L’esodo, la rottura, l’atto di conversione: il cristianesimo comincia così. Ma la rivoluzione portata dalla persona di Gesù non è mai distruttiva. Essa piuttosto trasforma le culture, essendo essa stessa cultura.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:49

Abbiamo discusso l’essenza della cultura e le condizioni che permettono l’incontro delle culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di nuove forme culturali. Dall’ambito dei principi dobbiamo ora avventurarci in quello dei fatti. Ma prima riassumiamo i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci che cosa può unire le culture in modo che non siano solo superficialmente accostate l’una all’altra, ma il loro incontro diventi occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo che può unire le culture non può essere altro che la verità partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in gioco la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso. Una cultura, più è umana più è grande, più esprimerà la verità che in precedenza ignorava più sarà capace di assimilare la verità e sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo punto, la speciale comprensione che la fede cristiana ha di se stessa diventa manifesta. La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa benissimo che nelle sue espressioni culturali particolari c’è all’opera una buona parte di umano, molto del quale necessita di essere purificato e aperto. Ma la fede cristiana è anche certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è redenzione. Infatti la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che rende false le nostre azioni e ci getta l’uno contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, sradicati dalla radice del nostro essere, che è Dio. La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità. Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando questo si verifica l’opposizione tra le culture può diventare complementarietà poiché ogni cultura, fondata su un comune metro di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari. Questo è il grande mandato col quale la fede cristiana è venuta al mondo; esso sottolinea l’intimo obbligo di condurre tutti i popoli alla scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in persona e quindi la via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la legittimità del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto. Chiediamoci ora: quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le culture del mondo? Primo, possiamo dire che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura. La parola “fede” non è un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e una fusione interculturale nella quale essa ha formato un organico sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se stesso, i suoi vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in se stessa, una vivente comunità culturale, che noi chiamiamo "Popolo di Dio". Il carattere storico della fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da questo concetto. Ciò significa forse che la fede si pone come una cultura fra le altre, così che uno debba scegliere se appartenere a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? Non è così. A questo punto appare evidente ciò che è specifico e proprio di una cultura. Il soggetto culturale "Popolo di Dio" differisce dalle culture classiche: queste sono definite dalla tribù, dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo di Dio esiste in diverse culture che dalla loro parte, anche per quanto riguarda il cristiano, non cessano di essere la prima e non mediata cultura. Anche come cristiano, un uomo non cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel mondo pre-cristiano, anche nelle grandi culture dell’India, Cina e Giappone, l’identità e l’indivisibilità del soggetto culturale rimangono. Una doppia appartenenza è impossibile con l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture come una sorta di principio interno. Ma la doppia appartenenza culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così che l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura storica e quella nuova della fede: ambedue lo permeano. Questa interazione non porterà mai ad una sintesi compiuta, poiché essa include la necessità di continui sforzi verso la riconciliazione e la perfezione. Sempre di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità e l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico, ma precisamente del Popolo di Dio che abbraccia tutti gli uomini. D’altra parte, sempre di più quanto è posseduto in comune dev’essere ricevuto nel particolare e vissuto o anche sofferto nella storia concreta. Da tutto questo deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la cultura è un problema della storia di ogni singolo paese (Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede, per parte sua, è alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo culturale per esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in culture prese a prestito, le quali rimangono alla fine in qualche modo esterne ad essa e corrono il rischio di essere rigettate. Soprattutto, una forma culturale presa in prestito non potrebbe parlare a chi vive in un’altra cultura. Così l’universalità diventerebbe, alla fine, fittizia. Questo modo di pensare è, nella sua radice, manicheo. La cultura è svilita, diventa un guscio intercambiabile, e la fede è ridotta ad una realtà spirituale disincarnata, di fatto priva di realtà. Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica. La cultura è ridotta ad una pura forma e la religione a mero sentimento inesprimibile o a puro pensiero. Si perde la feconda tensione che dovrebbe caratterizzare di per sé la coesistenza di due soggetti. Se la cultura è più di una pura forma o principio estetico, se essa è piuttosto l’ordinamento di valori in una forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di Dio, allora noi non possiamo evitare che la Chiesa sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale. Questo soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun altro soggetto culturale e storico, anche in tempi di apparente piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta nell’Europa del passato. Piuttosto, la Chiesa mantiene, significativamente, la sua forma culturale come un arco, una volta al di sopra di tutte le altre culture. Se le cose stanno così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra cultura fino a quel momento ad essa estranea, non si tratta di dissolvere la dualità delle culture a vantaggio dell’una o dell’altra. Entrare in una cristianità spogliata del suo carattere umano, al prezzo della perdita della propria eredità culturale, sarebbe un errore; come lo sarebbe una rinuncia alla fisionomia culturale della fede. La tensione è vivamente fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e sana la cultura. Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare se stesso della sua forza storica e ridursi ad un vuoto contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che già nel Nuovo Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale, storia di accettazione e di rifiuto, di incontro e di cambiamento. La storia della fede in Israele, che è stata assunta dal cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le culture egiziana, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca. Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni, totalizzanti forme storiche di modi di vivere. Israele, con sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con Dio e con i grandi profeti, così da preparare un vaso più puro per la novità della rivelazione dell’unico Dio. In questo modo, quelle altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione: esse sarebbero scomparse nel lontano passato se non fossero state purificate ed elevate nella fede della Bibbia, raggiungendo così la loro permanenza. In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: «Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre» [Gen 12,1]: incomincia con una rottura culturale. Questa rottura con la storia precedente, questo andare oltre, segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della fede. Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante che crea un nuovo centro capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. «Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini» [Gv 12,31]: queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra; ma proprio per questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini divisi. Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa introduce nel Popolo di Dio e nella sua storia. Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no. Noi non possiamo, per accontentare noi stessi, replicare l’avvenimento dell’incarnazione nel senso di rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col suo vero corpo. Ma Egli ci attira a sé. Questo significa che, poiché il Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma è tratto da tutti i popoli, allora la sua stessa primaria identità culturale, nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non solo questo. La prima identità è necessaria per permettere all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua pienezza. La tensione dei molti soggetti nell’unico soggetto appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e intimo dinamismo della storia, che si sviluppa sotto il segno della Croce, cioè deve sempre lottare contro le spinte contrarie della chiusura mentale e del rifiuto. […] Bisogna trovare una via di incontro autentico di culture e religioni, caratterizzato non dalla perdita di fede o di verità ma da un più profondo contatto con la Verità, che renda possibile dare a tutto ciò che è maturato in passato il suo pieno e profondo significato. Questa sintesi di verità non può essere inventata a tavolino, altrimenti non supera lo status di filosofia o di pura teoria. Piuttosto è indispensabile un processo di fede vissuta, che crei la capacità di incontro nella verità e così, come dice il Salmo, «porre le cose in un vasto spazio» [31,9]. Ma naturalmente questo processo deve essere guidato e ordinato all’intelligenza della fede. […] I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per attingere i retti principi: essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo e con le locali filosofie della religione. Infatti, sebbene la fede negli dèi e quindi il significato immediato degli antichi culti si fossero disintegrati, erano state concepite