Mentre molti Paesi del Medio Oriente fanno i conti con la fragilità delle loro istituzioni, il ritiro dall’Afghanistan ha messo in luce un profondo movimento di civiltà: gli Stati Uniti dispongono ancora di un’indiscutibile superiorità militare, ma la pretesa universalità dei valori occidentali è sempre più contestata. E gli europei non sempre sono consapevoli del ruolo che possono ancora svolgere.

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Ultimo aggiornamento: 01/09/2022 11:22:34

Lei ha curato un famosissimo saggio intitolato Démocraties sans démocrates [Democrazie senza democratici]: quale formula utilizzerebbe oggi per descrivere le tendenze politiche nel mondo arabo e in Medio Oriente?

 

Penso che ci sia stata una volontà di cambiamento nel corso degli ultimi dieci anni. Tale volontà si è manifestata in diversi discorsi ed è legata a diverse ragioni. Uno dei problemi che abbiamo nell’identificare questo movimento di massa è che non esiste un vero accordo sul significato della parola “democrazia”. Ad esempio, i miei amici algerini, quando parlano di democrazia, quando si definiscono “democratici”, intendono dire fondamentalmente che sono laici, e la parola “democratico” è quasi sinonimo di “laico”: vogliono dire che non sono religiosi. Un sondaggio realizzato in Tunisia e che ho analizzato dettagliatamente mi ha molto sorpreso: per l’11% dei tunisini di oggi, la parola “democrazia” significa elezioni libere e pacifiche, mentre per il 51% si riferisce a un potere capace di garantire un lavoro ai giovani. Altrove la parola democrazia può significare molte altre cose. In Libano, quando c’è stata la grande mobilitazione del 2005, dopo l’assassinio di Hariri, i miei amici libanesi mi dicevano che stava “cominciando un processo democratico”, ma io vedevo tantissimi capi feudali alla guida di quel movimento.

 

Credo che nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, ci sia stato un pregiudizio positivo legato alla parola democrazia, perché per la prima volta nella storia dell’umanità più della metà dei Paesi del mondo e più della metà dell’umanità viveva sotto regimi che potremmo chiamare democratici. Ma era qualcosa di miracoloso e Fukuyama ha potuto scrivere che era «la fine della storia». Per questo tutti vogliono farsi chiamare democratici. Ma quando si scava un po’, come negli esempi appena citati dall’Algeria, dalla Tunisia, o dal Libano, si nota che il significato di questo termine è diverso dal modo in cui lo intendono per esempio i promotori della democrazia – quelli che ne fanno un’industria, come la Freedom House di Washington o la Fondazione Bertelsmann in Germania o altri ancora – i quali si riferiscono all’organizzazione di elezioni regolari e il più possibile trasparenti. È per questo che se dovessi scrivere di nuovo questo libro lo intitolerei “democrazia senza accordo preliminare sul significato della parola”, perché molte persone che si dichiarano democratiche non lo sono necessariamente dal punto di vista di un altro. Possono essere laiche, come in Algeria, o chiedere la giustizia sociale, o uno Stato che protegga il cittadino, come in Tunisia, o contro l’influenza della Siria sul Libano come a Beirut, ma non sono necessariamente democratiche.

 

In realtà non c’è democrazia se lo Stato non è già saldamente instaurato. Si è visto che i regimi possono essere forti, ma gli Stati sono fragili. È per questo che, quando si è attentato a dei regimi politici, come il regime di Saddam o quello di Gheddafi, non è crollato soltanto il regime, ma anche lo Stato. E immediatamente dopo non c’è stata la democrazia, perché nemmeno la società civile esisteva ancora. Il lessico arabo è più ricco del lessico hegeliano per definire la società civile: c’è al-mujtama‘ al-ahlī, che rimanda alla società civile «ascrittiva», tradizionale, che può essere costituita da tribù, famiglie, clan, etnie, da elementi non statali, para-statali, o sub-statali che perdurano; e c’è al-mujtama‘ al-madanī, che è la società civile in senso hegeliano, cioè una società fondata sui concetti di individuo, di cittadino e di Stato. In un Paese come la Libia, dove ho lavorato per tre anni, si vede bene che al-mujtama‘ al-ahlī sta scomparendo, lentamente; di contro, la società civile, al-mujtama‘ al-madanī, non è ancora nata, o non si è ancora sufficientemente stabilizzata. È per questo che c’è questa confusione. Non voglio fare il professore, ma credo che occorra definire i termini che utilizziamo soprattutto quando li invochiamo al di fuori del quadro culturale in cui sono nati, cioè l’Europa dell’inizio del XVIII secolo, perché possono avere altri significati. Ciò vale per la democrazia ma anche per il capitalismo: il capitalismo cinese non è quello italiano, e il capitalismo italiano non è quello di Manchester. Viaggiando, ogni parola perde un po’ del suo colore d’origine per assumere quello legato al contesto in cui è utilizzata.

