Nel 2011 sembravano i principali beneficiari delle Rivoluzioni. Dieci anni dopo, movimenti e partiti islamisti si confrontano con il proprio fallimento. Decenni di mobilitazione mostrano che il discorso religioso può funzionare come fattore di contestazione, non per la costruzione di un sistema istituzionale alternativo.

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Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 16:30:57

Nel 2011 sembravano i principali beneficiari delle Rivoluzioni. Dieci anni dopo, movimenti e partiti islamisti fanno i conti con il proprio fallimento. E se la vittoria talebana in Afghanistan è stata interpretata da alcuni come il riscatto dell’Islam politico è solo per effetto di un’illusione ottica. Decenni di mobilitazione religiosa mostrano infatti che il discorso religioso può funzionare come fattore di contestazione, non per l’edificazione di un sistema istituzionale alternativo.

 

L’8 settembre del 2021, una sonante sconfitta elettorale ha messo fine alla decennale esperienza di governo del partito marocchino Giustizia e Sviluppo (PJD secondo l’acronimo francese), giunto al potere nel 2011 sull’onda di una Primavera araba inizialmente propizia alle formazioni d’ispirazione islamica. Anche se non nelle sue proporzioni (il partito è passato da 125 a 13 seggi), l’esito era atteso visto il logoramento cui era stato sottoposto il PJD, costretto a digerire le decisioni della monarchia anche quando queste contrastavano drammaticamente con i suoi orientamenti ideologici. Il boccone più amaro è arrivato nel dicembre del 2020, con la normalizzazione tra Marocco e Israele.

 

Alcuni mesi dopo il rovescio elettorale, l’allora segretario del partito ed ex-primo ministro Saadeddine Othmani ha affermato in un’intervista che «la politica è l’arte del possibile»[1]: un’ammissione sorprendente se si pensa alla storia dell’attivismo islamico da cui Othmani proviene, il cui obiettivo dichiarato era l’utopica edificazione dello “Stato islamico”. Qualche anno prima, era stato il predecessore di Othmani sia alla testa del partito che del governo marocchino, Abdelilah Benkirane, a sconfessare il grande slogan dell’islamismo, affermando che l’Islam era sì la verità, ma non poteva essere considerato “la soluzione”[2].

 

Non è un caso che dichiarazioni come queste escano proprio dalla bocca dei due uomini politici marocchini. La loro biografia è infatti particolarmente rappresentativa della traiettoria di diverse formazioni islamiste, passate dal massimalismo rivoluzionario degli anni ’70 all’accettazione formale delle procedure elettorali e all’integrazione progressiva nei sistemi politici esistenti.

 

Il partito islamista tunisino Ennahda ha seguito un percorso simile, anche se in un contesto istituzionale molto diverso da quello marocchino. Espressione della contestazione religiosa degli anni ’70 e messo fuori legge negli anni ’80, nel 2011 Ennahda ha finalmente ottenuto il riconoscimento legale, vincendo le prime elezioni libere dopo la caduta di Ben Ali e aprendo un decennio di permanenza al centro della scena politica tunisina. Questa lunga traversata è coincisa con un’evoluzione che i sociologi ‘Abd al-Qādir Zghāl e Amāl Mūsā hanno descritto come il passaggio dalla “Fratellanza” alla “tunisizzazione”, cioè dall’appartenenza alle reti pan-islamiche transnazionali al radicamento nella tradizione politica del Paese[3]. Il processo è culminato nel congresso del 2016, quando Ennahda ha annunciato di non riconoscersi più nell’Islam politico e di volersi definire ormai come un partito musulmano democratico. Anche per il partito tunisino, però, l’occupazione delle stanze del potere è andata a detrimento del consenso conquistato in decenni di opposizione all’autoritarismo. Così Ennahda ha finito per incarnare agli occhi di molti tunisini i mali della classe dirigente emersa dalla Rivoluzione del 2011 e il suo leader, Rashid al-Ghannushi, è diventato secondo alcuni sondaggi l’uomo politico più impopolare del Paese[4]. Non è un caso che il colpo di forza con cui nel luglio del 2021 il presidente tunisino Kais Saied ha congelato le attività del parlamento sia stato preceduto da una mobilitazione popolare che ha preso di mira soprattutto le sedi di Ennahda.

