Fonte di fierezza o epoca di idolatria? Il gesto compiuto da un giovane recitatore coranico in occasione della solenne inaugurazione del Grande Museo Egizio di Giza ha evidenziato il rapporto ambivalente che gli egiziani intrattengono con il loro passato preislamico
Ultimo aggiornamento: 20/11/2025 11:56:02
L’inaugurazione del Grande Museo Egizio (GEM) a Giza lo scorso 1° novembre ha ricevuto un’ampia copertura mediatica. E giustamente: frutto di due decenni di lavori, la gigantesca struttura si caratterizza per la sua maestosità che, nell’ipermodernità dei volumi, riesce a dialogare in modo convincente con architetture risalenti a più di 4500 anni fa. Punto di forza dell’intero edificio è infatti la scenografica rampa che conduce a un’enorme vetrata da cui ammirare le vicine Piramidi. Il complesso nasce per alleggerire lo storico Museo Egizio in Piazza Tahrir, che, come il resto della metropoli egiziana, soffriva di sovraffollamento: non solo di visitatori, ma anche e soprattutto di reperti archeologici, accatastati nelle sale espositive e nei magazzini.
In realtà il GEM era già visitabile da più di un anno, come ben sanno i partecipanti al viaggio di Oasis dello scorso settembre. Tuttavia, l’inaugurazione ufficiale in pompa magna, alla presenza del Presidente al-Sisi e di numerosi capi di Stato, ministri e diplomatici stranieri, ha coinciso con il trasferimento del tesoro di Tutankhamon dalla vecchia sede di Piazza Tahrir.
Un ospite indesiderato
Meno noto è quanto avvenuto pochi giorni dopo l’inaugurazione. Tra la folla dei visitatori accorsi al museo, molti dei quali egiziani, si è introdotto anche un giovane recitatore coranico, Ahmed al-Smalousi, che, sull’iconico sfondo degli immensi colossi faraonici, ha iniziato a declamare con voce stentorea la sura 40 o del Perdonatore. In particolare, un video diventato subito virale lo immortala mentre proclama, leggendoli da un cellulare (o tempora, o mores!), i versetti 39-45, contenenti le parole di «un uomo credente della famiglia di Faraone, che teneva nascosta la sua fede». L’anonimo personaggio coranico, prendendo spunto dalla predicazione di Mosè, ammonisce Faraone e il suo popolo ad abbandonare l’idolatria e a volgersi piuttosto al culto del «Possente indulgente» per evitare il castigo del Fuoco. Si tratta di una delle amplificazioni narrative tipiche della Scrittura islamica, che introduce talvolta personaggi non menzionati nel racconto biblico per accentuarne la drammaticità. Nel caso specifico, l’anonimo credente agisce da giudice nella disputa che contrappone Mosè e Faraone e al tempo stesso, prendendo le parti del profeta ebraico malgrado la sua appartenenza alla élite egiziana, insegna che i vincoli di lealtà familiare non devono prevalere su quelli di fede.
Come s’intuisce, la scelta del brano non è stata casuale. Al-Smalousi, già noto per essersi fatto filmare mentre recitava il Corano in vari contesti pubblici, cercava la notorietà e l’ha ottenuta, ma forse non nel modo che immaginava: le autorità egiziane lo hanno arrestato poche ore dopo la pubblicazione del video.
L’Egitto e il suo passato
L’incidente evidenzia un aspetto che spesso sfugge ai visitatori stranieri, cioè l’ambivalente rapporto che gli egiziani intrattengono con il loro passato preislamico. Mentre per alcuni esso è fonte di grande fierezza, per altri rappresenta un capitolo negativo, un’epoca di idolatria che si è conclusa soltanto con l’avvento dell’Islam. In effetti, se l’Egitto è tra le poche località geografiche esplicitamente citate nel Corano, è anche vero che la storia di Mosè e di Faraone vi riveste una grande importanza. E in essa gli egiziani si collocano decisamente dalla parte sbagliata. Evocata in numerose sure – Mosè è nettamente il personaggio umano più importante del Corano – la storia contrappone la predicazione monoteistica del profeta ebreo all’arrogante tirannia di Faraone, che giunge all’estremo di divinizzarsi.