nuove giustificazioni filosofiche delle religioni pagane, che mostrano caratteristiche molto simili alle filosofie della religione del nostro secolo, per esempio a quella di Radhakrishnan. Citerò soltanto due esempi notevoli. Il primo ce lo presenta il retore romano Simmaco (ca. 345-402), che difese appassionatamente la preservazione dell’antica religione romana. Egli divenne famoso soprattutto per la sua richiesta a Cesare di reinstallare la statua della dea Vittoria nel Senato romano. La frase chiave del suo memorandum contenente la richiesta recita: «uno itinere non potest veniri ad tam grande secretum» - non si può accedere a un così grande mistero per un’unica strada. Questa frase è una classica espressione dell’idea romana di religione: il mistero divino è così grande che nessuna via umana può esaurirlo, nessuna religione può circoscriverlo. Può essere accostato solo da lati diversi e deve essere rappresentato in varie forme. ¬Simmaco non voleva abolire il Cristianesimo, voleva soltanto integrarlo nella sua concezione di religione. Il Cristianesimo doveva imparare a considerare se stesso come un modo di vedere, cercare e parlare di Dio riconoscendo che ci sono altri modi. Anche il Cristianesimo non può pretendere di esaurire il grande mistero. Ma è l’imperatore Giuliano l’Apostata (332-363) che forse può farci capire tutto ciò ancora meglio. Egli voleva nuovamente sopprimere l’”intollerante cristianesimo” e ristabilire gli antichi culti, collocando come fondale la filosofia neoplatonica. Giuliano criticava l’Antico Testamento e la fede cristiana dallo stesso punto di vista di Simmaco. La sua principale critica al Cristianesimo e la sua decisa obiezione all’Ebraismo riguardavano il primo comandamento: «Tu non avrai altri dèi di fronte a me». Egli non poteva e non voleva ammettere l’unicità dell’unico Dio: anche il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo, era per lui soltanto una manifestazione del divino, che non esauriva il "grande mistero". Per questo motivo, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio dei cristiani, doveva tollerare altri dei accanto a sé. Per questa ragione, il Nazareno non poteva essere riconosciuto come il Logos incarnato, l’unico mediatore per tutta l’umanità. Nella polemica con il politeismo filosofico illuminato, i Padri della Chiesa hanno individuato i fondamenti della fede biblica: relativizzarli significa annullare questa fede e privarla della sua identità. Ciò che resterebbe dopo l’abbandono di essi sarebbero elementi selezionati di tradizione biblica, ma non la fede della Bibbia in quanto tale. Tenterò brevemente di indicare questi elementi fondamentali che i Padri hanno derivato dalle Sacre Scritture. a. Il primo grande comandamento è allo stesso tempo il primo articolo di fede e il principio fondante di identità della fede: «Il Signore, nostro Dio, è un solo Signore». Tutti gli "dèi" non sono Dio. Pertanto solo l’unico Dio può essere adorato nella verità; adorare altri dèi è idolatria. Senza questa fondamentale decisione non c’è Cristianesimo. Dove essa è dimenticata o relativizzata, ci si trova fuori dalla fede cristiana. Cristologia, ecclesiologia, adorazione e sacramento possono essere correttamente trattati solo quando esiste questa decisione. Il Cristianesimo rivoluzionò il mondo antico con questa confessione di fede, quel mondo antico che aveva preso le mosse dal principio esattamente opposto, nuovamente formulato dall’imperatore Giuliano alla fine dell’antichità. Certamente l’unico Dio non è un tema sconosciuto nella storia della religione. In realtà si può dire che la grande maggioranza delle religioni lo riconoscono; da qui esse deducono che gli dèi non rappresentano la potenza ultima, ma solo potenze relative. In generale le religioni sono anche coscienti che gli "dèi" non sono "Dio". Nello stesso tempo, l’unico Dio è spesso privo di culto, o almeno di importanza a livello di culto, poiché è troppo lontano dalla vita dell’uomo. Pertanto le pratiche cultuali sono indirizzate agli dèi; e per questo nelle religioni Dio è spesso nascosto quasi interamente dietro gli dèi per quanto attiene a tutti gli aspetti pratici. La fede cristiana è consistita, per il mondo mediterraneo e poi ancora per l’America Latina e per l’Africa, in una liberazione dagli dèi perché ora l’unico Dio si è mostrato ed è diventato il «Dio con noi». Le parole essenziali con le quali Gesù rigetta Satana, il tentatore dell’umanità, sono: «Adorerai il Signore Dio tuo e Lui solo servirai» [Mt 4,10; Lc 4,8; Dt 5,9; 6,13]. Senza l’accettazione di questo comando non ci si può collocare dalla parte di Gesù Cristo nella religione professata dalla Bibbia. b. L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto. La Bibbia e il linguaggio dei Padri chiamano "conversione" (metànoia) la necessaria decisione. Una teologia che omettesse il concetto di conversione trascurerebbe la categoria decisiva della religione biblica. La fede cristiana è un nuovo inizio, e non semplicemente una nuova variante culturale di una strutture religiosa sempre in via di sviluppo. Per questo motivo i Padri sottolineavano con enfasi la novità del Cristianesimo. L’atto della conversione è essenziale alla speciale comprensione della verità dei cristiani. In un grande numero di