 

Lei ha studiato anche il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. A suo avviso, il ritiro americano dall’Afghanistan è davvero un punto di svolta? È la fine di un’epoca in cui gli Stati Uniti avevano una posizione particolarmente interventista, che giustificavano attraverso il discorso sulla democrazia e sui diritti dell’uomo?

 

L’impero americano non è fondato sulla difesa dei diritti dell’uomo. È nato da una sproporzione, da un eccesso di potenza alla fine della seconda guerra mondiale. A quell’epoca, gli Stati Uniti contribuivano per più della metà al PIL mondiale, ed erano una potenza militare senza pari. Oggi hanno ancora un enorme potere militare perché sono i soli a possedere nove gruppi aeronavali completi sparsi in tutto il mondo. Il che permette loro di essere presenti allo stesso tempo sui mari e nei cieli, praticamente in tutti i mari del mondo, contemporaneamente. Nessun altro ha le stesse capacità militari, né le avrà prima di molti anni, o forse molti secoli.

 

Ma si tratta di un impero un po’ paradossale, perché ha perso molte guerre dopo la seconda guerra mondiale – la guerra in Corea, quella del Vietnam, in Iraq, in Afghanistan. Perché non riesce a vincere le guerre? Perché è un impero il cui apparato militare è efficace soltanto quando ha un obiettivo chiaro, che è la sconfitta del nemico. Nel 1945 si trattava di sconfiggere la Germania, il Giappone e l’Italia, e ce l’hanno fatta. Ma quando si tratta di state building, di costruire degli Stati, di lottare contro il terrorismo, di promuovere la democrazia e i diritti dell’uomo, di fare del regime change, sono pessimi. L’esercito americano non è equipaggiato per questo tipo di lavoro. Io ero in Iraq, vent’anni fa, al momento della caduta di Saddam Hussein. Ho visto gli americani con in mano dei libri sulla caduta della Germania nazista nel 1945: avevano deciso che Saddam era Hitler, che il Baath era il partito nazista, e che quello che avevano fatto in Germania nel 1945 poteva essere ripetuto nel 2003 in Iraq. È stato un errore madornale. Lo pensavo allora e lo penso ancora oggi, a far perdere l’Iraq agli Stati Uniti non è stata la caduta di Saddam Hussein, bensì la gestione catastrofica dell’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein.

 

Cosa significa tutto questo per l’Afghanistan? Vuol dire tre cose, secondo il livello di analisi. Da un punto di vista strettamente militare, si può dire che è il successo di una guerriglia contro una potenza straniera. I Talebani hanno aspettato vent’anni, avevano delle cellule dormienti praticamente in tutte le città, a Kabul, a Qandahar, a Herat e altrove: hanno fatto esercizio di pazienza, anonimato, lavoro dietro le quinte, ipocrisia, fingendo di negoziare a Doha. E hanno vinto.

 

Ma se passiamo a un altro livello di analisi, dobbiamo occuparci più dei 360.000 soldati dell’esercito afghano che dei Talebani in sé. Perché questi 360.000 soldati, cioè 6 volte il numero dei Talebani, stimati intorno ai 60.000, non hanno combattuto per difendere il loro Paese? Tutto ciò mi ricorda la caduta di Mosul nel 2014, quando 400 soldati dell’ISIS hanno conquistato una città che era protetta da 10.000 soldati iracheni. Ci troviamo di fronte al fallimento dello state building. Durante la guerra contro il terrorismo, a causa un po’ dell’ideologia neoliberale che attraversa tutto il mondo, si è sempre stati molto lassisti verso le élite che l’Occidente ha messo un po’ ovunque in questi Paesi, in Iraq, in Afghanistan, in Libano, in Libia eccetera. In un bell’articolo pubblicato dal New Yorker, Dexter Filkins ha scritto che l’élite afghana andava a passare il fine settimana a Dubai per spendere tutti i soldi che aveva intascato in Afghanistan. In nome dello state building l’Occidente ha insediato delle cleptocrazie un po’ ovunque in questi Paesi. E un soldato afgano di Kabul, come un soldato iracheno a Mosul, non ha voglia di morire per difendere un’élite corrotta che esiste solo grazie al sostegno che riceve dagli occupanti stranieri. È una lezione molto più importante della lezione militare di cui parlavo. Non bisogna soltanto farsi la domanda “chi è ISIS?”, bisogna chiedersi perché i 10.000 soldati iracheni non hanno sparato una sola pallottola, e la stessa cosa è successa a Kabul. Un soldato è d’accordo ad avere lo stipendio a fine mese, ma può non essere d’accordo sul fatto di morire per un’élite politica che considera corrotta e cleptocratica.

