Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:54

Il ricercatore iracheno Hisham al-Hashimi è stato ucciso la sera di lunedì 6 luglio davanti alla sua abitazione a Baghdad da un gruppo di uomini, fuggiti dopo l’agguato. L’assassinio è stato attribuito da più parti alle milizie sciite, per le quali – spiega al-Monitor –  al-Hashimi rappresentava una «spina nel fianco». L’ultimo tweet del ricercatore, in cui questi indicava nei partiti confessionali e religiosi i responsabili delle divisioni della società irachena, sembra confermare questa lettura.

 

Hisham al-Hashimi si era affermato come profondo conoscitore dei gruppi jihadisti tra il 2014 e il 2017, riuscendo a fornire informazioni essenziali alle forze impegnate nella lotta contro ISIS. Tuttavia, come evidenzia Le Monde, dopo la scomparsa dello Stato Islamico come entità territoriale, la ricerca di al-Hashimi si era orientata sulle milizie sciite filo-iraniane, di cui denunciava le continue interferenze nelle attività governative.

 

Nell’ottobre 2019 al-Hashimi aveva inoltre sostenuto le richieste avanzate dai manifestanti e criticato l’estrema corruzione del sistema politico iracheno. I suoi interventi gli sono costati numerose minacce di morte, culminate nel suo omicidio. «Questo assassinio è un colpo mortale per la stessa nazione irachena. Hisham era attivamente impegnato nella riforma del sistema politico» ha affermato Toby Dodge, professore alla London School of Economics.

 

L’uccisione di al-Hashimi rappresenta in modo drammatico la crisi politica e securitaria che l’Iraq sta attraversando e le crescenti tensioni tra i vertici politici e le milizie sciite. Come spiega Foreign Affairs, il primo obiettivo del neo-Primo Ministro Mustafa al-Khadimi è stato quello di riportare la miriade di milizie filo-iraniane sotto il controllo governativo, per ripristinare una sovranità statale gravemente menomata dal potere dei gruppi armati. Tuttavia, i recenti sviluppi mostrano le difficoltà di questo progetto.

 

Lo scorso 25 giugno il Servizio anti-terrorismo iracheno aveva condotto un’operazione contro Kata’ib Hezbollah, una delle maggiori milizie filo-iraniane, arrestando 14 combattenti accusati di programmare un attacco alla Green Zone della capitale. Come fa notare il Middle East Institute, la manovra, voluta da al-Khadimi, ha momentaneamente consolidato la posizione degli apparati di sicurezza statali, ma il Primo Ministro si è ben presto trovato in difficoltà. Dall’annuncio dell’arresto il 26 giugno, 150 miliziani hanno infatti posto sotto assedio la residenza di al-Khadimi per ottenere la liberazione dei compagni. Il Primo Ministro è così dovuto scendere a compromessi, permettendo lo spostamento dei combattenti in un centro di detenzione gestito da un membro stesso di Kata’ib Hezbollah.

 

Le dinamiche che hanno seguito il raid delle forze governative contro la formazione filo-iraniana confermano le preoccupazioni espresse da Hisham al-Hashimi, che vedeva nelle milizie un ostacolo alla stabilizzazione del Paese. Al-Khadimi ha promesso di ricercare e processare i colpevoli dell’omicidio del ricercatore, ma le indagini potrebbero esacerbare le tensioni con le forze sciite, il cui leader ha promesso un’escalation nel caso in cui il Primo Ministro continui a perseguirle, riporta il Washington Post. Benché quindi l’autorità statale tenti d’imporsi sulle milizie, le forze sciite, spesso di concerto con Teheran, agiscono ancora in totale autonomia sul territorio.

 

 

Iran: incendi e sospetti

 

Giovedì 2 luglio è scoppiato un incendio nella struttura nucleare iraniana di Natanz. Il portavoce dell’Agenzia per l’Energia Nucleare Iraniana ha omesso, come riporta la BBC, le cause dell’incidente «per motivi di sicurezza», confermando tuttavia la gravità dei danni.

 

Pochi giorni dopo l’incendio, una fonte anonima interna ai servizi di intelligence ha sostenuto il coinvolgimento israeliano nell’attacco al complesso nucleare. Va notato che l’incendio non è un caso isolato. Nelle ultime settimane c’era già stata infatti un’esplosione al complesso militare di Parchin, seguita da un incendio alla centrale elettrica vicino alla città di Ahvaz e dall’esplosione, nella notte del 10 luglio, di un sito missilistico nei pressi di Teheran.

