Dalla conferenza di Qamishli alla dichiarazione di Öcalan, i curdi ridisegnano il loro ruolo in un Medio Oriente in transizione
Ultimo aggiornamento: 07/07/2025 12:52:26
Intervista a Hamit Bozarslan, esperto della questione curda, di Chiara Pellegrino
Lo scorso marzo, il presidente siriano Ahmed al-Sharaa ha annunciato un accordo storico con i curdi per integrare le istituzioni civili e militari del Rojava all’interno dello Stato siriano. Oggi, però, le due parti offrono letture profondamente divergenti di quanto stabilito dall’accordo. Che cosa sta succedendo esattamente?
È difficile dire con precisione che cosa stia accadendo perché la situazione resta incerta. Sicuramente la Turchia voleva l’eliminazione del Rojava, ma oggi questo progetto è sospeso per tre ragioni principali: l’incapacità di Ankara di intervenire militarmente, la presenza israeliana sul campo e l’estrema fragilità della Siria. Le nuove autorità siriane, che non sono state scelte dal popolo e non dispongono di una base sociale solida, non sanno bene che cosa riserva loro il futuro. Sanno però che non devono lanciarsi in una guerra contro i curdi. HTS (Hayat Tahrir al-Sham) è molto debole: è stato nominato da diciotto milizie, quindi non gode di un vero sostegno popolare, ed è stato incapace di prevenire o fermare i massacri degli alawiti. Sembra aver abbandonato la logica jihadista, ma non ha rinunciato al progetto di un emirato islamico. Al momento, HTS non è in grado di dissolversi per permettere l’emergere di uno Stato legale e strutturato. Dall’altro lato, i curdi controllano attorno al 30% del territorio siriano e dispongono di un esercito composto da circa 60.000 combattenti, tra uomini e donne. C’è poi la presenza americana e israeliana sul campo. La Siria è devastata e ha bisogno di almeno 500 miliardi di dollari per la ricostruzione, una somma che né la Turchia né il Qatar sono in grado di dare. Il Qatar ha contribuito con 26 milioni di dollari, ma sarà necessario reperire ulteriori risorse, che potranno arrivare solo dall’Europa e, in parte, dagli Stati Uniti. In questo contesto, si è instaurato uno status quo. Questo è piuttosto positivo per i curdi, perché permette loro di consolidare le loro istituzioni e i rapporti intra-curdi. Oggi il Rojava è fondamentale, tanto per il futuro del Kurdistan quanto per quello di una Siria pacificata.
Il 26 aprile scorso, Qamishli ha ospitato un evento molto importante, la Conferenza nazionale curda. All’incontro hanno partecipato i rappresentanti curdi provenienti dalla Siria, dalla Turchia e dall’Iraq con l’obiettivo di definire una visione politica comune e creare un fronte unito. Qual è il significato di questo evento nel contesto regionale attuale e quali i risultati concreti?
È un evento dalla portata gigantesca, il cui principale successo risiede nel fatto stesso che abbia potuto avere luogo. Osservando il Kurdistan iracheno e quello siriano si notano delle traiettorie simili: i curdi dell’Iraq hanno conosciuto un doppio processo di re-irachizzazione e re-kurdistanizzazione. Oggi, i curdi siriani seguono lo stesso percorso: cercano di reintegrarsi in Siria e al contempo di affermare la loro appartenenza al Kurdistan. In questo contesto, la conferenza di Qamishli rappresenta una tappa fondamentale, perché esprime una doppia richiesta di riconoscimento: da un lato, nei confronti della Siria – siamo curdi siriani –, dall’altro, verso l’insieme del Kurdistan – siamo curdi in tutta la nostra pluralità, con le nostre contraddizioni e tensioni. Non siamo uniti né siamo un blocco omogeneo, ma al tempo stesso è proprio in questa pluralità e conflittualità che si radica la nostra esistenza come soggetto collettivo –. Bisogna poi sottolineare che questa conferenza non sarebbe stata possibile senza la recente normalizzazione delle relazioni tra curdi siriani e curdi iracheni. Fino a sei mesi fa nessuno avrebbe immaginato il leader militare curdo siriano andare in elicottero a Erbil per incontrare Masoud Barzani. Infine, il congresso non si è svolto nella clandestinità, ma si è tenuto pubblicamente, con la partecipazione di 400 persone, sotto lo sguardo della Turchia e della Siria. Al di là delle risoluzioni adottate, è il fatto stesso che questo incontro abbia avuto luogo a segnare un importante passo avanti sul piano politico.
