termine dell’incontro il Consiglio di Sicurezza Nazionale Iracheno ha ufficialmente messo fuori legge il PKK soddisfacendo in questo modo una vecchia richiesta del reis. La testata curda Medya News osserva che questo incontro potrebbe costituire il preludio per una nuova operazione militare turca in Iraq al fine di estirpare milizie e cellule del PKK. The New Arab aggiunge che l’incontro del 14 marzo anticipa di qualche settimana la visita ufficiale di Erdoğan a Baghdad, la prima dal 2012, che dovrebbe sugellare l’alleanza tra i due Paesi. 

 

In breve

 

Le monarchie del Golfo, con in testa Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar, sono sempre più presenti in Africa. Il continente è una destinazione per i loro capitali, un’arena della loro competizione geopolitica e un test per le loro ambizioni globali (Economist).

 

Lo Stato Islamico sta usando sempre più spesso criptovalute come Tether per raccogliere fondi e spostarli in base alle sue esigenze, in particolar modo in Africa (Bloomberg).

 

L’Unione Europea ha preparato un pacchetto d’aiuti all’Egitto da 7,4 miliardi di euro, nel timore che le guerre ai confini in Sudan e a Gaza peggiorino ulteriormente la situazione economica del Cairo, alimentando una nuova ondata migratoria (Al-Monitor). Domenica Ursula von der Leyen si recherà nella capitale egiziana insieme a Giorgia Meloni e ai primi ministri di Belgio e Grecia.

 

AQAP, la branca yemenita di al-Qaeda, ha annunciato la morte del suo leader, Khalid Batarfi, e Saad bin Atef al-Awlaki è stato nominato suo successore (France 24). Al-Awlaki è un comandante militare con forti legami tribali nel sud del Paese, in particolare nella regione di Shabwa, ricca di risorse energetiche, ha spiegato Elizabeth Kendall.

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