 

E c’è un terzo livello di analisi, che è quello culturale. La civiltà occidentale è la sola civiltà che si considera universale. La civiltà islamica, al contrario, distingue molto chiaramente tra dār al-Islām e dār al-harb; ci sono i fedeli e gli infedeli. Per la civiltà cinese è la stessa cosa: i cinesi hanno creato una muraglia per difendersi. La civiltà occidentale si è considerata universale parallelamente a Cristoforo Colombo, cioè a una sorta di espansione demografica attraverso il globo, durante gli ultimi cinque secoli. E, a poco a poco, l’uomo bianco si è diffuso dappertutto sulla terra. In America latina, ovviamente, in Asia, ma anche in Medio Oriente, e voi italiani in Libia, in Etiopia, o i francesi in Africa occidentale, in Nuova Caledonia, o gli inglesi in India, in Birmania e altrove… All’inizio del XX secolo l’uomo bianco corrispondeva al 30% dell’umanità ma controllava l’80% delle terre d’oltremare. Ma il XX secolo è stato nefasto per l’uomo bianco, che adesso costituisce appena il 17% della popolazione mondiale e controlla soltanto il 28% del pianeta. Ecco perché il ritiro dall’Afghanistan fa parte di un movimento più profondo, di civiltà, che riguarda il controllo dell’uomo bianco sul pianeta. Non c’è alcun dubbio ai miei occhi che assistiamo a una retrocessione dell’influenza dell’uomo bianco nel mondo. E a un rafforzamento delle forze nazionali e locali. Ma si tratta di un processo molto più lungo e che impiegherà ancora decine e decine di anni.

 

A proposito di civiltà, nel libro di Huntington si prefigurava un’alleanza tra la Cina e il mondo musulmano. Una delle previsioni contenute in quell’opera era «l’asse islamo-confuciano». Secondo lei ci possono essere elementi di verità in questa previsione?

 