La dichiarazione finale, tra le altre cose, invoca la nascita di un’identità nazionale inclusiva, che tenga conto di tutte le componenti della società. La realtà siriana però non sembra andare in questa direzione: si sono verificati degli scontri con gli alawiti sulla costa siriana e negli ultimi mesi è riemersa la questione drusa…
Sono convinto che Ahmed al-Sharaa abbia rinunciato al progetto jihadista, ma non ha abbandonato la sua ambizione a fondare un emirato islamico, che si vuole profondamente confessionale. Al-Sharaa proviene dalla tradizione salafita e considera gli alawiti eretici da eliminare, e i drusi apostati, anch’essi votati allo sterminio. Paradossalmente, i cristiani si trovano in una posizione migliore perché sono un «Popolo del Libro», a condizione però che si sottomettano. Alla luce di tutto ciò, non c’è spazio per una vera pluralità. Va detto però che questa deriva si inserisce in una storia più lunga: già il potere di Assad aveva confessionalizzato la Siria. Pur non essendo stato espressione diretta della comunità alawita, il nocciolo duro del suo regime proveniva evidentemente da questa minoranza. Oggi, il nuovo potere non sembra voler rompere con questa logica, ma piuttosto ribaltarla, trasformandola in una sorta di vendetta di Stato contro gli alawiti e di rifiuto dei drusi. La situazione è molto grave. I curdi, da un lato, sono costretti a negoziare con Damasco, ma dall’altro sottolineano che la Siria di domani non può essere un Paese sunnita e arabo. Essa dovrà essere plurale: araba e curda, sunnita, alawita, drusa, sciita, cristiana e aperta anche ai non credenti. Oggi, infatti, una parte importante dell’intellighenzia siriana non si riconosce in alcuna religione.
Si può dire che la caduta di Bashar al-Assad abbia riconfigurato la questione curda?
Sì, l’ha riconfigurata radicalmente. Prima della caduta di Assad, i curdi venivano accusati di collaborare con il regime. Eppure, sappiamo che, quando il regime di Damasco era in pericolo ad Aleppo, i curdi si sono rifiutati di salvarlo. Questa decisione ha di fatto facilitato la presa di Aleppo, e poi di altre regioni, da parte di HTS, e ha, al tempo stesso, aperto la strada a una nuova dinamica, rendendo possibili i negoziati tra curdi siriani e iracheni e favorendo un riavvicinamento strategico tra le due parti. In questo nuovo scenario, la questione curda ha riacquistato una certa legittimità agli occhi dell’Europa e in parte degli Stati Uniti.
Israele, da parte sua, non è all’origine della caduta di Assad: l’obiettivo di Tel Aviv era il suo indebolimento, non la sua eliminazione. Il crollo del regime ha colto di sorpresa Netanyahu. Oggi, Israele ha una presenza reale sul campo. Fino a sei mesi fa i curdi non avrebbero osato ammettere pubblicamente di avere rapporti con Israele. Oggi, invece queste relazioni sono alla luce del sole.
Neppure Ankara è all’origine della caduta di Assad. Erdoğan non pensava che il regime fosse così profondamente indebolito. Questa situazione, però, priva la Turchia di una leva importante. Erdoğan vuole ancora distruggere il Rojava: lo scorso dicembre, le forze turche hanno lanciato numerosi attacchi contro la regione curda, sospesi in seguito a segnali di stop provenienti verosimilmente dagli Stati Uniti e da Israele. Oggi sembra che Erdoğan abbia compreso che non può assumersi la responsabilità di una nuova guerra in Siria. Dunque, sì, la caduta di Bashar al-Assad ha riconfigurato profondamente la questione curda.
Quali rapporti legano i curdi siriani al PKK?