 

Il tracollo della Fratellanza musulmana egiziana è avvenuto in modo più drastico e precoce. È stato infatti l’esercito a interrompere la breve esperienza di governo dell’organizzazione islamista. Anche in questo caso però, un anno ai vertici delle istituzioni dello Stato era bastato a compromettere la popolarità degli eredi di Hasan al-Banna, come certificato dalle imponenti manifestazioni antigovernative che avevano preparato il terreno all’intervento militare dell’estate del 2013.

 

Analizzando la situazione dei partiti islamisti dopo la Primavera araba, Wael Saleh e Patrice Brodeur hanno affermato che siamo ormai entrati nell’era del «necro-islamismo», cioè della fase in cui l’islamismo «ha perso ogni forma di legittimità e d’influenza nella società arabo-musulmana, oltre che gli strumenti di mobilitazione e di reclutamento su cui ha fatto affidamento fin dalla sua comparsa»[5]. Si può davvero parlare di morte dell’islamismo, come suggerisce la formula coniata da Saleh e Brodeur? Più volte l’Islam politico è stato dato per finito, ma è sempre riuscito a riemergere dalle sue crisi. Come invito alla prudenza, sarà utile ricordare che il libro di Gilles Kepel sul jihad, sottotitolato nella sua prima edizione “Espansione e declino dell’islamismo”, è uscito esattamente un anno prima dell’attentato alle Torri Gemelle[6].

 

L’illusione talebana

 

Nell’estate del 2021, è bastata la vittoria dei Talebani a risollevare il morale degli islamisti. È stata in particolare l’Unione mondiale degli ulema di Doha, istituzione di riferimento della galassia dell’Islam politico, a farsi interprete di questo sentimento. Pochi giorni dopo la presa di Kabul, l’organizzazione si è congratulata con il popolo afghano per «la partenza delle forze di occupazione», affermando che i «Talebani rappresentano l’Islam e operano per incarnarlo nella vita»[7]. Un membro dell’Unione è stato ancora più esplicito, spingendosi a sostenere che il ritorno dei Talebani segnava «l’inizio dell’ascesa islamica nella politica internazionale»[8].

 

Contestualmente a queste manifestazioni di aperto sostegno, gli ulema collegati a Doha hanno anche incoraggiato i nuovi padroni dell’Afghanistan a dar vita a un governo giusto e inclusivo e a non indulgere in vendette, ma non hanno avuto molto da eccepire quando nei mesi successivi è diventato sempre più chiaro che il movimento talebano stava semplicemente riproponendo le sue visioni del passato e non aveva intenzione né di condividere il potere con altri, né di rivedere le proprie posizioni su temi come la libertà di opinione e i diritti delle donne. Anche al di là di queste considerazioni, la celebrazione con cui è stata accolta la ricostituzione dello Stato talebano evidenzia un paradosso: gli stessi ideologi islamisti che durante la Primavera araba si erano spesi per dimostrare la compatibilità tra governo islamico e democrazia e spiegare che l’Islam sunnita non prevede né incoraggia in alcun modo l’instaurazione di una teocrazia si sono ritrovati a esultare per la rinascita dell’emirato dei Mullah. A questo proposito, sul quotidiano al-Shurūq il politologo egiziano Georges Fahmi ha giustamente notato che i festeggiamenti per la vittoria talebana riflettono l’incapacità dei partiti dell’Islam politico di elaborare un progetto democratico costruttivo[9].

 

La vicenda afghana non solo non annuncia un riscatto islamista, ma mette in luce una tendenza più profonda: impossibilitato a realizzare i propri obiettivi attraverso le istituzioni esistenti e incapace di portare a termine la transizione verso il modello della “democrazia musulmana”, all’Islam politico resta solo la via insurrezionale, la cui efficacia è però limitata ai contesti locali già indeboliti dal collasso delle strutture statali (l’Afghanistan, l’Africa saheliana, Gaza). Sia nella loro forma riformista che in quella massimalista, i movimenti islamisti non riescono infatti a venire a capo del dilemma sottolineato da Kamran Bokhari in riferimento ai Talebani: essere pragmatici e ideologici allo stesso tempo[10]. Le formazioni che, come Ennahda o il PJD marocchino, hanno optato per il pragmatismo hanno finito per appiattirsi sulla preservazione e sulla legittimazione dell’esistente, quasi a confermare la celebre sentenza di Péguy secondo cui «tutto comincia in mistica e finisce in politica»; le forze che, come l’ISIS, hanno invece puntato sulla costituzione qui ed ora dello Stato islamico hanno prodotto soltanto violenza e devastazione.