Credo che sia la parte più debole del libro. Ho avuto un dibattito con Huntington quando uscì il libro e anche dieci anni più tardi, e glielo avevo detto. Lui me lo ha riconosciuto, non durante la conferenza – eravamo a Davos – bensì in privato, eravamo a cena con sua moglie. In realtà c’è qualcosa di vero in questa tesi, ma per ragioni diverse da quelle che lui propone. Da buon politologo americano, Huntington è ossessionato dalla potenza e dalle alleanze, ma non ha visto un’altra cosa. In realtà, la maggior parte dei Paesi islamici non vuole allearsi con la Cina e i musulmani non hanno molta simpatia per Confucio; peraltro, quello che i cinesi fanno agli uiguri non è molto simpatico, per usare un eufemismo. Ma c’è un altro aspetto, che riguarda quanto ho appena detto a proposito dell’Afghanistan, il fatto cioè che la civiltà occidentale si crede universale, si pensa come universale. Quando c’è stata la Rivoluzione francese, i francesi hanno scritto la dichiarazione dei diritti dell’uomo, in generale, non dei diritti dei francesi. E quando Lenin ha scritto quello che ha scritto pensava al proletariato mondiale. Che sia di destra o di sinistra, o dovunque si collochi, la civiltà occidentale si pensa come universale, quella cinese no. Ciò implica qualcosa di molto particolare: le civiltà che si pensano come universali fanno proselitismo, si credono portatrici di valori universali: i bambini non devono lavorare, ci vuole la parità di genere tra uomo e donna, bisogna concedere i diritti agli omosessuali, serve la democrazia elettiva, l’indipendenza dei giudici, di recente l’indipendenza delle banche centrali, serve questo e serve quest’altro… Sono stato al governo libanese e so di che cosa sto parlando. Le ambasciate americane ed europee venivano tutti i giorni con nuove richieste: “avete scritto una legge sul lavoro minorile?”; “non vorreste promulgare una legge su…” cose di ogni tipo. Perché? Perché l’Occidente pensa di aver scoperto dei valori, che le altre civiltà siano in ritardo e che è non soltanto suo dovere, ma suo diritto, spingerle, anche con la forza, ad accettare dei valori più evoluti. I cinesi non sono così, e nemmeno i musulmani. Ad avvicinare queste due civiltà è il fatto che né l’una né l’altra pensano a imporre agli altri i loro valori. Ovviamente l’Islam vorrebbe che tutti diventassero musulmani, ma mantiene uno spirito comunitario. Se uno non ne fa parte, non è compito dell’Islam dirgli come deve vivere. E per i cinesi… l’ambasciata cinese a Beirut non veniva ogni giorno a scocciarmi sul lavoro minorile, i diritti degli omosessuali, etc. Dunque, per la Siria, o l’Egitto o l’Arabia Saudita, o il Marocco, lavorare con i cinesi è più facile, perché non ti tormentano e non hanno nessuna voglia di cambiare il tuo modo di governare. Cercheranno di prestarti del denaro, per vincolarti a loro, o di insediare una comunità cinese sul tuo territorio, o avere un porto in Algeria o in Grecia, e oggi in Libano, ma ciò non implica alcuna volontà di cambiare il tuo regime politico o il tuo sistema di valori sociali. È questo oggi il grande problema della democrazia occidentale. Gli occidentali si trovano in un dilemma molto difficile. Se rinunciano a esportare i loro valori, saranno molto criticati dalla loro opinione pubblica; se continuano questa crociata dei valori occidentali perdono mercati, basi militari, alleati politici, perché le persone ne hanno abbastanza di questa insistenza dell’Occidente. Oggi l’atteggiamento dei Paesi occidentali è molto ambiguo. Biden, per esempio, ha detto che avrebbe messo i diritti dell’uomo al centro della sua politica estera. Non ho ancora visto nulla di tutto ciò. Macron è andato a stuzzicare al-Sisi in una conferenza stampa dicendogli «Bisogna liberare…», ma in realtà gli ha venduto dei Rafale e delle portaelicotteri… La Germania ha costruito il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia, e la questione Navalny o altre non hanno influito sulle relazioni tra i due Paesi. Per questo che credo che oggi l’Occidente stia attraversando una fase di chiaroscuro, perché si trova in una situazione un po’ strana. Oppure c’è l’estrema destra, e molti governi come quello di Orban, o quello polacco, che chiedono molto chiaramente di applicare Huntington alla lettera, cioè di smetterla di voler irritare gli altri Paesi, e ci sono le élite occidentali figlie dell’Illuminismo, che continuano a volere questa campagna universale. L’Occidente di oggi è destabilizzato da questo problema.

 

Come vede la questione della cancel culture e della “polizia culturale” che si sta diffondendo negli Stati Uniti? Qual è il rapporto tra questo fenomeno e il declino dell’universalità occidentale?

 

Sono rimasto sorpreso, ma felicemente sorpreso, da una frase di Anne-Marie Slaughter, per la quale ho molto rispetto, in un articolo dell’Economist dello scorso agosto. Talvolta le verità più importanti appaiono in una sola frase. Diceva che il futuro della politica estera americana dipenderà oramai dalla composizione demografica della popolazione degli Stati Uniti. Sono cinquant’anni che lavoro sull’argomento e l’equazione non era mai stata formulata in un modo così esplicito. Gli Stati Uniti hanno infatti una relazione molto complicata con la cultura, molto più degli europei. Gli europei hanno una definizione di cultura che non è rigida e non è legata all’identità. Tra il XVII e il XVIII secolo i musicisti viaggiavano tra l’Italia e la Germania e l’Austria senza alcun problema, i pittori si muovevano tra l’Italia, la Francia, l’Olanda, e così via… Negli Stati-Uniti la cultura è stata inglobata molto presto non dalle industrie culturali, come è stato il caso in Europa, cioè dal cinema, dal teatro, dalla musica, ma dall’antropologia. Nelle università americane, quando si pronuncia la parola “cultura” ti mandano al Dipartimento di Antropologia. Quando si dice la parola “cultura” all’università di Torino o di Parigi, ti mandano invece al Dipartimento di Filosofia o a quello di Letteratura. Perché? Perché la parola cultura è stata trasmessa da diversi antropologi tedeschi, che sono emigrati negli Stati Uniti e hanno veicolato una visione della cultura fortemente identitaria. In altre parole, “si appartiene a una determinata cultura”. Prima hanno studiato la minoranza italiana di New York, “Chinatown”, le popolazioni autoctone degli Stati Uniti, in seguito Margaret Mead ha approfondito le culture dell’oceano Pacifico… Il XX secolo americano ha inteso la cultura come un’appartenenza etnica, e non come produzione artistica e intellettuale, e oggi ci troviamo in un vero e proprio vicolo cieco. 