religioni, come abbiamo visto, la realtà del Dio unico non è certamente sconosciuta, ma questo Dio unico rimane troppo distante. Il suo mistero è inaccessibile. Così i contenuti concreti della religione possono essere solo di natura simbolica; essi non sono la verità, ma manifestazioni parziali al di là delle quali sono possibili altre manifestazioni. La fede cristiana riconosce nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo, l’unico vero Dio, la Verità stessa che si manifesta. Pertanto la conversione cristiana è nella sua essenza fede nel fatto della rivelazione di Sé che la Verità attua. Mentre il mistero non è per questo abolito, il relativismo è invece senza dubbio escluso, poiché esso separa l’uomo dalla verità facendone uno schiavo. La reale povertà dell’uomo consiste nell’oscurità rispetto alla Verità. Egli diventa libero per la prima volta quando è obbligato a servire la sola Verità. Tuttavia un altro punto è importante in questa riflessione. I Padri hanno anzitutto enfatizzato con molto vigore il carattere della conversione come decisione, e di conseguenza il carattere della fede come esodo. Una volta garantito questo punto, hanno sempre più sottolineato un secondo aspetto: che la conversione è trasformazione, non distruzione. La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma. Sulla base di questa intuizione, i Padri sempre più si opposero all’iconoclastia di fanatici cristiani dalla visuale ristretta. I templi non furono più smantellati, ma trasformati in chiese. La profonda continuità fra le religioni e la fede cristiana divenne visibile. Essa condusse alla resurrezione del meglio delle antiche religioni. Non fu una filosofia della religione relativistica che diede ad esse esistenza continuata - in realtà, proprio questa filosofia in un primo momento le aveva rese inutili. La fede diede alle religioni lo spazio in cui la loro verità poté svilupparsi e dare frutti. Entrambi gli aspetti dell’atto di conversione sono importanti; ma solo dopo che è stato compiuto il primo passo, cioè la svolta decisiva verso l’unico Dio, può seguire il secondo, la conservazione trasformante. c. Il mistero di Gesù Cristo può essere compreso solo in questo contesto del primo comandamento e dell’atto di conversione che esso esige. Per Gesù, che non abolì l’Antico Testamento ma lo portò a compimento, il primo comandamento rimase il fondamento di ogni ulteriore realtà; lo shema Israel costituì il contenuto che sta alla base della fede: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un solo Signore». Oso sostenere che la centralità di questo passo per tutta la letteratura dell’Antico Testamento è anche la ragione essenziale del posto unico che l’Antico Testamento tiene nella fede cristiana. Poiché l’intero Antico Testamento è costruito attorno a questa singola frase, per questo motivo esso rappresenta un "canone" per i cristiani, quindi Sacra Scrittura. Solo per questa ragione esso rende testimonianza a Gesù, e viceversa. Gesù è la chiave all’Antico Testamento perché egli rende concreta questa frase nella sua stessa carne. […] Nelle sue lettere dalla prigione Paolo sviluppa il significato cosmico di Cristo e così dischiude per noi una cristologia “inclusiva” nel senso di quanto abbiamo prima detto a proposito dalla conversione. La fede in Gesù Cristo diventa un nuovo principio di vita e dischiude un nuovo spazio di vita. L’antico non è distrutto, ma trova la sua forma definitiva e il suo pieno significato. Questa conservazione trasformante, praticata dai Padri in modo splendido nell’incontro fra la fede biblica e le sue culture, è il contenuto reale dell’"inculturazione", dell’incontro e dell’interfecondazione di culture e religioni sotto il potere di mediazione della fede. È qui che si collocano i grandi compiti dell’attuale momento storico. Senza dubbio la missione cristiana deve capire ed accogliere le religioni in un modo molto più profondo di quanto abbia fatto fino ad ora. D’altra parte, le religioni, per vivere in modo autentico, devono riconoscere il loro proprio carattere messianico che le sospinge in avanti verso Cristo. Se procediamo in questo senso verso una ricerca interculturale di indizi dell’unica verità comune, scopriremo qualcosa di inatteso: gli elementi che il Cristianesimo ha in comune con le antiche culture dell’umanità sono più grandi di quelli che esso ha in comune col mondo razionalistico-relativistico. Quest’ultimo ha tagliato i ponti con le fondamentali intuizioni comuni che sono di sostegno all’umanità e ha condotto l’uomo in un vuoto esistenziale che lo minaccia di rovina se non giungerà una risposta. Infatti la conoscenza della dipendenza dell’uomo da Dio e dall’eternità, la conoscenza del peccato, della penitenza e del perdono, la conoscenza della comunione con Dio e con la vita eterna, e infine la conoscenza dei precetti morali fondamentali come hanno preso forma nel Decalogo, tutta questa conoscenza permea le culture. Non è certo il relativismo a trovare conferma. Al contrario, è l’unità della condizione umana, l’unità dell’essere-uomo che è stata toccata da una verità più grande di lui. [Joseph Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, in «Nuova Umanità» 16 (1994) n° 6, 95-118 passim].

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