 

La fine di un’epoca

 

Alla luce di queste considerazioni, possiamo infine affermare che l’Islam politico è effettivamente giunto al capolinea? Per rispondere alla domanda bisogna capire in che misura la storia dei movimenti islamisti, con i suoi alti e bassi, è istruttiva per il presente. Come detto, non sarebbe infatti la prima volta che l’Islam politico appare in ritirata. All’epoca dei regimi arabisti e socialisti, i Fratelli musulmani erano stati messi fuori gioco dalla repressione, finché la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni non ha messo le ali alla “soluzione islamica”; alla fine degli anni ’90, l’islamismo sembrava essere stato superato dalla sua versione post-islamista, quando l’attacco alle Torri Gemelle ha inaugurato vent’anni di cavalcata jihadista.

 

Due differenze significative separano tuttavia questo passato dalla situazione attuale. Innanzitutto è cambiato l’ambiente in cui gli islamisti operano. L’ascesa islamista degli anni ’70 si collocava all’interno di un “risveglio” (in arabo sahwa) a cui hanno partecipato anche gli Stati musulmani. Solo per citare gli esempi più significativi, è stato l’Egitto di Sadat ad aprire lo spazio pubblico ai movimenti dell’Islam politico e a costituzionalizzare la sharī‘a, mentre le letture fondamentaliste dell’Islam beneficiavano in quegli anni dei petrodollari provenienti dal Golfo. In questo senso, la vampata jihadista degli anni 2000 può essere letta come l’onda lunga del processo culturale avviato trent’anni prima. È significativo che prima di diventare “califfo” dell’ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi abbia compiuto parte dei suoi studi all’Università islamica intitolata a Saddam Hussein, il quale, allontanandosi dalle tendenze più secolari del partito Ba‘th, aveva assecondato la crescente domanda di religiosità che emergeva dalla società, principalmente nella forma del salafismo. Oggi l’atteggiamento di molti Paesi musulmani è radicalmente diverso. Lo si vede in Egitto, dove l’islamismo è di nuovo costretto alla clandestinità, ma soprattutto in Arabia Saudita. Riyad aveva già rotto con l’Islam politico al momento della Guerra del Golfo del 1991, quando lo stazionamento delle truppe americane sul territorio del regno aveva suscitato la contestazione dell’attivismo islamico, duramente repressa dalla monarchia. Rimaneva la forte influenza del clero wahhabita, che in cambio del suo quietismo politico ha continuato a godere per diversi anni di una sorta di diritto di tutela sullo spazio sociale. È stato il principe ereditario Muhammad bin Salman a operare la seconda rottura, avviando una rivoluzione nei costumi che ha messo al margine anche i custodi della rigida disciplina wahhabita. Nel suo celebre libro sul Fallimento dell’Islam politico (L’échec de l’Islam politique), Olivier Roy scriveva che lo spazio islamizzato, tipico delle società musulmane degli anni ’80, era uno spazio «sonorizzato»[11], al cui centro si trovava la moschea con i suoi altoparlanti. Se così è, le recenti limitazioni all’amplificazione della preghiera decisa in Arabia Saudita chiudono simbolicamente l’epoca della sahwa[12].

 

In secondo luogo, non è al momento chiaro con quale progetto politico potrebbero rilanciarsi i movimenti islamisti. A differenza degli anni ’70, quando lo “Stato islamico” e la “soluzione islamica” avevano il fascino di una promessa salvifica, oggi i musulmani sanno in che cosa consiste l’islamismo realizzato. E nessuna delle sue versioni, dal brutale Califfato dell’ISIS al più rassicurante “Stato civile a riferimento islamico” dei Fratelli musulmani egiziani, passando per la Repubblica Islamica dei Mullah iraniani o l’emirato talebano, conserva l’attrattiva del passato. Resta, come si è visto, la possibilità dei fronti islamisti o jihadisti locali, che prosperano cavalcando il malcontento della popolazione ma senza proporre una rifondazione palingenetica della società.