 

Perché? Perché una tale definizione della cultura confonde origine e identità. Con l’origine non si può fingere. Io sono nato libanese e morirò libanese. Anche se vivessi trecento anni all’estero, resterei libanese. Ma la mia identità non è libanese. La mia origine è libanese, ma la mia identità l’ho costruita poco a poco, con la mia professione, intellettualmente, con i miei viaggi, vivendo in altri Paesi. L’identità è qualcosa in costruzione permanente fino alla fine della vita di ognuno. È come una torta millefoglie, sulla quale ogni settimana o ogni anno vengono aggiunti nuovi strati. Per la concezione americana della cultura, origine e identità sono sinonimi. Questo porta in un vicolo cieco. Si è iniziato con i neri, poi con gli italiani, poi con le persone di origine francese, soprattutto in Louisiana e nel Vermont, e poi il fenomeno si è ampliato: le donne, che sono state considerate come una minoranza culturale (il che è assolutamente folle), gli omosessuali, la comunità LGBT, etc… I gruppi hanno cominciato a calcolare se la loro proporzione rispetto alla popolazione era rappresentata correttamente al Senato, al Congresso, nell’amministrazione, nell’esecutivo. Si è entrati in questa logica perché identità e origine si confondono, dunque uno è racchiuso nel recinto del proprio gruppo di origine (come un animale!). È così che si è arrivati alla discriminazione positiva. Quando si è trasmessa quest’idea ai figli dei veterani di guerra, o ai neri, cioè a delle categorie culturali in senso americano, non è più finita. Credo si debba riflettere a fondo su questo.

 

Esattamente come è avvenuto con la parola “Stato”, con la parola “democrazia”, la parola “cultura” ha attraversato molto male l’Oceano, e credo che gli europei non si rendano sufficientemente conto che negli Stati Uniti essa è immediatamente associata all’idea di guerra culturale, cioè di competizione interetnica, e non all’idea di produzione culturale. La cancel culture è una specie di vicolo cieco nel quale gli Stati Uniti si ritrovano e non so se riusciranno a uscirne, anche se gli americani riescono sempre a uscire dalle impasse in cui si cacciano. Non riescono più a interrompere il riconoscimento dei gruppi culturali nel senso che ho specificato. Tra un po’ ci saranno i bassi di statura, quelli più alti etc… che chiederanno una rappresentazione adeguata.

 

La frase di Anne-Marie Slaughter mi ha molto colpito perché trovo che questa febbre, questa malattia “culturalista” non può non avere effetti sulla politica estera.

 

Per tornare all’Europa, alla luce della tensione tra universalità e ritorno alle identità “primarie”, qual è il ruolo che i Paesi europei possono ancora giocare, soprattutto rispetto all’Africa settentrionale e al Medio Oriente? Devono limitarsi a gestire il loro declino o hanno ancora qualcosa da dire?

 

