Mentre l’Ortodossia è diventata uno spazio sempre più conteso, la Turchia si trova in una posizione ambigua: uno Stato laico a maggioranza musulmana che ospita il Patriarcato Ecumenico ed è impegnato a bilanciare pragmatismo, vincoli interni e rivalità tra grandi potenze
Ultimo aggiornamento: 22/12/2025 11:49:06
Geopolitica ortodossa e ambivalenza strategica della Turchia
La religione è riemersa come variabile centrale della geopolitica contemporanea, non solo in quanto retroterra culturale o ideologico, ma come strumento concreto di potere, legittimazione e influenza. All’interno di questa tendenza generale, il Cristianesimo ortodosso occupa una posizione particolarmente sensibile, nella quale si intrecciano questioni di sovranità, identità nazionale, rivendicazioni storiche e leadership regionale, soprattutto nell’Europa orientale, nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. La guerra in Ucraina ha messo drammaticamente in luce la dimensione geopolitica dell’Ortodossia, trasformando decisioni ecclesiastiche in strumenti di politica estera con conseguenze di lungo periodo. In questo contesto in evoluzione, la Turchia si trova una posizione singolare e paradossale.
In quanto Paese che ospita il Patriarcato Ecumenico Ortodosso di Istanbul, essa è geograficamente e istituzionalmente collocata nel cuore del mondo ortodosso, pur rimanendo uno Stato costituzionalmente laico, a maggioranza musulmana e privo di legami confessionali organici con l’Ortodossia. Questa singolarità strutturale è ulteriormente complicata da una percezione storicamente radicata dell’Ortodossia non soltanto come tradizione religiosa, ma come fattore politicamente sensibile e talvolta ostile nella memoria politica turca.
Durante il tardo periodo ottomano, l’ascesa dei nazionalismi balcanici – molti dei quali strettamente intrecciati con le istituzioni ortodosse – alterò profondamente il rapporto della maggioranza musulmana turca con le popolazioni cristiane locali. Il Patriarcato Ecumenico venne sempre più percepito dalle élite politiche turche come un vettore di separatismo e di ingerenze esterne, in particolare nel contesto dei movimenti nazionali greco, bulgaro e serbo. Questa percezione si irrigidì ulteriormente quando nelle narrazioni ufficiali e popolari l’Ortodossia cominciò a essere associata alla disintegrazione territoriale dell’Impero, alla perdita dei Balcani e all’emergere di Stati-nazione rivali su territori un tempo imperiali.
Il collasso dell’Impero ottomano e la traumatica esperienza della ritirata territoriale rafforzarono nel periodo repubblicano una narrazione fortemente incentrata sulla sicurezza. In questo quadro, l’Ortodossia fu spesso implicitamente associata, soprattutto nelle sue espressioni greca e slava, a potenze esterne, all’irredentismo e a rivendicazioni storiche, più che essere considerata una semplice presenza religiosa interna o un elemento di pluralità religiosa. In seguito alla proclamazione della Repubblica nel 1923, la ridefinizione della cittadinanza turca su basi unitarie e nazionaliste contribuì ulteriormente alla marginalizzazione delle popolazioni e delle istituzioni cristiane locali, iscrivendole in un discorso di sospetto strategico anziché di coesistenza pluralistica. Nel corso del XX secolo, la questione cipriota rafforzò ulteriormente questo paradigma securitario, favorendo la percezione dell’Ortodossia attraverso la lente della rivalità geopolitica, della sovranità nazionale e dei conflitti storici irrisolti.
Questo retroterra storico contribuisce a spiegare sia il persistente disagio di Ankara nei confronti del Patriarcato ecumenico, sia il ruolo sempre più strategico di quest’ultimo. In contrasto con la ricorrente rappresentazione ufficiale che lo descriveva come un’istituzione interna e di minoranza, dotata di funzioni esclusivamente locali e religiose all’interno della minoranza greca, il Patriarcato ha storicamente e intrinsecamente esercitato un’autorità transnazionale, fondata sul suo primato canonico nel mondo ortodosso e sulle reti di cui dispone a livello globale. Esso si trova al centro di una dinamica dialettica: la sua debolezza strutturale – il fatto che non sia sostenuto da uno Stato specifico, le dimensioni ridotte della sua comunità locale e il suo funzionamento all’interno di un Paese a maggioranza musulmana – agisce simultaneamente come fonte di forza, consolidandone la capacità di mediazione, l’autorità morale e la percezione di neutralità nei conflitti intra-ortodossi e, più in generale, nelle controversie internazionali.