 

Oltre a essere delegittimato politicamente, l’Islam politico arranca anche sul piano speculativo. Ragionando sugli islamisti dopo le Rivoluzioni arabe, lo studioso pakistano-statunitense Ovamir Anjum suggeriva che il loro fallimento andasse ricercato in un deficit intellettuale riscontrabile sia a livello dell’infrastruttura organizzativa che del discorso ideologico, indipendentemente dai contesti in cui essi si erano trovati a operare[13]. Anjum riconduceva questa caratteristica all’anti-intellettualismo e al pragmatismo del fondatore della Fratellanza musulmana Hasan al-Banna. Neppure la riflessione più sistematica portata avanti a partire dagli anni ’80 da una nuova generazione di ideologi, determinati ad armonizzare Islam, Stato nazionale e democrazia, è riuscita a dotare i movimenti islamisti degli strumenti teorici adeguati a guidare i processi di cambiamento politico. Anche lo studioso americano Andrew March, che a differenza di altri studiosi ha preso molto sul serio la riflessione di questi pensatori, ha riconosciuto che la loro idea di “democrazia islamica” rimane un modello puramente teorico di governo[14].

 

La rifondazione necessaria

 

È interessante notare che quasi cinquant’anni prima, lo storico di origine palestinese Hisham Sharabi aveva criticato con argomenti molto simili a quelli di Anjum i riformisti islamici di fine Ottocento, incapaci a suo avviso di «elaborare categorie efficaci per la comprensione dell’azione e della motivazione politica»[15]. Non si tratta di un accostamento casuale. L’islamismo è infatti l’erede del riformismo che aveva cercato di rispondere alle sfide poste dalla modernità, non riuscendoci del tutto secondo Sharabi. Ciò significa che l’Islam politico, se vorrà avere un futuro che non sia di pura contestazione, non potrà limitarsi a qualche aggiustamento tattico, ma dovrà ripensare i propri fondamenti, affrontando questioni irrisolte, come quella della libertà religiosa, e sviluppando una visione più articolata delle società arabe contemporanee e dei loro problemi.

 

 

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[1] Si veda https://twitter.com/Elotmanisaad/status/1470019284457992193

[2] Si veda Bilāl al-Talīdī, Murāja‘āt ‘Abd al-Ilāh Benkirān wa’l-qatī‘a ma‘ al-barādīghm al-harakī (2/2), «‘Arabī21», 6 dicembre 2021, https://bit.ly/3uS10Mo

[3] ‘Abd al-Qādir Zghāl, Amāl Mūsā, Harakat al-Nahda bayn al-Ikhwān wa’ l-tawnasa, Cérès Éditions, Tunis 2014.

[4] Mohamed Khalil Jelassi, Sondages et baromètres politiques : Rached Ghannouchi, l’éternel impopulaire !, «LaPress.tn», 2 giugno 2021, https://bit.ly/3v3BCn7

[5] Wael Saleh, Patrice Brodeur, L’islam politique à l’ère du post-printemps arabe, L’Harmattan, Paris 2017, p. 165.

[6] Gilles Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Gallimard, Paris 2000. Nella sua edizione del 2003 il sottotitolo è stato semplicemente rimosso.

[7] https://iumsonline.org/ar/ContentDetails.aspx?ID=20928

[8] Si veda Chiara Pellegrino, La vittoria talebana galvanizza gli islamisti, Fondazione Internazionale Oasis, 10 settembre 2021, https://bit.ly/3Eryt3o

[9] Jūrj Fahmī, Al-Ihtifāl bi ‘awdat Tālibān dalīl jadīd li-azmat al-Islām al-siyāsī, «Al-Shurūq», 20 settembre 2021, https://bit.ly/3KWHBiW

[10] Kamran Bokhari, Threatened by ISIS, the Afghan Taliban May Crack Up, «The Wall Street Journal», 27 agosto 2021, https://on.wsj.com/3KZQPLs

[11] Olivier Roy, L’échec de l’Islam politique, Seuil, Paris 1992, p. 115.

[12] Chiara Pellegrino, L’Arabia Saudita abbassa il volume alle moschee. Perché è una notizia, Fondazione Internazionale Oasis, 28 giugno 2021, https://bit.ly/3uTlbcE

[13] Ovamir Anjum, Do Islamists Have an Intellectual Deficit?, in Shadi Hamid & William McCants, Rethinking Political Islam, Oxford University Press, New York 2017, pp. 300-307.

[14] Andrew March, The Caliphate of Men. Popular Sovereignty in Modern Islamic Thought, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2019, p. 221.

[15] Hisham Sharabi, Arab Intellectuals and the West. The Formative Years, 1875-1914, The John Hopkins Press, Baltimore-London 1970, p. 49.

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