Per la chiesa copta la narrazione dell’Esodo è in qualche modo redenta dal passaggio della Sacra Famiglia in Egitto, che rende la terra del Nilo parte della Terra Santa, e proprio per questo questa tradizione, che risale all’epoca del Patriarca Teofilo (fine V secolo), ha conosciuto e continua a conoscere grande fortuna. Per i musulmani invece non c’è nessuna Sacra Famiglia a riscattare la terra del Nilo, anche se Muhammad, negli ultimi anni della sua vita, contrasse un matrimonio con una schiava copta e in un hadith istruisce i futuri conquistatori dell’Egitto a trattare con gentilezza il suo popolo «perché hanno un diritto di protezione e parentela su di voi»[1]. Tuttavia, la protezione e parentela di cui parla lo hadith si riferiscono, nel caso, ai cristiani contemporanei alla conquista islamica, non certo ai loro antenati pagani. E infatti anche recentemente si sono levate voci di predicatori fondamentalisti che esortano a distruggere la Sfinge e gli altri “idoli” che punteggiano il suolo egiziano. Uno dei casi che fece più scalpore si verificò nel 2012, durante la presidenza Morsi, quando un oscuro leader jihadista, Morgan Salem al-Gohary, esortò le autorità a fare a pezzi la Sfinge e le Piramidi, intervenendo in diretta televisiva su un popolare canale privato.
La minaccia, poi attuata drammaticamente da ISIS sulle antichità mesopotamiche e siriane, costrinse all’epoca al-Azhar a una risposta, che del resto aveva già fornito nelle sue grandi linee nel 2001 quando i talebani distrussero i Buddha di Bamiyan. In generale, argomentò la moschea-università che è la principale espressione dell’Islam ufficiale egiziano, statue, templi e dipinti dei popoli non islamici vanno preservati come testimonianza del passato. C’è infatti «una grande differenza tra antichità e idoli»[2]. Solo nel caso in cui ci sia un reale rischio che una parte consistente della popolazione torni ad adorare queste statue come dèi, è lecito – e in alcuni casi anche doveroso – procedere alla loro distruzione. Di conseguenza, dato che al momento non si vedono all’orizzonte i segni di una rinascita della religione egiziana antica, le Piramidi possono continuare a dormire sonni tranquilli sull’altopiano di Giza.
Non solo, ma nel caso dell’Egitto, un ulteriore elemento milita a favore della preservazione del patrimonio faraonico, come ricordato sempre da al-Azhar. Si tratta dell’esempio dei Compagni, cioè della prima generazione di musulmani. Questi, infatti, quando s’impadronirono della valle del Nilo sotto la guida di ‘Amr ibn al-‘Ās, non ritennero di dover distruggere i monumenti faraonici. E se non lo hanno fatto loro, il cui esempio ha valore autorevole per le generazioni successive, perché dovrebbero farlo i musulmani del XXI secolo? Per la cronaca, nel corso della trasmissione del 2012, fu Abdelfattah Mourou, già vicepresidente di al-Nahda, il partito islamista-democratico in quel momento al potere in Tunisia, a chiedere la linea per smontare, esattamente in questi termini, il sermone iconoclasta del leader jihadista.
Come si vede, questo tipo di ragionamenti adotta un argomentare essenzialmente giuridico, fatto di precedenti e prove: può condurre ad ammettere la possibilità di conservare le tracce del passato preislamico, ma difficilmente spingerà a valorizzarle, se non in una chiave puramente utilitarista, legata all’eventuale afflusso di turisti che possono garantire. È una fredda accettazione più che un’appassionata riscoperta. E anche l’argomento, talvolta avanzato negli ambienti islamisti, che gli antichi egizi meriterebbero un trattamento a parte perché sarebbero stati tra i primi a raggiungere il monoteismo grazie alla rivoluzione religiosa di Akhenaton, lascia in fondo il tempo che trova: un solo faraone, infatti, e per giunta enoteista più che monoteista, ben difficilmente può bastare per salvare tutti gli altri.
Tuttavia, la civiltà islamica ha espresso nei secoli anche un tipo diverso d’intellettuali, palesemente affascinati dalle altre culture tanto quanto radicati nella propria. È il caso ad esempio dello storico e viaggiatore al-Masʿūdī, morto nel 957 proprio a Fustat (Cairo vecchia), che alcuni hanno soprannominato “l’Erodoto degli arabi” proprio per la sua insaziabile curiosità di conoscere i popoli non-musulmani, ma anche dello scienziato al-Bīrūnī (m. 1048), che ci ha lasciato una dettagliatissima descrizione dell’India del suo tempo, frutto di decenni di studio della letteratura sanscrita, e dello storico al-Maqrīzī (m. 1442) che nelle sue ammirate Khitat si propose di fornire una descrizione topografica e storica dell’intero territorio egiziano. Poco importa che le spiegazioni delle Khitat siano spesso fantasiose: ciò che conta è l’interesse verso il passato egiziano antico che al-Maqrīzī, al-Masʿūdī e altri autori arabi medievali testimoniano[3].
In età moderna, questa corrente “culturalista” ricevette nuovo slancio dall’opera dei savants, gli scienziati che, arrivati al seguito di Napoleone, diedero inizio all’egittologia moderna e alle sue sorprendenti scoperte. Nel nuovo contesto ottocentesco, il passato faraonico smise allora di essere un semplice elemento folkloristico, oggetto di un’affabulazione in larga misura leggendaria, per diventare un pilastro fondamentale nel progetto di costruzione nazionale lanciato dal khedive Muhammad ʿAlī, il padre dell’Egitto moderno.