 

I funzionari israeliani sono stati estremamente vaghi. Da una parte Benny Gantz, Ministro della Difesa Israeliano, ha affermato che «non tutto ciò che avviene in Iran è collegato a noi». Dall’altra, in risposta alle domande riguardo agli incidenti in centri sensibili iraniani, il Ministro degli Esteri Ashkenazi ha affermato che Israele persegue una politica di lungo termine per impedire all’Iran di sviluppare una capacità nucleare, aggiungendo che Israele prende «provvedimenti che è meglio lasciare non dichiarati».

 

Se la serie di incendi ed esplosioni fosse realmente l’attacco di una potenza straniera, per la Repubblica Islamica sarebbe un grave danno di immagine, e questo spiegherebbe perché Teheran non ha immediatamente accusato il Paese guidato da Benjamin Netanyahu. Quali opzioni quindi per Teheran? «Il loro obiettivo è far revocare le sanzioni, non l’escalation militare», sostiene Sima Shine, responsabile del programma Iran all’Institute for National Security Studies, ma «non reagire significherebbe ammettere la propria debolezza». Il rischio, come spiega al-Monitor, è un’escalation tra Israele e Iran nei prossimi mesi, anche se la “pazienza strategica” che stanno dimostrando i vertici iraniani in attesa di un cambio di governo alla Casa Bianca potrebbe congelare le tensioni fino a novembre.

 

 

Il Libano è sull’orlo del baratro

 

Il Coronavirus ha colpito il Medio Oriente in un momento di profonda crisi regionale, caratterizzata da una serie di tensioni settarie, problemi economici e una nuova ondata di proteste popolari.

 

Una delle situazioni più critiche va profilandosi in Libano, dove la combinazione di malfunzionamento statale, default finanziario e crisi sanitaria sta causando conseguenze disastrose. La lira libanese ha perso da ottobre più dell’80% del suo valore e il dollaro statunitense non si trova più nel mercato reale. I prezzi del cibo stanno salendo così velocemente che anche l’esercito ha smesso di acquistare carne la scorsa settimana, mentre il prezzo del pane, l’alimento base della cucina libanese, è cresciuto di un terzo. Un report del World Food Programme pubblicato in giugno ha messo in luce che il 50% dei libanesi teme di non avere sufficiente denaro per i beni alimentari, motivo per cui a Beirut e in altre zone del Paese si sta sviluppando il baratto via social network. Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 60%, e le strade di Beirut si stanno popolando di tutti i lavoratori domestici immigrati che sono stati licenziati per la crisi economica ma non possono rimpatriare per via della pandemia, come ha sottolineato l’Independent.

 

Alle difficoltà economiche si aggiungono gli effetti collaterali di questa proliferazione di crisi nel Paese. Il tasso di suicidi cresce costantemente, in molti casi motivati dall’impossibilità di far fronte alle necessità primarie.

 

Come sottolinea il giornalista libanese Romy Haber, la crisi ha inoltre innescato una graduale e pericolosa erosione della libertà di stampa: «Il Libano è sempre stato un rifugio per giornalisti perseguitati e attivisti nella regione. Oggi, la libertà di parola è sotto attacco e tutte le settimane giornalisti o attivisti vengono convocati per i loro post sui social media».

 

 

In breve

 

La Gran Bretagna ha varato sanzioni per 49 persone e organizzazioni responsabili di abusi dei diritti umani. Tra questi vi sono i funzionari sauditi coinvolti nell’assassinio di Jamal Khashoggi e due generali birmani implicati nelle violenze contro i Rohingya (BBC).

 

L’ultimo rapporto della Commissione d’inchiesta sulla Siria ha messo in luce i crimini di guerra e contro l’umanità compiuti ad Idlib dalle forze del governo siriano e dai gruppi armati sul territorio (UN News).

 

L’organizzazione per i diritti umani yemenita Mwatana ha pubblicato un report che rivela che tutte le fazioni nel conflitto hanno arbitrariamente detenuto e torturato persone in prigioni non ufficiali (Mwatana).

 

I profughi uiguri hanno esortato la Corte Penale Internazionale ad avviare un processo contro Pechino per genocidio e crimini contro l’umanità (New York Times).

 

Istanbul: il Consiglio di Stato turco ha dato il suo assenso alla trasformazione di Aya Sofya in moschea (Ekathimerini).