Hanno ancora moltissime cose da dire, ma bisogna sapere quali. Quando ero in Libia, mi telefonavano da Roma e da Parigi per domandarmi come i libici vivevano lo scontro tra Salvini e Macron, e io ho deluso molto i miei interlocutori. Rispondevo loro che i libici non erano nemmeno al corrente di questo scontro. Che cosa gliene importava? C’era l’illusione, sia a Roma sia a Parigi, che il futuro della Libia dipendesse dalla rivalità tra la Francia e l’Italia, mentre io, in realtà, dovevo trattare con attori che erano molto più presenti e avevano un impatto molto più forte sul terreno, cioè la Russia e la Turchia. Ma a Parigi così come a Roma non consideravano né i turchi né i russi. Il problema è che si pensa al XXI secolo con la logica dell’Ottocento. Ma il mondo è cambiato, tanto più che i Paesi non democratici, o non sufficientemente democratici, possono permettersi delle cose che i Paesi europei non possono permettersi: intervenire senza l’autorizzazione del parlamento, ricorrere a migliaia di mercenari… I Paesi europei non possono fare tutto questo. È per questo che serve molta più umiltà. Gli europei devono riconoscere che non sono più i padroni del gioco, ma non bisogna nemmeno arrivare all’estremo opposto, e dire che non c’è più nulla da fare, ciò che è ugualmente ingenuo e falso. La prova: potrò sbagliarmi, ma penso che il momento più importante per la risoluzione della crisi libica del 2020 sia stato quando, dopo sei mesi di lavoro, sono riuscito a riunire una dozzina di capi di Stato a Berlino, che si sono trovati d’accordo su 55 paragrafi. In quell’occasione si è creato un minimo di consenso internazionale sulla Libia per la prima volta dopo il 2011. Su tredici partecipanti al processo, che è durato dall’agosto 2019 al gennaio 2020, c’erano cinque partner europei (l’Unione Europea, l’Italia, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna). Non è un caso. Ero infatti convinto che l’Europa potesse svolgere un ruolo molto importante, ma bisognava aiutare gli europei a definire questo ruolo, perché lo scontro Salvini-Macron mi faceva intuire che non erano in grado di capirlo. Non si è trattato di un’operazione tedesca, ma di un’operazione dell’ONU, anche se la Cancelliera Merkel mi ha aiutato tantissimo, perché da solo non avrei mai potuto far venire Erdoğan e al-Sisi o far stare insieme tutte quelle persone nella riunione preparatoria. Ma un tale consenso internazionale era un’opportunità per l’Europa, per due motivi: anzitutto, perché metteva fine alle rivalità interne all’Europa che talvolta bloccano l’influenza europea in Medio Oriente e nel Nord Africa, in secondo luogo perché definiva il ruolo dell’Unione Europea, che a mio parere dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione dello Stato libico. Né gli americani né i russi né i turchi possono aiutare in questo processo. Non è un processo particolarmente attraente, non è breve, ma credo che l’Unione Europea possa impegnarsi in un progetto di lungo respiro, della durata di dieci, quindici anni, in cui una per una le diverse componenti dello Stato libico vengono ricostruite e consolidate. C’è parecchio da fare, ma non si parte da zero: la National Oil Corporation più o meno funziona, il sistema giudiziario è restato unito, siamo riusciti a riunire i due governi. È più complicato dal punto di vista della polizia, dell’esercito, del parlamento, ma qualcosa è stato fatto, abbiamo aperto la strada costiera, ristabilito le linee aeree tra le diverse città. Non sono però sicuro che il messaggio sia arrivato. Dopo Berlino, ho avuto l’impressione che gli europei non abbiano visto con sufficiente chiarezza questa grande opportunità, la possibilità cioè di contribuire a riconsolidare, riunire e restaurare lo Stato libico. Perché quelle che per l’Europa sono questioni vitali non possono essere risolte senza la ricostituzione di uno Stato libico.

 

Un vostro ex-ministro degli Interni aveva mercanteggiato con i sindaci delle città costiere per fermare l’emigrazione: ma era come prendere un’aspirina! Sei mesi più tardi gli stessi, se uno non li paga, diventano di nuovo trafficanti di migranti. Non si può comprare la lealtà di quelle persone: la si può solo affittare per un periodo. Serve uno Stato libico, servono dei controlli di frontiera libici, serve una polizia libica, serve una marina libica. Tutto ciò non si fa in qualche mese e per questo siamo di fronte a un problema molto serio: il ciclo elettorale delle democrazie occidentali è molto più corto rispetto al tempo che serve per la costruzione di uno Stato nei Paesi della periferia. Perciò se si dice a un politico: «Ho un progetto per te su dieci anni, per costituire una guardia costiera libica davvero forte», questi risponderà «tra dieci anni non sarò più qui, mio caro, grazie lo stesso. Ho bisogno di qualcosa che colpisca l’opinione pubblica la settimana prossima, l’anno prossimo, non tra cinque anni». Ma la formazione di una marina libica necessita di 5-10 anni. L’Europa può giocare un ruolo, ma questo ruolo consiste nel definire chiaramente i suoi interessi vitali nella regione. L’arresto dell’emigrazione, la lotta contro il terrorismo, il mantenimento di un buon livello di scambi economici e finanziari, è tutto necessario. Ma per realizzare questi obiettivi servono interlocutori credibili. Nel caso libico occorre riscostruire lo Stato. E con altri Paesi bisogna non dare l’impressione di un paternalismo fuori luogo. Le élite occidentali faticano a difendere il paternalismo di certi discorsi europei. In questa parte del mondo l’Europa può svolgere un ruolo importante, direi forse più l’Unione Europea che i singoli Paesi europei. Ma questo ruolo deve essere definito e deve avere un respiro ampio. Io spero che questo possa accadere.