Tuttavia, i governi turchi che si sono susseguiti nel tempo hanno costantemente negato o minimizzato il suo ruolo internazionale. Tale insistenza aveva una chiara valenza politica: il riconoscimento della dimensione sovranazionale del Patriarcato è stato a lungo percepito come una potenziale sfida alla sovranità e alla sicurezza dello Stato, in quanto simbolo di una forma di autorità che sfugge al pieno controllo territoriale e istituzionale.
Negli ultimi anni, tuttavia, Ankara ha mostrato segnali di una maggiore disponibilità a consentire al Patriarcato una visibilità globale nel contesto della geopolitica ortodossa, specialmente nel caso ucraino. Questo cambiamento non segnala una piena riconciliazione normativa con lo statuto del Patriarcato, bensì una ricalibrazione pragmatica, con la quale un’eredità storicamente problematica si è trasformata in una possibile risorsa geopolitica. La tensione tra queste due interpretazioni sta al cuore dell’ambivalenza turca.
Oggi la geopolitica ortodossa contemporanea è in gran parte plasmata dalla rivalità tra il Patriarcato di Istanbul e quello di Mosca. Ispirata dalle retoriche dell’eurasianismo e della “democrazia sovrana”, la Russia ha investito pesantemente nel presentarsi come protettrice dell’Ortodossia globale, inserendo il discorso religioso all’interno di una più ampia narrazione incentrata sul confronto di civiltà con l’Occidente. La Chiesa ortodossa russa funziona oggi come uno dei principali pilastri ideologici del Cremlino, legittimando sia l’autoritarismo interno sia l’espansionismo esterno. Questa fusione di teologia, nazionalismo e geopolitica ha consentito a Mosca di dipingersi come custode dei valori cristiani tradizionali contro un Occidente moralmente decadente, estendendo così la propria influenza ben oltre l’ambito strettamente religioso. In questo contesto, il ruolo del Patriarcato di Istanbul quale primus inter pares ha acquisito una rinnovata centralità. Pur essendo privo di potere coercitivo, la sua autorità simbolica gli conferisce una forma di soft power che sfida direttamente l’ambizione di Mosca di monopolizzare la leadership ortodossa nel momento in cui i posizionamenti ecclesiastici tendono a riflettere le linee di frattura strategiche della politica internazionale.
Il dilemma strategico della Turchia risulta dunque evidente. Da un lato, Ankara mira a mantenere relazioni pragmatiche con la Russia in molteplici ambiti, dalla Siria e dal Caucaso meridionale all’interdipendenza energetica, al turismo, agli investimenti e al commercio. Dall’altro, essa ospita un’istituzione le cui azioni, in particolare a partire dal 2018, hanno direttamente minato gli interessi ecclesiastici e geopolitici russi. L’atteggiamento di Ankara nei confronti del ruolo del Patriarcato di Istanbul sulla questione ucraina è stato quello di un’ambiguità calibrata, che non ha né sostenuto né ostacolato le iniziative internazionali del Patriarca Bartolomeo. In questo modo, la Turchia ha cercato di preservare il proprio margine di manovra, consentendo alla geopolitica religiosa di dispiegarsi senza vincolare formalmente il governo turco.
Tale postura riflette una trasformazione più ampia della politica estera turca. Piuttosto che difendere rigidamente posizioni dottrinali, Ankara privilegia sempre più un pragmatismo situazionale nelle relazioni internazionali. All’occorrenza anche il Patriarcato può dunque essere considerato una potenziale risorsa diplomatica, sempre tenendo ferma la possibilità di un’inversione di rotta qualora le circostanze lo rendessero necessario.