Non a caso il tema dei monumenti faraonici e della loro preservazione ritorna negli scritti del principale intellettuale egiziano del tempo, Rifāʿa al-Tahtawī (1801-1873). Accanto al termine arabo tradizionale di āthār, “tracce”, con cui si designavano i monumenti, egli introduce un nuovo vocabolo, di chiara derivazione europea: antīka, “le antichità”. Nella sua storia dell’Egitto intitolata Anwār Tawfīq, al-Tahtawī, dopo aver lodato la decisione di Muhammad ʿAlī d’istituire al Cairo un «magazzino delle antichità» (l’antenato dell’attuale Museo egizio), lamenta la persistente vendita dei reperti faraonici agli stranieri. Tale pratica – scrive – deve cessare perché «questi monumenti vanno conservati come una storia che ci dà conto delle epoche passate. Essi offrono testimonianza ai Libri rivelati. Il nobile Corano, infatti, li ha menzionati e ha menzionato le loro genti. Vederli è una lezione e una conferma. Tra i vantaggi della loro preservazione vi è che ci insegnano qualcosa sugli antichi e sul loro modo di vita, la vastità della loro conoscenza e la purezza dei loro pensieri. E queste sono cose che l’anima desidera conoscere»[4].
Nei decenni successivi ad al-Tahtawī la moda faraonica s’intensifica; nel tempo questo condurrà alla creazione di un servizio delle antichità e infine alla nascita di una scuola archeologica autoctona: tutto un clima il cui influsso è evidente anche nei principali intellettuali egiziani del Novecento, da Taha Hussein al premio Nobel Naguib Mahfuz, che esordì con tre romanzi storici ambientati nell’Antico Egitto. Anche al-Sisi si è mostrato sempre più recettivo rispetto a questo filone, anche per segnare una netta discontinuità rispetto al breve periodo dei Fratelli Musulmani. Già l’inaugurazione del museo nazionale della civiltà egiziana nel 2021 era stata marcata da un’imponente “parata d’oro dei faraoni” e qualcosa di simile si è ripetuto qualche settimana fa con l’inaugurazione del GEM. Se ci pensiamo bene, in soli 13 anni siamo passati dal leader jihadista che incita in diretta TV a distruggere la Sfinge alla realizzazione di due nuovi mega-musei per la civiltà faraonica. È un dato di cui tener conto.
Che cos’è il fondamentalismo
Registrando il proprio video, il giovane al-Smalousi è dunque andato a toccare un elemento fondamentale del progetto nazionale egiziano. E non solo egiziano, a dire il vero, se si pensa che Saudi Vision 2030 prevede anch’essa grandi investimenti per valorizzare il passato arabo preislamico del Regno saudita. In funzione turistica, certo, ma anche come elemento identitario.
Ciò spiega la reazione furibonda delle autorità egiziane, che, lungi dal liquidare il video come una bravata, lo hanno trattato come un vero e proprio attentato alla sicurezza nazionale. Questo triste esito illustra, una volta di più, i seri limiti alla libertà di espressione che vigono oggi in Egitto, soprattutto quando si chiama in causa la religione. Quest’ultima gode infatti di una condizione paradossale: da un lato è onnipresente, ma dall’altro è anche il più grande tabù, non appena si esce dai canoni del discorso ufficiale. Per dire, negli ultimi anni le autorità hanno arrestato un presentatore televisivo per aver offeso l’Islam, uno shaykh per aver attaccato il Cristianesimo, e un convertito dall’Islam per aver chiesto di modificare la propria religione sui documenti d’identità. Tre decisioni apparentemente contraddittorie, ma che in realtà nascondono la stessa preoccupazione: evitare in ogni modo di risvegliare lo spettro della fitna, lo scontro settario su base religiosa. Che la repressione sistematica sia la strategia migliore per conseguire questo risultato resta tutto da dimostrare.
Detto questo, vale la pena soffermarci ancora un attimo sulle implicazioni culturali della vicenda del giovane recitatore coranico a caccia di notorietà social. A ben guardare, infatti, essa offre un caso da manuale di che cosa sia il fondamentalismo.