 

Anche il suo Paese di origine, il Libano, si trova in una situazione drammatica. Si tratta di una crisi ormai irreversibile o vede possibili vie d’uscita?

 

Credo che il Libano si trovi ormai davanti a due possibilità. Ne ha persa una, che era quella di ricostruire il Libano del passato. Si trova adesso di fronte a due scelte: crollare del tutto, e magari sparire, o ricostituirsi, ma su nuove basi. Tuttavia, una buona parte dei libanesi che ho incontrato quest’estate continua a voler ricomporre un Libano che è morto. Bisogna costituire un nuovo Libano, su basi nuove, il che non vuole affatto dire “sulla base di un’altra distribuzione del potere tra le diverse comunità”. Ci hanno provato a Taef e non ha funzionato. Sono stato tra coloro che hanno redatto l’accordo di Taef e so quello che prevedeva: non era un progetto di riforma dello Stato, ma una ridistribuzione delle competenze all’interno dello Stato per calmare le milizie dell’epoca e fermare la guerra. Si è trattato dunque di uno stopgap [una misura temporanea], non di un progetto costituzionale.

 

Oggi, trent’anni più tardi, il Libano deve riconoscere che una semplice ridistribuzione delle competenze tra le diverse comunità non serve a niente, perché si è arrivati un po’ al modello americano, secondo cui nessuna comunità sarà mai abbastanza soddisfatta dei suoi rappresentanti all’interno dello Stato. Penso che occorra passare a qualcos’altro, senza però pensare a cambiamenti clamorosi, perché i libanesi sono molto conservatori contrariamente a quanto si crede. Penso che si debbano modificare alcune cose dell’accordo di Taef, tanto per cominciare. In questo accordo, per esempio, viene promossa l’idea della deconfessionalizzazione del parlamento. Io sono convinto che sia necessario cominciare piuttosto dal potere esecutivo, bisogna deconfessionalizzare l’amministrazione stabilendo nuove regole di accesso, che devono essere la competenza, l’esperienza, le capacità. In seguito, passare al governo e certamente alla presidenza della Repubblica. Poi, andare a deconfessionalizzare il parlamento, perché in questa fase ci saranno delle comunità che si sentiranno molto fragili e vulnerabili. È necessario lasciar loro la possibilità, attraverso il parlamento, di dire fin dove si può arrivare. Si potrebbe cominciare in questo modo. Si potrebbe cominciare anche permettendo il matrimonio civile e riconoscendolo come qualcosa di assolutamente legittimo, affinché le migliaia e migliaia di matrimoni interconfessionali non siano più delle unioni che vengono celebrate a Cipro e riportate di nascosto in Libano: è vergognoso, inutile ed esclude dalla vita politica una grande quantità di persone. Bisogna inoltre che il Libano assuma un ruolo diverso dal passato. Per lungo tempo, il Libano ha rappresentato l’ospedale degli arabi, è stato l’università degli arabi, i media degli arabi, ma la maggior parte dei Paesi arabi si è dotata di ospedali molto buoni, di università molto buone, e anche di buoni giornali e siti web, e così via. Dunque il Libano non può recuperare questo ruolo. Gli rimaneva un’ultima funzione, quella di banca dei Paesi arabi, ma anche questa è notevolmente venuta meno: si può dire che oggi la maggior parte delle banche libanesi è sulla via del fallimento, anche se il fallimento non è dichiarato. Per questo credo sia urgente elaborare un progetto diverso dalla semplice ridistribuzione del potere tra le comunità, come è stato fatto al momento di Taef. Tuttavia sono un po’ scettico sulla predisposizione dei libanesi a immaginare qualcosa di diverso.

 

Il mondo deve affrontare oggi la questione del cambiamento climatico, che avrà un forte impatto soprattutto nel Medio Oriente. Si tratta di un problema che fa parte delle agende politiche dei Paesi arabi?