I curdi siriani sono impegnati nel doppio processo di re-sirianizzazione, per reinserirsi nel quadro nazionale siriano, e di re-kurdistanizzazione, per porsi in collegamento con gli altri curdi della regione. Questa dinamica non è nuova, ma riflette la natura stessa della questione curda. Da un lato, esiste un’unica questione curda che si sviluppa su scala regionale. Dagli anni ’20 e ’30 del Novecento, i curdi hanno elaborato gli strumenti di una coscienza nazionale: un immaginario comune, una cartografia condivisa, una rilettura della loro storia, la bandiera. I movimenti curdi non sono mai stati bloccati dalle frontiere. Paradossalmente, questo processo di unificazione simbolica è andato rafforzandosi man mano che i curdi venivano divisi dai confini degli Stati. Dall’altro lato, da ormai cento anni ci sono quattro realtà statali diverse: la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. Esistono pertanto sia elementi unificatori molto forti nelle quattro parti del Kurdistan, sia elementi di differenziazione molto marcati. Ogni volta che c’è stato un movimento importante in un Paese, vi hanno sempre partecipato anche gli altri curdi. Ad esempio, nel 1946, la Repubblica autonoma curda di Mahabad, in Iran, ricevette il sostegno di truppe curde provenienti dall’Iraq. Analogamente, alla rivolta curda in Iraq del 1961 parteciparono attivamente anche curdi iraniani. Questa interdipendenza storica tra le varie componenti del popolo curdo rende necessaria una lettura dialettica della questione. Alla luce di tutto ciò, il movimento curdo in Siria non può essere separato dal PKK. Si stima che tra i 60.000 combattenti delle forze curde siriane, 1.500 circa siano ex militanti del PKK. L’influenza del Partito dei Lavoratori del Kurdistan è però soprattutto di natura ideologica: le autorità del Rojava riconoscono Abdullah Öcalan come il leader per eccellenza. È il suo progetto politico, fondato sulla democrazia diretta, il confederalismo, il femminismo e l’ecologia, a ispirare oggi l’organizzazione del Rojava. Detto questo, il movimento curdo siriano non può essere ridotto al PKK.
Il PKK in quanto movimento armato sarà sciolto…
Esistono quattro livelli di PKK: il partito politico, che è molto ristretto, e la guerriglia, che conta all’incirca 12.000 combattenti. Il terzo livello è formato da una vasta rete di organizzazioni periferiche – la stampa, le organizzazioni giovanili, religiose e femminili – che coinvolgono decine di migliaia di persone e svolgono un ruolo fondamentale nella diffusione delle idee. Infine, un quarto livello comprende le centinaia di migliaia di persone che si identificano con il PKK senza farne organicamente parte. Sicuramente il livello militare è destinato a scomparire. Ma il nucleo politico non scomparirà: evolverà, forte della sua storia, della sua esperienza e della sua capacità di incarnare, per molti, la continuità della lotta curda. Anche le strutture periferiche, in particolare in Europa, resteranno attive. E il sostegno popolare resterà solido.
Abdullah Öcalan ha proclamato la fine della lotta armata e la dissoluzione del PKK. Come va interpretato questo annuncio alla luce delle recenti evoluzioni geopolitiche nella regione?
Non abbiamo ancora tutti gli elementi per comprendere. Bisognerà attendere per conoscere i termini dei negoziati condotti tra Abdullah Öcalan e lo Stato turco. Quel che è certo è che, dal punto di vista di Ankara, era importante riprendere il controllo della questione curda per evitare strumentalizzazioni esterne, in particolare da parte dell’ “imperialismo e del sionismo”. Una lettura sul breve termine di questa decisione rimanda quindi direttamente al contesto geopolitico attuale, in particolare alla guerra a Gaza e in Libano. La Turchia ha temuto che Israele potesse manipolare i curdi e la loro causa. Ma al di là di questa congiuntura immediata, bisogna adottare anche una prospettiva di lungo periodo. A ben vedere, Öcalan voleva porre fine alla lotta armata già venticinque anni fa. Aveva persino dato istruzioni esplicite in tal senso. Se questo processo non è andato a buon fine, è soprattutto a causa degli sconvolgimenti che hanno investito la regione: l’evoluzione politica interna della Turchia, la guerra civile in Siria, l’ascesa dell’Isis, la battaglia di Kobane. Dal 2015, la politica di Ankara nelle regioni curde della Turchia si è indurita molto, con repressioni massicce, la distruzione di intere città e arresti su vasta scala. Nonostante ciò, il progetto di Öcalan esiste da venticinque anni. Öcalan ha spiegato che il Novecento è stato il secolo delle due guerre mondiali, della repressione e del nazionalismo. Quando è nato il PKK l’idea della violenza rivoluzionaria era ampiamente accettata e il “marxismo-leninismo” era dominante. Oggi il contesto è radicalmente cambiato, così come la società curda. In quarant’anni il Kurdistan è passato da essere una società prevalentemente rurale a una società in larga parte urbanizzata. Le trasformazioni demografiche, sociali e culturali sono state profonde: la natalità è diminuita, è emersa una classe media, la produzione culturale curda – dal cinema alla letteratura, fino ai festival – ha conosciuto un notevole sviluppo, e la visibilità internazionale ha raggiunto livelli inediti. Il PKK ha trasformato la società curda oltre ogni previsione.