La crisi dell’autocefalia ucraina e l’ascesa della diplomazia religiosa
La concessione nel 2018 dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa dell’Ucraina ha segnato un punto di svolta non solo per il mondo ortodosso. Osteggiata con forza dal Patriarcato di Mosca, la decisione del Patriarca Bartolomeo ha prodotto una profonda frattura all’interno dell’Ortodossia globale e ridefinito il significato politico dell’autorità religiosa. Mentre diverse Chiese ortodosse, in particolare quelle di Grecia, di Alessandria (che esercita la propria influenza sull’intero continente africano) e a Cipro, hanno riconosciuto l’autocefalia ucraina, altre si sono apertamente schierate con Mosca o hanno adottato una posizione ambigua, che riflette non solo divergenze teologiche, ma più in generale anche collocazioni e dipendenze geopolitiche. Per Ankara, la crisi ha funzionato come uno stress test, con tutti i rischi e le opportunità insiti nell’ospitare un’istituzione religiosa influente a livello globale.
Sul piano formale, il governo turco è rimasto silente sulla questione, a sottolineare che questa non aveva alcuna attinenza con lo Stato. In pratica, tuttavia, l’assenza di ostacoli ha costituito di per sé un segnale significativo. Consentendo al Patriarcato di convocare sinodi o di ospitare regolarmente delegazioni ufficiali e religiose ucraine, Ankara ha implicitamente accettato le conseguenze internazionali della decisione sull’autocefalia. Questa postura contrasta fortemente con quella dei decenni precedenti, quando qualsiasi affermazione dell’autorità transnazionale del Patriarcato avrebbe verosimilmente suscitato una critica politica.
L’autocefalia ucraina non rappresenta una questione puramente teologica, ma ha rappresentato un colpo simbolico e istituzionale all’influenza della Chiesa russa nei territori dell’ex Unione Sovietica. Gli attori occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno sostenuto apertamente questo processo come parte di uno sforzo più ampio volto a indebolire il soft power di Mosca. In questo senso, il Patriarcato di Istanbul emerge come un punto focale in cui convergono legittimità religiosa e strategia geopolitica.
Per la Turchia, tale convergenza implica un complesso esercizio di equilibrismo. Schierarsi apertamente con il Patriarcato avrebbe rischiato di suscitare l’antagonismo russo; un’opposizione esplicita avrebbe invece compromesso le relazioni di Ankara con i partner della NATO, e in particolare con gli Stati Uniti. La via mediana scelta in questa occasione – una permissività accompagnata da distanza retorica – ha consentito alla Turchia di beneficiare indirettamente delle azioni del Patriarcato, preservando al contempo la possibilità di negare un coinvolgimento diretto. Qualora le tensioni dovessero intensificarsi, Ankara potrebbe sempre richiamarsi al principio della non interferenza negli affari ecclesiastici.
Questo episodio può inoltre rivelare un’evoluzione più ampia nell’impiego della religione come strumento di politica estera da parte della Turchia. Storicamente, la diplomazia religiosa turca è stata quasi esclusivamente veicolata da istituzioni islamiche, in particolare il Direttorato degli Affari Religiosi (Diyanet). Mentre quest’ultimo rimane centrale, Ankara potrebbe sempre più riconoscere l’utilità di interagire anche con attori religiosi non islamici quando le circostanze lo richiedono. Il Patriarcato offre infatti accesso a reti estese su un’ampia area geografica, che resterebbe altrimenti al di fuori della portata della Turchia.
Allo stesso tempo, questa strategia comporta dei rischi. La Russia ha costantemente dipinto il Patriarcato di Istanbul come un agente dell’influenza occidentale, e in particolare statunitense. In questa narrazione, il ruolo della Turchia come Paese ospitante viene descritto come una forma di complicità, se non addirittura come una regia occulta. Qualsiasi percezione di un incoraggiamento dell’attivismo patriarcale da parte di Ankara potrebbe provocare delle ritorsioni di Mosca in altri contesti. La crisi ucraina mette dunque in luce la fragilità della strategia turca di hedging: efficace nel breve periodo, ma strutturalmente vulnerabile a dinamiche di escalation.