A connotare questo atteggiamento non è innanzitutto l’uso della violenza – il video è assolutamente pacifico, al-Smalousi non muove un dito contro gli oggetti esposti al museo – quanto la tendenza anti-culturale. Per il pensiero fondamentalista la rivelazione non ha bisogno della cultura. Anzi, quanto più è avulsa da ogni contesto umano, tanto più chiaramente apparirà divina. È questo tipo di pensiero, ad esempio, a imporre, contro ogni verosimiglianza filologica e testuale, di continuare a tradurre il titolo di ummī, che il Corano attribuisce a Muhammad, come “analfabeta”, laddove il suo significato è, con ogni evidenza, “gentile, non ebreo”: quanto più il Corano è estraneo alla cultura del suo tempo – si ragiona – tanto più risalterà la sua natura miracolosa. Dato però che il fondamentalista si basa unicamente sulla Scrittura, e al limite legge soltanto quest’ultima, deve ritrovarvi tutto: la scienza, la storia, la letteratura, la medicina… Da questo atteggiamento, ad esempio, origina la cosiddetta esegesi scientifica del Corano, un genere letterario nato nel secolo scorso che si ripropone di trovare nel Libro Sacro islamico tutte le grandi scoperte scientifiche dell’umanità. Significativamente, atteggiamenti simili si ritrovano in alcune forme di evangelismo protestante e di ebraismo ultraortodosso.
Al contrario, un atteggiamento non-fondamentalista guarda alle espressioni culturali, nella loro diversità a volte anche sconvolgente, come a potenziali alleati più che a pericolosi concorrenti. Alleati perché mettono in luce le potenzialità dell’umano e la profondità della domanda di senso che lo anima, anche quando quest’ultima assume forme inadeguate o francamente inaccettabili (pensiamo ai sacrifici umani nelle religioni più antiche). Così, ad esempio, mentre il fondamentalista vede nelle statue delle divinità egizie solo degli “idoli” – da distruggere o meno, è un altro discorso – il non fondamentalista vi coglie altrettante espressioni del senso religioso. Un senso certo confuso e da purificare – perché alla fine Mosè aveva ragione e Faraone non era dio – ma non da cancellare. Sono, a seconda dei casi, promesse, prefigurazioni, partenze e false partenze, che nella loro provvisorietà preparano quella risposta che, purificandole, le supera senza annullarle.
Lo fanno, ad esempio, permettendomi di cogliere per contrasto un aspetto che gli antichi egizi, nella loro tensione verso il divino, non riuscirono in nessun modo a immaginarsi: che esso cioè potesse scegliere di identificarsi non con i potenti, ma con i poveri, non con i dominatori, ma con i dominati, con quel popolo da cui i faraoni si volevano orgogliosamente diversi.
Dopo aver visitato Luxor, ho capito meglio il Magnificat.
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[1] Muslim, Sahīh, kitāb 44 (al-fadāʾil), capitolo 56, nn. 6529-6530, da Abū Dharr.
[2] Si veda la traduzione inglese della fatwa, datata 11 agosto 2017, sul portale dell’Osservatorio di al-Azhar contro l’estremismo, https://azhar.eg/observer-en/details/ArtMID/1153/ArticleID/17338/Destruction-of-monuments. La posizione azharita è stata riaffermata, non casualmente, subito dopo l’incidente del Grande Museo Egizio, il 4 novembre 2025: https://misrconnect.com/en/news/religious-news/al-azhar-scholar-islam-respects-monuments-and-the-companions-preserved-the-pyramids. Significativo anche l’ampio articolo pubblicato sulla Egyptian Gazette il 3 novembre, a firma di Ibrahim Negm, Egypt’s Grand Museum: Where Heritage and Faith converge: https://egyptian-gazette.com/op-ed/egypts-grand-museum-where-heritage-and-faith-converge/.
[3] Sul tema si veda in particolare Okasha El-Daly, Egyptology: The Missing Millennium: Ancient Egypt in Medieval Arabic Writings, Routledge, London 2007.
[4] Rifāʿa Rāfiʿ al-Tahtawī, Anwār tawfīq al-jalīl fī akhbār Misr wa-tawthīq Banī Ismāʿīl, Būlāq 1285/1868, p. 50, ora in Muhammad ʿImāra (a cura di), al-Aʿmāl al-kāmila li-Rifāʿa Rāfiʿ al-Tahtawī, vol. 3, al-Qāhira, al-Hay’a al-ʿāmma al-misriyya li-l-kitāb 2010, pp. 84-85 (trad. nostra). Sul ruolo di al-Tahtawī si veda Elisabetta Benigni, “Ruins for a Renaissance: Decline, Rebirth and Cyclical History in the Arab Mediterranean”, in Francesca Bellino, Catherine Mayeur-Jaouen e Luca Patrizi (a cura di), L’adab, toujours recommencé. “Origins”, Transmissions, and Metamorphoses of Adab literature, Leiden, Brill 2023, pp. 731-753. Anwār tawfīq fu pensato da al-Tahtawī come una storia completa dell’Egitto, dal Diluvio ai suoi giorni. In realtà però egli completò soltanto la parte di storia preislamica, a cui aggiunse successivamente una biografia del Profeta dell’Islam, uscita postuma nel 1874.