Nella sua dichiarazione, Öcalan ha insistito sulla democratizzazione della Turchia e sul riconoscimento dei diritti dei curdi. Ma anche in questo caso la realtà turca sembra dire altro…
Assolutamente. Oggi la Turchia presenta la questione curda non come un problema nazionale, ma unicamente come una questione di terrorismo. Cito sempre l’esempio della Spagna tra il 1975 e il 1978, all’indomani della morte di Franco. Questo periodo segna l’inizio della transizione democratica spagnola, che si è fondata su due pilastri: l’accettazione della democrazia come sistema legittimo da parte di tutte le forze politiche, con la rinuncia della destra franchista al franchismo e della sinistra rivoluzionaria alla rivoluzione; e, parallelamente, la legittimazione della questione catalana e basca. I due processi si completavano a vicenda. Al contrario, oggi in Turchia si tenta di risolvere la questione curda riducendola a un problema di sicurezza. Quando si osserva ciò che accade a Istanbul, o gli attacchi verbali di Erdoğan contro il principale partito d’opposizione – oggi la prima forza politica del Paese – ci si rende conto che la Turchia è ancora molto lontana da un processo di democratizzazione vero.
Può commentare l’arresto di Ekrem İmamoğlu? A suo avviso, quale futuro politico attende Erdoğan?
Non farò previsioni. Dirò solo due cose: il regime è esausto, totalmente isolato e incapace di produrre un discorso politico. Per di più l’economia va molto male. Nel 2019 Erdoğan aveva promesso che, se avesse incassato nuovamente la fiducia del popolo, avrebbe risolto i problemi economici in tre mesi. In quel momento, però, era già al potere da diciassette anni e la situazione economica è andata sempre peggiorando. La Turchia si è trovata in conflitto a turno con Israele, la Russia, l’Egitto, gli Stati Uniti, gli Emirati, l’Arabia Saudita. Il PKK, un tempo nemico assoluto, è oggi al centro di negoziati. Il regime sta perdendo credibilità e sta invecchiando, non solo in senso biologico, ma anche a livello di idee, strutture e capacità di rinnovarsi. Erdoğan ha impedito sistematicamente l’emergere di nuove figure nel suo entourage: il suo partito si è sclerotizzato. Questa situazione ricorda L’Autunno del patriarca di Gabriel García Márquez. In questo romanzo, un regime dell’America centrale, ormai in stato comatoso, continua a firmare decreti, amministrare la giustizia e corrompere; funziona senza una vera vita politica. Ho l’impressione che la Turchia si trovi in una situazione analoga. Il dramma turco è che la stessa opposizione non è democratica. Una parte di essa è ultranazionalista, l’altra ultra-islamista. Ci sono diversi partiti nazionalisti turchi, alcuni partiti islamisti e un partito principale di opposizione, il CHP, che cerca di portare avanti un progetto democratico, ma è anch’esso diviso al suo interno. La vera domanda è la seguente: la Turchia conoscerà, come la Spagna post-franchista nel 1975, un momento in cui tutte le forze politiche comprendono che il futuro del Paese può essere concepito solo all’interno di un quadro democratico comune?