Il pragmatismo turco, i vincoli interni e gli scenari futuri
Il relativo ammorbidimento della posizione di Ankara nei confronti del Patriarcato ortodosso di Istanbul non può essere compreso solo attraverso lenti culturaliste o revivaliste, bensì come parte di una strategia più ampia, tipica delle potenze regionali emergenti che mirano a mobilitare l’intero spettro degli strumenti a loro disposizione. In un contesto segnato da multi-allineamento, diversificazione diplomatica e competizione sul piano del soft power, l’interazione della Turchia con il Patriarcato riflette una ricalibrazione pragmatica piuttosto che una svolta ideologica.
Istituzioni religiose, eredità storiche e reti transnazionali vengono sempre più trattate come risorse funzionali, complementari agli strumenti militari, economici e diplomatici. In questo quadro, mobilitare le comunità ortodosse attraverso un’istituzione che ha sede a Istanbul appare come un tentativo di ottimizzare le opzioni strategiche, rafforzare le capacità di mediazione e proiettare influenza su molteplici teatri geopolitici più che come una concessione a pressioni esterne. Tollerando il ruolo internazionale del Patriarcato senza riconoscerlo formalmente, Ankara può inoltre posizionarsi come facilitatrice del dialogo intercristiano, rafforzando il proprio profilo di ponte tra civiltà, una narrazione che la Turchia promuove attivamente nei consessi internazionali.
Tuttavia, i vincoli interni limitano in modo significativo la portata di questa strategia. I segmenti nazionalisti della società turca e i servizi di sicurezza del Paese continuano a guardare al Patriarcato con sospetto, interpretando qualsiasi riconoscimento della sua dimensione transnazionale come una minaccia alla sovranità statale. Le controversie simboliche, come le cerimonie religiose in siti storicamente sensibili, possono essere facilmente mobilitate per alimentare narrazioni oppositive. Il margine di manovra del governo risulta pertanto strutturalmente condizionato dalla necessità di evitare contraccolpi sul piano interno.
Esiste inoltre una tensione ideologica difficilmente eludibile: il coinvolgimento pragmatico dell’attuale governo turco con un’istituzione cristiana globale, per quanto guidato da una logica funzionale e orientata al perseguimento di determinati interessi, mal si combina con la sua retorica fondata sull’identità islamica. Questa dualità è stata finora gestita attraverso l’ambiguità, ma rimane una potenziale fonte di instabilità, soprattutto in fasi di accentuata mobilitazione nazionalista.
Guardano in prospettiva, il governo turco potrebbe scegliere di approfondire i propri rapporti con il Patriarcato, facendo più esplicitamente leva sul suo soft power nella propria area di prossimità, in particolare in un contesto ucraino postbellico, nel quale il posizionamento delle Chiese ortodosse continuerà a essere oggetto di contesa. In alternativa, Ankara potrebbe tornare a una postura più cauta, privilegiando una diplomazia discreta e riducendo al minimo un’associazione visibile con le iniziative patriarcali. Una variabile probabilmente decisiva sarà l’evoluzione futura delle relazioni della Turchia sia con la Russia sia con l’Occidente, dal momento che eventuali mutamenti nel posizionamento strategico di Ankara inciderebbero direttamente sul margine di manovra del Patriarcato e sulla sua interazione con lo Stato turco.
In ogni caso, la capacità della Turchia di affermarsi come attore nella geopolitica ortodossa dipenderà dalla sua abilità nel combinare pragmatismo strategico e comprensione culturale e teologica delle dinamiche dell’Ortodossia. Un uso strumentale privo di una piena consapevolezza delle linee di frattura religiose stratificatesi nel corso dei secoli rischia di produrre effetti controproducenti, che minerebbero sia la credibilità del Patriarcato sia gli obiettivi diplomatici turchi. L’intersezione tra religione e geopolitica richiede non solo flessibilità tattica, ma anche coerenza strategica di lungo periodo.
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