 

No, e per due motivi. Innanzitutto, perché i Paesi arabi hanno questioni più impellenti di cui occuparsi. È quasi un programma per ricchi. Chi può permettersi, come l’Europa, di fare la transizione energetica? Chi può permettersi oggi di passare nel giro di dieci-quindici anni a una situazione in cui la quasi totalità delle automobili sono alimentate elettricamente? Come verrà prodotta questa elettricità? Chi ha i mezzi per dotarsi rapidamente di fonti di energia non fossile? Bisogna essere ricchi e la maggior parte dei Paesi della nostra regione non è ricca. Ecco perché vanno ad assistere agli incontri sul tema come invitati esterni, e non si sentono coinvolti. I Paesi arabi ritengono che le loro agende siano già piene di questioni molto più urgenti. In realtà è molto difficile intavolare un discorso su queste questioni e l’ho vissuto in Africa settentrionale e in Medio Oriente. 

 

C’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione. La metà dei Paesi della regione sono produttori di petrolio. Ora, ogni programma sul cambiamento climatico contiene necessariamente una riduzione della domanda di combustibili fossili. C’è dunque un interesse reale dei Paesi produttori di petrolio perché il cambiamento climatico non sia in cima alla lista delle agende politiche. Ecco i due motivi per cui il cambiamento climatico è vissuto come un gioco da ricchi con cui i Paesi mediorientali hanno poco a che fare.  

 

Lei è anche presidente dell’Arab Found for Arts and Culture: in che cosa consiste questo suo lavoro e che cosa pensa della posizione culturale araba in questo momento?

 

Il fondo in quindici anni ha potuto raccogliere circa cinquanta milioni di dollari, ed è questo il mio compito, in quanto presidente. Perché? Perché è ossessionato dalla professionalità. Io non conosco, in quanto presidente, la composizione delle giurie che assegnano i grants [borse], e chiunque nel mio consiglio di amministrazione osi chiedere una cosa del genere viene immediatamente licenziato. Il nostro bilancio è totalmente trasparente e il sistema di selezione è rigorosamente professionale, non politico, non per Paese, basato rigorosamente sulla domanda.

 

Non abbiamo ovviamente i mezzi per accontentare tutti, abbiamo in media 1200 domande ogni anno e noi assegniamo circa 80 borse all’anno, ma sono contento perché i nostri borsisti hanno ricevuto premi al festival di Cannes, al festival del cinema di Berlino, dei primi premi in letteratura, a teatro… Un settore che funziona molto bene è quello dei documentari. L’anno scorso abbiamo ottenuto il primo, il secondo e il terzo posto al festival del cinema documentario del Qatar. Ho dunque l’impressione che il fondo funzioni molto bene. Ciò detto, quando c’è stata l’esplosione al porto di Beirut, il 4 agosto 2020, abbiamo fatto un’altra cosa, qualcosa che di solito non facciamo. Siamo un fondo arabo, che va dalla Mauritania all’Iraq, e i libanesi costituiscono a malapena il 5% dei nostri borsisti. Abbiamo deciso di fare un’attività supplementare e lo staff è stato davvero fantastico perché gli abbiamo chiesto di cominciare a raccogliere fondi per aiutare a ricostruire musei, gallerie, atelier d’artisti, biblioteche e così via. E al-hamdu li-llah siamo riusciti a creare un fondo di solidarietà speciale per gli artisti libanesi, alcuni dei quali avevano perso tutto e avevano bisogno di soldi per sopravvivere. Abbiamo raccolto diversi milioni di dollari e li abbiamo spesi o per la ricostruzione degli atelier, delle gallerie, dei musei, o per il sostegno economico alla vita quotidiana degli artisti perché questi ultimi potessero sopravvivere in una fase difficile.

 

Abbiamo fatto il possibile, abbiamo riparato i nostri uffici, quelli degli altri, e le loro gallerie, ma questo compito ora è terminato, e siamo ritornati ai nostri obiettivi e festeggeremo tra qualche mese il nostro quindicesimo compleanno. La produzione va molto bene, ma sono un po’ preoccupato perché – ma accade la stessa cosa altrove – non è egualmente distribuita tra le varie arti. Il documentario va che è una favola, le installazioni vanno bene, ma il teatro – il teatro ha bisogno, più di ogni altra forma d’arte, di essere sovvenzionato – il balletto, l’opera hanno molte difficoltà. C’è dunque una fioritura artistica, intellettuale e letteraria, ma è diseguale secondo le arti.

 

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